La Rai e il modulo Kessler
I programmi della tv di stato non offendono più il “comune senso del pudore” ma “discriminano”. Ogni scandalo però nasconde un doppio fondo
Poco più di un anno fa, commentando l’insediamento alla presidenza di viale Mazzini, Monica Maggioni disse che l’obiettivo della Rai era “diventare sexy”. “Sexy all’inglese”, precisò subito. Quindi “attraente, appetibile, in grado di parlare un po’ a tutte le fasce di pubblico”. Gli autori di “Parliamone sabato” l’hanno presa in parola ma faticano a staccarsi dal “sexy all’italiana” della linea Buzzanca-Lino Banfi-cinepanettoni. Scorrendo la lista dei “motivi per scegliere una fidanzata dell’est” riecheggiano titoli memorabili come “La schiava io ce l’ho e tu no”, “Quando le donne persero la coda”, “L’isola delle svedesi”, e giù via fino a “Occhio alla Perestrojka”, caposaldo del filone “gli uomini preferiscono le slave”, con Jerry Calà e Ezio Greggio in trasferta in Bulgaria. C’è chi dice che dietro la decisione di fermare il programma ci sia la mano di Laura Boldrini. Di certo, la presidente della Camera evocherebbe il femminicidio anche in un post sul “Vedovo” di Risi o “Divorzio all’italiana” di Germi se uscissero al cinema oggi. Quello che prima ci scandalizzava col tempo ci fa sorridere, ma nell’epoca del politicamente corretto è ancora più vero il contrario. L’ostinata difesa del pudore nella Rai degli anni Sessanta fa tenerezza, ma sarebbe anche complicato spiegare ai dirigenti democristiani di una volta come mai sia stato chiuso “Parliamone sabato”, anche perché la pietra dello scandalo non è un paio di cosce, un ballo lascivo, una bestemmia (come quella che costò l’esilio a Leopoldo Mastelloni) ma una slide. La storia dei programmi chiusi dalla Rai è la storia delle trasformazioni sociali, culturali e politiche del nostro paese ma anche di ciò che resta sempre uguale a sé stesso.
La storia dei programmi chiusi dalla Rai è la storia delle trasformazioni sociali, culturali e politiche del nostro paese
“Deplorato dalla dirigenza, da molti telespettatori e dall’organo dell’Azione Cattolica”, chiudeva nel 1956 uno dei primi varietà prodotti dalla televisione. Si intitolava “La piazzetta”, lo firmava la coppia Marchesi-Metz, lo presentavano Riccardo Billi e Mario Riva. Lo scandalo arrivò al culmine della terza puntata, dopo un numero della ballerina, Alba Arnova, nome che già rimanda a un’esotica “fidanzata dell’est”, perfetto per scandalizzare l’Italia presa tra la paura del comunismo e la fascinazione per Stalin, anche se lei era nata a Buenos Aires, era figlia di immigrati italiani e all’anagrafe si chiamava Alba Fossati. Al culmine del successo, dopo aver lavorato per il cinema con Mario Soldati, Mattioli, De Sica e Zavattini, la sua vita cambia per sempre per colpa di un paio di calze color carne. Viste alla televisione in bianco e nero le calze danno l’illusione di un paio di gambe nude, come nella pubblicità degli occhiali a raggi X sull’Intrepido degli anni Settanta. Una scena inaccettabile per la Rai di Filiberto Guala, primo amministrato delegato di Viale Mazzini, proveniente dall’ala torinese, messo a capo della nuova azienda “per cacciare pederasti e comunisti” o almeno così vuole la leggenda. Alba Arnova prova a difendersi ma se la prendono solo con lei. Ha agito di suo pugno e scelto “una calzamaglia color rosa completata da un costume di velluto”, dicono i giornali. “La vastità del palcoscenico fa sfuggire particolari che lo schermo del televisore avvicina”, precisò Mario Riva per placare gli animi. Una storia che fa tenerezza per ingenuità mista a una scarsa conoscenza tecnica del mezzo dei pionieri della tv. Dietro le calze della Arnova però c’erano anche le trame oscure del “complotto dei mutandoni”, nome in codice della macchinazione per silurare Guala. Amministratore integerrimo, incorruttibile, ma poco malleabile sul piano politico. Mentre l’Osservatore romano scriveva che “le coreografie del varietà violano i Patti Lateranensi”, funzionari pugnalatori facevano indossare atroci mutandoni alle ballerine per aizzare lo sdegno dei laici (“La Rai di Guala prende ordini dal Vaticano!”). Altri programmi prima di essere chiusi sfuggivano inspiegabilmente di mano per qualche puntata, come “Casa Cugat”, ideato da Sergio Pugliese per la coppia Abbe Lane e Xavier Cugat lanciatissima su mambo, tette in vista e sculettamenti cubani inauditi per la Rai democristiana. Isolato e messo alla gogna come unico responsabile del degrado morale, Guala rassegna le dimissioni. Quattro anni dopo, disgustato dal mondo e dalla televisione, si fa frate trappista e entra nel convento delle Frattocchie. Una parabola esemplare. Un’allegoria portentosa dell’epica della Rai. Un giorno, sulla scia dell’indignazione per il sessismo, Campo Dall’Orto potrebbe diventare cappellano di Scientology e Daria Bignardi ritirarsi a fare yoga a Kedarnath.
Nella Rai degli anni Sessanta le gambe facevano molti più danni delle liste. “Non si doveva mai vedere la pelle”, ricordano spesso nelle interviste le gemelle Kessler. “Quando facevamo la prova generale, c’era sempre un funzionario del Vaticano che vigilava. Se qualche scollatura era troppo profonda, qualche parola troppo spinta, lui segnalava, e gli autori cambiavano”. Le loro apparizioni a “Giardino d’inverno” e “Studio Uno” facevano tremare i polsi ai dirigenti democristiani. Si misuravano centimetri di carne, forme, trasparenze delle calze. Ci si muoveva sul filo della censura ma intanto si modernizzava il paese. Sotto il principio di rassicurazione c’erano smottamenti più profondi di cui in pochi si rendevano conto, meno di tutti quegli intellettuali che si abbandonavano a riflessioni dolenti sull’agonia dell’occidente. “Sono convinto che in questa società non ci sia più niente da fare”, scriveva Paolo Volponi in una lettera inviata alla rivista Lettura, “la società è perduta, come è perduto tutto l’occidente, per stare meglio possono bastare le gemelle bionde alla Tv ma allora cambiano tutte le prospettive”.
La “prospettiva Kessler” era quella di una trasformazione del costume che poteva passare solo attraverso lo schermo dell’esotismo. La biondezza, la spregiudicatezza, la disinibizione delle svedesi (Anita Ekberg), delle francesi (Catherine Spaak), delle tedesche (le Kessler) erano la proiezione immaginaria del nostro senso di inferiorità verso società più avanzate. Un monito ma allo stesso tempo un invito all’emancipazione femminile. Un misto di attrazione e paura che mandava all’aria le sicurezze del maschio italiano, nutrendo una cronaca che “La dolce vita” di Fellini aveva trasformato in opera d’arte. “Oggi nelle nostre campagne e province tre quarti delle donne non si offrono nude nemmeno agli occhi del marito, e durante le caste, parziali abluzioni, nemmeno ai propri”, raccontava un articolo del Corriere che provava a fare il punto sull’isteria collettiva per le Kessler. Le gemelle tedesche invece “lo mettono in maliziosa evidenza, insinuano nell’animo un fermento, un eccitamento ilare, quel piacere d’esser donne che vanno finalmente guarendo le nostre provinciali, le nostre campagnole, le nostre montanare, liberandole da quei pesanti paludamenti mortificatori”. Insomma, un “niente tute né pigiamoni” scritto meglio e costruito come un incitamento alla gioia: “Se papà torna a guardare mamma come in certe primavere è per le gambe delle Kessler; se mamma, ritrovando anch’essa le primavere che credeva perdute, torna per un’ora a sentirsi donna e cerca nel cassetto la camicia da notte a fiori ormai da tempo sepolta nella naftalina è per le gambe delle gemelle Kessler”. I programmi chiudevano, però sapevamo scriverli. Il pallino dell’indignazione ce l’aveva la chiesa, non la rete.
Le calze della ballerina Alba Arnova e l’illusione delle gambe nude. Una scena inaccettabile per la Rai di Filiberto Guala
Sarte e costumisti della Rai correggevano gli abiti della Carrà per “Canzonissima”. Sui rotocalchi circolavano le fotografie di scena coi vestiti scollati che non avremmo visto in tv. A “Milleluci” si rischiava la chiusura per gli slip di Mina. “Tagliata la scena del can can”, titolavano i giornali per poi descriverla con perizia chirurgica: “Sollevando la gonna Mina mostra un bel paio di mutandine nere di pizzo cui il regista Falqui con inopportuna e maliziosa zumata aveva dato imprevisto risalto. I funzionari di viale Mazzini hanno optato per un rifacimento totale”. Arbore veniva denunciato per “l’inno del corpo sciolto” di Benigni e lo spogliarello di Andy Luotto durante “L’altra domenica una tantum” (1974). “Vedere un uomo spogliarsi è degradante”, scandiva l’accusa. Già, Arbore. Chissà oggi che prendiamo sul serio il filosofo Diego Fusaro in tv come se la passerebbe con le ragazze coccodè di “Indietro tutta”.
Attenti agli slip di Mina. Negli anni Sessanta ci si muoveva sul filo della censura ma intanto si modernizzava il paese
All’alba delle televisioni libere non erano rari i sabotaggi della Rai. Nel 1976, “Aria di mezzanotte”, trasmissione irradiata da Tele Alto Milanese curata da Enzo Tortora e presentata da Anna Maria Rizzoli tra le lenzuola promette uno spogliarello a mezzanotte che sul più bello viene interrotto da un almanacco coi castelli d’Italia. Ma alla fine degli anni Settanta siamo già dentro al lento, implacabile slittamento dalla paura del sesso al terrore del sessismo. L’indignazione si parcellizza in categorie sociali, identità di genere, etnie, secondo un “paradigma della vittima” innescato dalle rivendicazioni “liberal” che rileggono la storia come una sopraffazione dei bianchi sui neri, del sistema patriarcale sulle donne, degli etero sui gay e così via. I programmi della Rai non offendono più “il comune senso del pudore” ma “discriminano”. Ecco i gay contro Maria Giovanna Elmi, le casalinghe contro Moana Pozzi. Le comunità omosessuali chiedono il licenziamento della presentatrice, colpevole di aver presentato lo sceneggiato, “Il funzionario nudo” di Jack Gold, avvertendo il pubblico che il film era bello ma con scene scabrose. La Federcasalinghe si scaglia contro Moana Pozzi per la chiusura di “Jeans”, rubrica pomeridiana di RaiTre. “Non vogliamo adire le vie legali contro Moana Pozzi”, spiegano in un comunicato, “anche se ha fatto una scelta di vita facile al contrario di noi che restiamo in casa a condurre un’esistenza dura. Noi siamo contro la Rai, perché il suo ruolo dovrebbe essere quello di educare gli spettatori”. Quando nel 1990 un’associazione della cosiddetta “società civile” chiede l’allontanamento di Lilli Gruber dal telegiornale per una foto su “Novella 2000” in cui prende il sole con le tette all’aria a Capalbio siamo di fronte a un ultimo, crepuscolare rantolo del bigottismo democristiano. Il politicamente corretto sta imponendo altri temi. Lo stacco di coscia di Alba Parietti è di sinistra, consapevole, autonomo. Le sculettate di Pamela Prati al Bagaglino restano maschiliste, reazionarie, pecorecce, cioè di destra.
“Non trasmettere più Miss Italia è una scelta moderna e civile”, dirà Laura Boldrini commentando la chiusura del programma sulla Rai, ritrovando la tempra inquisitoria di Filiberto Guala benché mutata di segno. L’esposizione del corpo delle donne non tormenta più il nostro comune senso del pudore, ma la coscienza civile. Se poi c’è di mezzo la televisione, tutto viene drammatizzato, esasperato e mal sceneggiato.
Alla fine degi anni Settanta siamo già dentro al lento, implacabile slittamento dalla paura del sesso al terrore del sessismo
“C’è qualcosa più grande di me, mi hanno messo in mezzo”, ha detto Paola Perego commentando la chiusura del suo programma; “gli argomenti in Rai vengono approvati prima di essere messi in onda dal capostruttura, dal direttore di rete. Mi hanno approvato questo argomento e mi hanno cassato il femminicidio perché non volevano che ne parlassimo, perché non era in sintonia con la linea editoriale”. Così rimbalziamo dal femminicidio del post di Laura Boldrini a quello delle lacrime di Paola Perego. Forse è come dice lei. Forse è un “complotto delle slave” per silurare il marito e agente Lucio Presta, come lo fu quello dei mutandoni per liberarsi di Guala. Forse ha ragione Eva Henger, la fidanzata dell’est più amata dagli italiani, che rivendica pigiamone e orsacchiotti, non si sente offesa e non capisce il clamore suscitato dalla lista. Forse poteva essere un’occasione per chiedersi come rivitalizzare il daytime di RaiUno, come frenare la decadenza dei talk, un formato in caduta libera, morto, vuoto, privo di idee ma che pare inamovibile dai palinsesti. Forse ci si poteva interrogare sul lavoro degli autori, quantomeno quelli di “Parliamone sabato”. Creativi stipendiati per scrivere testi e trovare idee mentre raschiano il fondo del barile su internet, rubano battute sui social o copiaincollando liste da siti trash. Però l’occasione era troppo ghiotta. Vuoi mettere una bella crociata in difesa delle donne mentre ne mettiamo alla gogna un’altra?
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