Armonia di startup
Nelle campagne di Treviso, H-Farm mette insieme innovazione, industria e istruzione. Come potrebbe essere il sistema Italia
Poche persone in Italia sono qualificate a parlare di startup e innovazione quanto Riccardo Donadon. 49 anni, trevigiano, Donadon ha molti primati a suo nome. Nel 1997, quando lavorava in partnership con Benetton, fece la prima vendita in e-commerce nella storia italiana (un integratore alimentare). Nel gennaio 2005 fonda un acceleratore di startup che ancora oggi è il fulcro di tutte le sue attività, H-Farm, e lo fa con qualche mese di anticipo su Y Combinator, il leggendario acceleratore con sede nella Silicon Valley, modello invidiato e imitato – oggi, quelli di H-Farm dicono che il loro è il primo acceleratore di startup del mondo, di certo lo è in Europa, oltre a essere uno dei più grandi del Vecchio continente. Donadon è intervenuto in qualità di consigliere ed esperto di innovazione in innumerevoli contesti eminenti, non da ultimo la task force sulle startup voluta nel 2012 dal governo Monti, e insomma: quando si parla di startup, la sua voce è autorevole.
Per questo, quando il Foglio gli chiede se alle condizioni attuali può nascere in Italia una società innovativa come Tesla, il parto intellettuale del genio americano Elon Musk, che ha fatto delle auto elettriche hi-tech un bene di lusso desiderato dall’aristocrazia mondiale, la sua risposta è spiazzante. Donadon è un uomo articolato. Le sue risposte sono sempre lunghe, e si vede che prima di parlare cerca di risolvere in anticipo ogni possibile obiezione dell’interlocutore. Per questo il suo “no” non è diretto – non lo pronuncia mai – ma la conclusione rimane la stessa: allo stato attuale, in Italia è quasi impossibile che nasca una nuova Tesla. (Nota: il Foglio ha incontrato Donadon dapprima tra le aiuole di H-Farm, ma il grosso della conversazione è avvenuto al telefono. Il discorso sulla Tesla è avvenuto mentre Donadon guidava la sua, di Tesla, o meglio: lui parlava mentre “io non la guido, mi sta guidando lei”).
Riccardo Donadon, 49 anni, fondatore di H-Farm, è uno dei massimi esperti in Italia di startup ed economia dell’innovazione
“Non dico che un’impresa come Tesla non si possa fare: secondo me l’ingegno in Italia c’è tutto”, dice Donadon. “Però non ci sono i capitali pronti a rischiare. Non ci sarebbero per imprese visionarie come non ce ne sono per realtà che sono solide e che già fanno profitto. I numeri che oggi fa Tesla, in termini di finanziamenti, non sono italiani né tantomeno europei. Da noi c’è una sfiducia irrazionale verso l’innovazione e verso il futuro: non è tipico del nostro paese o dell’Europa credere in questi sogni”. La conclusione, apparentemente, è amara: “L’accelerazione di startup come si deve si può fare solo in due posti nel mondo: la Silicon Valley e Israele. Altrove è possibile, ma servono o un mercato davvero maturo o finanziamenti pubblici ingenti”. Se il fondatore di uno degli acceleratori di startup più importanti d’Italia e d’Europa ci dice che fare accelerazione di startup fuori dalla Silicon Valley o da Israele è un gioco così rischioso che potrebbe non valerne la pena, il problema sembra esiziale.
Iniziamo dalle basi: un acceleratore di startup è una società che fornisce programmi di crescita e sviluppo alle startup, ospitando (anche fisicamente: i giovani imprenditori si trasferiscono nella sede dell’acceleratore), finanziando e sostenendo a tutti i livelli le idee migliori e i team che hanno maggiori capacità di eseguirle. In cambio dell’assistenza, l’acceleratore ottiene una piccola quota della proprietà della startup, così, se questa ha successo, fa i milioni o viene venduta ci guadagnano tutti.
Un po’ perché i giovani imprenditori vanno coccolati, un po’ perché il futuro deve essere bello per antonomasia, un po’ perché la Silicon Valley ha dettato la moda, gli acceleratori di startup sono quasi sempre posti stupendi. In questo senso H-Farm è uno dei migliori: partendo da un casale rustico ristrutturato e da un gigantesco podere a Ca’ Tron, comune di Roncade, nelle campagne a metà tra Treviso e la laguna di Venezia, Donadon ha costruito un piccolo paradiso perso nel nulla. Al casale originario si sono aggiunte man mano nuove strutture, tra cui un auditorium, una serra enorme che funge da mensa, più altri edifici in vetro e legno che servono da uffici alle startup e non solo. A H-Farm c’è un ordine quasi sovrannaturale. Le aiuole sono pettinate, dall’alto di quella che probabilmente era la torretta di un silos per il grano un altoparlante trasmette musica jazz di buon gusto. Giulia Franchin, capo della comunicazione di H-Farm, ci dice: “C’è una sola cosa che fa infuriare Donadon”, che è una persona dalla voce ovattata e dagli atteggiamenti miti, “ed è quando ci sono foglie per terra e i prati sono fuori posto. E in tutte le foto pubbliche delle nostre strutture la vegetazione deve essere verde: a H-Farm è sempre primavera”.
La sede di H-Farm vista dall'alto
Donadon racconta che il podere era stato preso in considerazione negli anni Novanta dalla Disney per costruire Disneyland in Italia. Il progetto è saltato, ma a Donadon, che è originario della zona e vive a pochi chilometri, il luogo è rimasto impresso. A partire dal 1995, in partnership con Benetton, Riccardo Donadon ha creato la prima piattaforma di e-commerce in Italia, il Mall Italy Lab. Dopo la fine del rapporto con Benetton, decide di mettersi in proprio e fonda E-Tree, una società che fornisce servizi digitali ai portali online delle grandi aziende. E’ il 1998, il boom della New Economy, e Donadon e i suoi vivono in piccolo il sogno – “adrenalinico”, dice – della prima grande bonanza tecnologica. L’azienda moltiplica il fatturato di semestre in semestre, raggiunge i 26 miliardi di lire, poi vende nel 2001. I ricavi sono reinvestiti in H-Farm, che aiuta decine di startup a crescere, investe mediamente due milioni di euro all’anno in idee innovative, si espande a Milano, Catania, Seattle. L’idea è quella del “giving back”, di un giovane imprenditore che ha avuto fortuna e vuole insegnare a imprenditori ancora più giovani a fare lo stesso. Il modello funziona, ma col passare degli anni diventa sempre meno sostenibile, o meglio: forse sostenibile sì, ma difficile da espandere e portare a livelli che assomiglino almeno da lontano a quelli americani.
Nella storia di H-Farm c’è un momento di rottura, intorno al 2012, che porta alle considerazioni apparentemente amare che aprono questo articolo. “La nostra strada era quella giusta, ma mentre negli altri paesi ci sono enormi facilitazioni per l’economia dell’innovazione, noi potevamo contare solo sulle nostre forze”, dice Donadon. “Per questo abbiamo allargato il nostro modello di business per dargli la stabilità necessaria a funzionare”.
H-Farm si quota in Borsa nel listino Aim e apre H-Farm Industry, che fornisce servizi digitali alle aziende. Oggi il settore Industry impiega la gran parte degli oltre 300 dipendenti di H-Farm e genera la stragrande maggioranza dei ricavi: i risultati economici di H-Farm nel 2016 sono usciti questa settimana, e dei circa 32 milioni di euro di ricavo totale il settore Industry ne fa più di 28. I numeri sono tutti in crescita, ma a livello di visione sembra una sconfitta. La Silicon Valley italiana che doveva nascere sul terreno di Disneyland è diventata una società innovativa che fornisce servizi alle aziende di tutta Europa, e che tiene le startup come “side business”. Donadon contesta questa descrizione, e mostra che la voce di bilancio destinata agli investimenti in startup non si è mai ridotta nel tempo, anzi è aumentata (da 2 a 3 milioni circa nel 2016): “Noi ci stiamo credendo un casino in questa cosa della Silicon Valley”, protesta Donadon. Il problema è che in Italia il business va ampliato ed equilibrato, “armonizzato”, dice. Non si può essere puristi dell’innovazione come fanno gli americani, anche se questo non significa essere poco innovativi. “In Italia il mercato sta maturando: rispetto a quando abbiamo iniziato, nel 2005, è cambiato tantissimo, ma ci vorrà una generazione perché si arrivi a una maturazione completa – e non è detto nemmeno che questo succeda, perché l’Italia e l’Europa nel loro complesso sono molto arretrate, e sulla scena mondiale non hanno contribuito con dei grandi operatori della tecnologia e del software. Qui da noi ci sono singole persone che hanno fatto cose eccellenti e imprese che hanno assunto livello di leadership internazionale puntando sui nostri asset migliori, ma il sistema non è ancora riuscito a generare grandi centri di innovazione”.
Donadon cita alcune differenze tra il mercato italiano ed europeo e quello degli Stati Uniti, che sono un paese di frontiera e non hanno paura di assumere un ruolo di leadership. Hanno un impianto giuridico, la common law, che aiuta questo tipo di propensioni: “Il diritto romano si preoccupa di proteggere l’imprenditore dai rischi, mentre la common law è ottimista, propositiva, ti aiuta a guardare il bicchiere mezzo pieno”. Questo si traduce nella difficoltà di far scattare la scintilla imprenditoriale: “La qualità delle idee non manca in Italia, ma i giovani imprenditori tendono a non ragionare in grande, giocano spesso in difesa e poco in attacco”.
E quindi come si fa innovazione in Italia? La prima cosa, si è detto, è “armonizzare” il business, accostando a un modello di rischio un modello di ricavo industriale. La seconda cosa è prenderli da piccoli.
L’altro grande progetto di H-Farm, il più ambizioso, è creare nella tenuta di Ca’ Tron un gigantesco campus scolastico e universitario, in cui i ragazzi sono seguiti dalle elementari al master di secondo livello (già adesso a H-Farm esistono alcune classi scolastiche, ma il grosso deve ancora essere costruito). Il progetto è già stato approvato, conta su un accordo da 101 milioni di euro con gli investitori e su una partnership con l’Università di Venezia. Ci sarà anche, immancabile, una biblioteca disegnata da un’archistar di grido. Descritta grezzamente, la ratio del progetto, che ha l’ambizione di diventare “il più importante polo dedicato all’innovazione a livello europeo”, è questa: se in Italia mancano una cultura dell’innovazione e la propensione al rischio, li creiamo noi, iniziando dalle basi. “Stiamo parlando di numeri molto piccoli per ora, a regime saranno 2-3 mila studenti, ma questo è un piccolo seme che si potrà allargare”, dice Donadon. Se ci vorrà una generazione perché in Italia il mercato dell’innovazione diventi maturo, conviene lavorare con una generazione d’anticipo.
Nel frattempo ci sono tante cose che si possono fare in Italia. Bisognerebbe “siliconvelleyzzare” il tessuto imprenditoriale, creando un ponte tra le imprese tradizionali che già ci sono nel paese e le forze giovani che si avvicinano all’attività imprenditoriale, propone Donadon. Le startup e l’economia dell’innovazione non devono essere trattate come chimere e tenute in una bolla, ma devono immergersi nel tessuto imprenditoriale che già esiste. Le imprese tradizionali e le imprese di stato dovrebbero essere incentivate a comprare startup e a mettersi in pancia più innovazione possibile, come succede in Israele – esce ancora il concetto di impresa armoniosa, che tenga insieme industria tradizionale e il rischio di innovare, e che alla fine, quasi, potrebbe diventare un modello per l’intero sistema Italia.
L’ultimo ingrediente necessario per fare innovazione in Italia è prepararsi prima degli altri ad accogliere il futuro. “Certi modelli stanno saltando”, dice Donadon. “Quello che succede nel settore bancario, per esempio, è simbolo sì di una debolezza sistemica, ma non si può curare soltanto rafforzando le infrastrutture. Bisogna cambiare il modello di business, perché è chiaro a tutti che tra dieci anni gli scenari saranno cambiati. Nel settore automotive, per fare un altro esempio, è chiaro che è già tardi per iniziare a ragionare sull’apporto della tecnologia e sul cambiamento dei rapporti di concorrenza. L’Italia dovrebbe fare in modo di essere il primo paese a recepire le innovazioni, non cercare di alzare muri per essere l’ultimo. Non ci si può nascondere, e ci sono provvedimenti da attuare immediatamente”. Donadon, sulla sua Tesla, parla di macchine che si guidano da sole, di parcheggi da ripensare, di urbanistica della città da rinnovare, di gestione dell’energia per le macchine elettriche. “C’è tanto da progettare e da fare. E io vedo un enorme bicchiere mezzo pieno di opportunità”.
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