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All'ultimo stadio

Maurizio Stefanini

Prima di Tor di Valle. Dall’Erbetta secca alla Piazza d’armi al Parco dei daini: cosa non s’è fatto a Roma per avere un campo di calcio

"Storia d’amore e di coltello”, era il sottotitolo di “Er più”: famoso film del 1971 di Sergio Corbucci un po’ deturpato dall’improbabile romanesco di Adriano Celentano, ma per il resto accurata ricostruzione della Roma umbertina al passaggio tra XIX e XX secolo. E proprio in quell’epoca la storia del calcio a Roma e dei relativi stadi inizia appunto a coltellate. Non quelle metaforiche che sono volate tra diverse cordate grilline a proposito dello stadio di Tor di Valle, ma coltellate vere che si accanivano sui palloni, nel famoso racconto che ne fece Gianni Brera nella sua “Storia critica del calcio italiano”, quando parla delle origini di “una Società podistica Lazio che a partire dal 1900 ha allargato l’attività al calcio”. “Roma capitale è ancora abbondantemente paesana”, spiegava. “I suoi bulli sono di antico e rozzo stampo plebeo. Quando sulla sinistra del Tevere si disegnano i primi terreni da gioco, i bulli ‘ce vanno a fa’ du’ risate’: se i bravi signorini che danno di piede fanno tanto di ribellarsi, il pallone viene squarciato col serramanico: e come al calcio non si addice il clima della passatella, per il momento conviene che i signorini di riva destra abbozzino ‘boni boni’”.

 

La Lazio non porta il nome della città, ma di una regione che al tempo della sua fondazione neanche esisteva come entità amministrativa. Neanche i suoi colori sono indigeni ma presi dalla bandiera greca in onore dello spirito olimpico, anche se in compenso l’aquila è effettivamente un antico simbolo delle legioni e dell’Impero. In più ha pure vinto meno scudetti, meno Coppe Italia, meno Supercoppe e meno derby della Roma, oltre ad aver avuto una media piazzamenti complessivamente minore. In compenso ha vinto di più in campo internazionale; è praticamente l’unica grande squadra di calcio italiana ad essere una vera polisportiva, con 46 discipline che ne fanno anche la polisportiva più grande e più antica d’Europa; e, soprattutto, insistono i suoi tifosi, è la squadra più antica di Roma. Risposta dei romanisti che hanno letto Brera: appunto col non volersi dare il nome della città il club “più antico” avrebbe rivelato un’insensibilità identitaria tale da meritarsi quelle coltellate, in attesa che la “Maggica” nascesse. Polemiche tifose a parte, effettivamente quella Lazio pionieristica girava da uno stadio all’altro in maniera così vorticosa, da far sospettare che qualche problema con gli spettatori ci fosse. Secondo quanto ricorda Lazio Wiki, “il progetto enciclopedico sulla S.S. Lazio”, il presumibile luogo delle coltellate fu l’“Erbetta secca”. Cioè, uno spiazzo di Villa Borghese, tra gli attuali Museo di Villa Giulia e chiesa di Sant’Eugenio. “Non era un vero e proprio campo in

Una Società podistica Lazio dal 1900 allarga la sua attività al calcio: i colori presi dalla bandiera greca in onore dello spirito olimpico

quanto privo di ogni servizio”, ammette Lazio Wiki. “Ma la sua ampiezza e una certa regolarità del fondo potevano renderlo adatto allo scopo”.

 

Altro che le cubature, i grattacieli e il business park del progetto di Tor di Valle! Per evitare i coltelli, i laziali traslocarono in mezzo ai fucili: quelli dei soldati che ogni mattino marciavano nella Piazza d’armi tra gli attuali viali Carso, Angelico, delle Milizie e Lungotevere Oberdan, lasciandola il pomeriggio libera per gli sportivi. Lì il falegname Alberto Canalini sistemò le prime porte di legno da lui realizzate in una bottega che aveva vicino, e lì nel 1904 si svolse la prima partita di calcio ufficiale giocata a Roma: Lazio-Virtus 3-0. Ma nel 1911 la Piazza d’armi fu requisita per ospitarci i padiglioni dell’Esposizione per i 50 anni del Regno d’Italia, e alla fine dell’evento il famoso sindaco Ernesto Nathan vi fece edificare il quartiere Prati. Nuovo trasloco, dunque, al Parco dei daini, anch’esso all’interno di Villa Borghese. Dei daini, perché fino a tutto l’800 ci avevano corso daini e gazzelle. Poi abbandonato e riempitosi di detriti, l’allora presidente biancoazzurro Fortunato Ballerini se ne fece assegnare formalmente la concessione dal comune, e nominò vicepresidente un maggiore del Genio del Regio esercito, che per ringraziare mandò a sistemare il campo un plotone di zappatori. Ma più potente del maggiore era il prefetto di Roma Angelo Annaratone, la cui moglie Clementina Utili fu colpita inopinatamente da una pallonata in faccia una mattina del 1913, mentre passeggiava incautamente in carrozza durante un acceso Lazio-Audace. L’ordine di sfratto arrivò inesorabile il giorno dopo.

 

In via provvisoria la Lazio si risistemò accanto al Tiro a segno Farnesina, dove giocò una delle finali del campionato 1913-14. Lo stadio di proprietà era però sempre più necessario, e come ha fatto adesso Pallotta, Ballerini si rivolse al Comune. Più decisionista di Virginia Raggi, Ernesto Nathan trovò subito un terreno demaniale nel quartiere Flaminio. Costo: 30 lire al mese per il campo, più altre 30 per un’area lungo il Tevere per fare nuoto e canottaggio. Altre 300 lire per sistemare e recintare le mise Goffredo Magistrelli, un tifoso dell’epoca che aveva fatto i soldi in America, anche se non tanti quanto Pallotta. E così nacque lo stadio Rondinella, dall’insegna di un’osteria ottocentesca che si trovava nei paraggi. Prima partita il 1° novembre

Nel 1904 la prima partita di calcio ufficiale giocata a Roma. A Villa Borghese, una pallonata in faccia alla moglie del prefetto

1914. Trasformato in orto di guerra dopo il 24 maggio 1915, nel 1919 fu ristrutturato con materiale lasciato dalla Croce Rossa americana, e nel 1929 divenne di piena proprietà della società.

 

All’epoca Roma era una città in cui, come nella Londra di oggi, le squadre erano molte, ognuna con uno stadio diverso. La Fortitudo, squadra “cattolica”, giocava infatti al campo della Madonna del Riposo, dove in mancanza di docce i giocatori si lavavano spartanamente con acqua fredda di tubo. L’U.S. Romana stava al Campo dell’Olmo, presso l’attuale piazza Maresciallo Giardino. L’Alba, fondata dal padrone di un’osteria, iniziò col campo di piazza Melozzo da Forlì e poi passò al campo di Centocelle, poi assorbito dall’omonimo aeroporto. La Pro Roma si appoggiava al campo di Porta San Paolo, dietro alla Piramide Cestia. Il Roman, squadra della buona società, aveva il campo Due Pini, tra gli attuali Auditorium e viale Tiziano. Virtus e Juventus Romana avevano giocato al velodromo Salario, peraltro già abbattuto nel 1904. E c’era anche il motovelodromo Appio, per arrivare al quale dalle fermate di Porta San Giovanni bisognava farsi ben 4 chilometri a piedi: caso più unico che raro di una struttura sportiva che costringeva al moto anche i tifosi più sedentari. Già campo dell’Audace, finì all’Alba con la fusione tra le due società. Nel frattempo la Fortitudo assorbì la Pro Roma, che già aveva assorbito la U. S. Romana. Infine il 7 giugno 1927 nacque la Roma, con la confluenza del Roman, che mise la maglia giallorossa, della Fortitudo, che mise il simbolo della Lupa, e dell’Alba, che diede appunto lo stadio.

 

Piazza d’Armi, velodromo, motovelodromo, tiro a segno, anche il cinodromo che coabitava col calcio alla Rondinella: come si vede, i bilanci ancora tirati di quel calcio pionieristico imponevano di sfruttare le strutture fino all’osso. Se non di andare direttamente nel verde: Erbetta secca, Daini, Olmo, Due Pini. In fondo, a Ottorino Respighi non sarebbe stato difficile aggiungere uno “Stadi di Roma” come quarto capitolo da aggiungere alla sua Trilogia romana, assieme a “Fontane di Roma”, “Pini di Roma” e “Feste romane”. Una canzone, però, fu davvero dedicata a quel campo Testaccio che la Roma si diede nel 1929, dopo essere transitata per alcune giornate anche nel laziale Rondinella. “Campo Testaccio / ciai tanta gloria, / nessuna squadra ce passerà. / Ogni partita/ è ’na vittoria, / ogni romano è n’bon tifoso e sa strillà”. E anche un film: “Cinque a zero”, diretto da Mario Bonnard nel 1932, e ispirato al memorabile risultato inflitto alla Juventus il 15 marzo del 1931. Progettato dall’ingegner Silvio Sensi, padre del Franco presidente del terzo scudetto, era ispirato al modello degli stadi inglesi, e in particolare a quello dell’Everton: quattro tribune di legno verniciate in giallo e rosso, con una capienza di 20 000 spettatori; un campo in erba; le cui dimensioni potevano essere regolate in base alle esigenze della squadra; e perfino l’abitazione dell’allenatore, sul cui muro esterno era dipinto uno stemma gigantesco della società giallorossa. I biglietti erano costosi, ma il campo era comunque spesso esaurito, e chi non entrava si arrampicava sul monte dei Cocci, anche se la tettoia della tribuna lasciava vedere solo metà del campo. “Cor core acceso… da la passione / undici atleti Roma chiamò / e sott’ar sole der Cuppolone / ’na bella maja e du’ colori je portò. / Li du’ colori de Roma nostra / oggi signora der futtebbal, / non più maestri né professori / mo’ so’ dolori / perché Roma ce sa fa’”, proclamava la canzone prima di fare i nomi dei calciatori e perfino del presidente Sacerdoti: banchiere ebreo poi incappato nelle leggi razziali, ma tornato a rilanciare la squadra negli anni Cinquanta. Da Roma-Brescia 2-1 del 3 novembre 1929 a Roma-Novara 3-1 del 2 giugno 1940 la Roma sul campo Testaccio giocò 161 partite, vincendone 103 e perdendone solo 26. Con due secondi posti, due terzi e un quarto fu la miglior Roma prima dell’èra Viola, visto che tra anni Quaranta e anni Ottanta la squadra riuscì solo a aggiungerci il pur storico scudetto del

Nel 1927 Roman, Fortitudo e Alba confluiscono in un’unica società: nasce la Roma. Due anni dopo si diede il campo Testaccio

1942 e i due estemporanei terzi posti del 1955 e 1975. Anche la collocazione in uno dei quartieri più popolani contribuì potentemente al decollo identitario della squadra, e alla sua crescente identificazione con la città.

 

Intanto, però, al fascismo gli stadi iniziavano a servire anche per altre cose. Già quando ancora Mussolini finiva in galera come pacifista per la sua protesta contro la guerra di Libia, nel 1910 il futuro grande ideologo del monumentalismo di regime Marcello Piacentini proprio accanto al Rondinella aveva progettato uno stadio Nazionale poi inaugurato nel 1911. Presto fatiscente per via di una realizzazione affrettata, fu però ristrutturato nel 1927 in modo da raggiungere una capienza di 50.000 spettatori. Equipaggiato perfino con una piscina all’aperto oltre che di tribuna coperta, palestre, pista di atletica trasformabile in pista in legno per biciclette, spogliatoi, foresterie, sale per conferenze e pretenziose statue bronzee eseguite dallo scultore Amleto Cataldi, prese il nome ancor più pretenzioso di stadio del Partito nazionale fascista. Nel 1931 fu affidato al Coni, ma nel 1932 a forza di insistere che era la più antica squadra della capitale e che come polisportiva poteva valorizzarlo meglio riuscì a farselo dare la Lazio: senza rinunciale al Rondinella, ma col tempo usandolo sempre più per i soli allenamenti, fin quando nel 1958 non fu demolito per fare spazio al parcheggio del Flaminio. In quella cornice gli Azzurri vinsero i Mondiali del 1934, battendo nel finale la Cecoslovacchia per 2-1. Quanto alla Roma testaccina, purtroppo a un certo punto la tribuna di legno dei distinti iniziò a cedere, e così nel 1937-38 anche i giallorossi si spostarono per un po’ allo stadio del Pnf. Poi tornarono a casa, con una nuova tribuna in cemento. Ma ormai erano i posti a essere troppo pochi per un pubblico di tifosi sempre più numeroso, e così il 21 ottobre del 1940 il Testaccio fu definitivamente demolito. Hanno provato a rifarlo nel 2000 Rutelli e Sensi, più piccolo e in posizione diversa. Nel 2008 per la costruzione di un parcheggio sotterraneo anche il nuovo Testaccio è finito in abbandono.


L’inaugurazione dello stadio Nazionale, nel 1911. Ristrutturato nel 1927, prese il nome di stadio del Partito nazionale fascista, nel ’32 andò alla Lazio, nel ’58 fu demolito


Dal 1940, dunque, la Roma rinuncia anch’essa allo stadio proprio, e si mette a dividere con la Lazio lo stadio del Pnf, fino al 1957. Ovviamente, dopo il 25 luglio il nome fu cambiato in stadio Nazionale, e dopo la tragedia di Superga fu informalmente dedicato al Grande Torino. Anch’esso fu infine demolito nel 1957, dopo che aveva iniziato a cedere. Morte e trasfigurazione, visto che al suo posto sorse lo stadio Flaminio. Nel frattempo, però, era stato inaugurato nel 1953 lo stadio Olimpico, anche se il progetto risaliva addirittura al 1927. Firmato da Enrico Del Debbio e battezzato stadio dei Cipressi, dopo la ristrutturazione fatta nel 1937 da Luigi Moretti era stato utilizzato soprattutto per le manifestazioni di regime. Autoparco degli Alleati durante l’occupazione di Roma, nel 1949 il Coni incaricò Annibale Vitellozzi di un ampliamento che lo fece rinominare stadio dei Centomila. Ma poi divenne l’Olimpico, con l’assegnazione all’Italia dei Giochi del 1960. Inaugurato col calcio il 17 maggio 1953, e tra l’altro con una rovinosa sconfitta per 3-0 degli Azzurri contro la travolgente Ungheria di Puskás, da subito divenne lo stadio di riferimento di Roma e Lazio, anche se il torneo calcistico olimpico di Roma si fece al Flaminio, mentre l’Olimpico ospitò le gare di atletica. Ma in entrambi gli stadi si è fatto anche molto rugby, in entrambi si sono anche fatti concerti e altri eventi, e al Flaminio sono tornate a giocare Roma e Lazio nel 1989-90, mentre si facevano i lavori di ristrutturazione dell’Olimpico per i Mondiali del 1990. Al Flaminio hanno giocato squadre di calcio minori come Lodigiani e Atletico Roma, e si è fatto perfino football americano con i Marines Lazio. Negli ultimi anni è stato abbandonato, malgrado la classificazione come bene culturale

Dal 1940 le due squadre si dividono lo stadio del Pnf e poi lo stadio dei Centomila, che diventerà l’Olimpico

e vari progetti per farne una sorta di museo. Recenti servizi televisivi lo hanno descritto come “un campo di patate” devastato da vandali.

 

Quanto all’Olimpico, con la ristrutturazione del 1990 è stato coperto, ma pure ridotto dai mitici 100.000 posti a 89.922. Che è comunque molto di più rispetto ai 52.000-60.000 previsti nei vari progetti per Tor di Valle: ma si sa che ormai molti tifosi le partite le vedono in tv. Alcuni architetti obiettano anche che l’innalzamento delle gradinate e la realizzazione della copertura hanno stravolto completamente i principi secondo i quali il precedente stadio era stato pensato e costruito. Comunque già da prima della ristrutturazione la Roma di Viola aveva iniziato a pensare a uno stadio proprio. “Lo stadio Olimpico di Roma è molto bello, ma dalle curve per vedere la porta dal lato opposto ci vuole un buon binocolo”, aveva spiegato nel 1987 sull’Europeo un tifoso illustre come Giulio Andreotti. Viola pensò all’inizio a un’ansa del Tevere verso sud, nella zona di Magliana vecchia: poi alla Romanina, allora di proprietà di Italcable. “E’ un mio regalo alla città”. Ma l’ambientalista Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra e allora deputato della Sinistra indipendente, gli mobilitò contro il Pci, e il sindaco dc Nicola Signorello non se la sentì di dare l’ok. Più di recente è venuto da Lotito il progetto di uno stadio delle Aquile da far fare su suoi terreni sulla Tiberina, che avrebbe donato alla Lazio senza chiedere nulla in cambio. Anch’esso fu bocciato, ma adesso con il compromesso sul Tor di Valle se ne riparla. Sarebbero 40 ettari con parcheggi e una cittadella con impianti per la polisportiva. Il problema è che gli hanno proposto Montespaccato o Tor Vergata, mentre Lotito insiste sulla Tiberina. Quanto all’Olimpico, gira un’idea di farne lo stadio della Nazionale. Il Wembley italiano…

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