I droni nell'orto
Come sarà, e in parte già è, l’agricoltura 2.0. Startup a convegno là dov’è nata l’insalata in busta e l’Italia ha portato il radicchio
San Francisco. A Menlo Park, a pochi chilometri dalla sede di Facebook, si sale su una collina un giorno piovoso di febbraio e si arriva al Quadrus center, centro congressi su un cucuzzolo che domina Silicon Valley dove normalmente si danno appuntamento startup e nerd d’alta gamma; e dove invece oggi sfila il Bilderberg dell’insalata.
Svg Partners, uno dei venture capital più conosciuti, tiene infatti un summit dedicato all’innovazione, ma non ci saranno Mark Zuckerberg o Travis Kalanick; bensì personaggi (anche magari più liquidi), alla guida però di multinazionali non dell’algoritmo ma dell’ortofrutta. Per il secondo anno consecutivo va in scena Thrive, mega raduno con oltre 500 startup ma anche colossi agricoli da tutto il mondo, e insieme aziende dell’elettronica e della finanza. I protagonisti insomma di quella che viene chiamata “Agtech” cioè l’agricoltura 2.0 o contemporanea, ingegnerizzata e finanziarizzata, che qui si ritrovano per fare networking, trovare occasioni di investimento, studiare i nuovi gusti dei consumatori e nuove tecnologie. “Abbiamo creato Thrive inizialmente come acceleratore di impresa per permettere alle startup di avere un servizio di tutoraggio da parte dei protagonisti del settore”, dice al Foglio Alberto Acito, partner di Svg e appena nominato capo della unità attrazione investimenti dell’Istituto del Commercio Estero a San Francisco. “Oggi è un vero e proprio ecosistema attorno al quale ruotano università, grandi aziende, investitori e naturalmente startup”. “Si parla sempre di Silicon Valley, ma difficilmente ci si ricorda che a Salinas Valley, neanche due ore di qui, si produce il 70 per cento dell’insalata del mondo, un’industria da 40 miliardi di dollari, un posto non a caso chiamato ‘the salad bowl of the world’, l’insalatiera del mondo” (con tutta una sua epopea Docg, peraltro, già cantata dai romanzi a chilometri zero di John Steinbeck, a tema braccianti di Salinas Valley).
A pochi chilometri dalla sede di Facebook va in scena Thrive, con oltre 500 startup agricole, i grandi produttori e i colossi dell'elettronica
Adesso da Silicon a Salinas è arrivato il tempo del contagio: “Il tutto è nato dalla convinzione che dalla Silicon Valley verranno gran parte delle soluzioni alle sfide che l’agricoltura dovrà affrontare nei prossimi anni”, dice Acito. “La nostra idea è stata di mettere in contatto le due realtà, l’innovazione e finanza con l’agricoltura”, dice il manager. Le dimensioni del fenomeno sono come al solito impressionanti: secondo l’ultimo report di AgFunder, il sito che monitora gli investimenti nel settore Agtech, nel 2015 si è avuto il record con oltre 580 operazioni per 3,2 miliardi di dollari (il totale di tutte gli investimenti di venture capital in Italia è stato di 200 milioni, per dire).
Tutti vogliono partecipare alla nuova corsa all’oro: così qui su questo cucuzzolo ecco uno stuolo di contadini 2.0, con un’atmosfera da fiera del West o dell’Est, senza cappelli in testa ma con la stessa atmosfera da gold rush.Sfilano personaggioni: c’è una signora baldanzosa che si chiama Karen Caplan ed è ceo di Frieda Inc., la più grande società produttrice di kiwi in America, ma soprattutto figlia di Frieda Caplan, la leggendaria “Kiwi Queen”, prima imprenditrice agricola donna, inventrice del termine “kiwi” – la mamma ha novant’anni e sta a casa, e la figlia racconta la sua storia. “Abbiamo portato sulle tavole americane cose strane, i frutti tropicali, non era facile negli anni Cinquanta, quando dovevi convincere i padroni dei supermercati che erano tutti maschi che non sapevano cucinare”. “Mia mamma ha cominciato con un banchetto in un supermercato che vendeva funghi e altri ortaggi che non si trovavano, e già avere una donna era una novità assoluta. Siamo stati travolti dalle richieste per questi nuovi prodotti, ma le casalinghe americane non sapevano come cucinarli, ci scrivevano in media cinquecento lettere al giorno, per chiederci le ricette”. Nel 1962, dopo aver sposato un sindacalista, essersi laureata in scienze politiche a Ucla, e aver lavorato nel settore dei collant, la mamma regina dei Kiwi inventa appunto il nome Kiwi per rendere un po’ interessanti questi strani frutti che fino ad allora si chiamavano col nome poco intrigante di “chinese gooseberies” ed è subito un successo clamoroso.
C'è la figlia della leggendaria Frieda Caplan, che ha inventato il termine "kiwi". C'è chi riesce a gestire l'intera fattoria con l'iPhone
Intanto sul palco sale una signora meno celebre che racconta la sua app che abolisce l’uso degli antibiotici nell’allevamento di bestiame; un altro pitch, ecco Granular, una delle startup agricole più interessanti, ha un pacchetto completo di software che praticamente dall’iPhone consente di gestire un’intera fattoria, semine, paghe dei contadini che vengono geolocalizzati direttamente sulla mappa, squadroni di droni, più un database sui valori catastali (vi hanno investito tra gli altri Andreessen Horowitz e Google Ventures), parla il fondatore che si chiama Mike Preiner (con dottorato in fisica applicata a Stanford). E poi non possono mancare i droni medesimi: Matthew Coleman, vice presidente di PrecisionHawk, azienda che produce volatili che possono innaffiare, sorvegliare, accumulare dati, svettando tra campi di pomodori e vigneti con tecnologia Lidar, la stessa che equipaggia le auto senza conducente della startup israeliana Mobileye, quella appena comprata da Intel per 15 miliardi di dollari.
I nuovi contadini fanno una pausa col buffet gentilmente offerto dagli sponsor, e da assaggiare ci sono gli ultimi ritrovati di un’industria che cerca di dettare nuove mode: ecco confezioni da tre meline piccole, tutte perfettamente calibrate, ingegnerizzate, lucide, e della stessa esatta dimensione, in vendita in confezioni tubolari di plastica trasparente proprio come palle da tennis; si chiamano Rockit Apple e vengono spedite a domicilio con Amazon Fresh (gli ecologisti seguaci dell’estetica ortofrutticola bitorzoluta e triste sverrebbero, invece sono buone). Poi va su un signore con la faccia da miliardario che ha studiato ad Harvard, si chiama Bruce Taylor ed è il ceo di Taylor Farma, la più grande azienda agricola d’America, e parla dei nuovi gusti dei consumatori americani. Ha studiato effettivamente ad Harvard ed è abbronzatissimo. “Abbiamo fatto un milione di ricerche di mercato e tutti gli intervistati ci hanno detto che vogliono cucinare molto e spendere molto quality time con le loro famiglie e stare ai fornelli almeno mezz’ora al giorno. Così ci siamo messi a studiare nuove ricette, ma a quel punto ci hanno sommerso di proteste! Ma come, ci hanno detto, questo non si può mettere nel microonde!”, dice Taylor; è insomma forse la teoria di Michael Pollan, a tutti piace parlare molto di cibo e vederlo in tv, o mangiarlo al ristorante per i più fortunati, ma poi, di cucinare, nessuno ha più nessuna voglia.
“Quando lavoravo con mio padre, il fondatore dell’azienda”, continua il tycoon, “una sera trent’anni fa ci siamo messi a studiare un’idea di insalata in busta, mischiando per la prima volta rucola e lattuga, e mio padre sconvolto ci disse: ma siete matti? La gente penserà che è un sacchetto di marijuana”; adesso naturalmente la verdura in busta, detta anche di quarta gamma, è un business pazzesco.
Le coltivazioni avveniristiche degli imprenditori trevigiani a Salinas, dove viene prodotto il 70 per cento dell'insalata d'America
Taylor scherza poi che “ogni anno spendiamo 250 milioni di dollari in stipendi, 100 per cento messicani”. Qui i latifondisti tecnologici sono tutti terrorizzati dai vari ban di Trump. “Il muro col Messico? Magari con delle porte girevoli!”, dice il re della lattuga. “Che ha fatto oggi il presidente? Non ho ancora controllato l’e-mail”. Poi va su il suo collega Kevin Murphy, più grande produttore americano dei piccoli frutti (non si chiamano più “frutti di bosco”, ci informano), e dice: “Aiuto, i nostri operai stanno invecchiando!”, e insomma l’élite agricola coerentemente coi suoi vicini techies è ferocemente antitrumpista, forse non per convinzione ma per necessità: se si blocca l’immigrazione, l’ortofrutta americana è finita. Finchè serviranno braccia umane, almeno. Sale sul palco il ceo di Soft Robotics, a parlare dei suoi robottini smista-frutta, che sono i più veloci del mondo, scelgono pere e mele per le confezioni che troviamo al supermercato, le alternano per colore e tipo, 75 pezzi al minuto. E un signore con accento del sud, dalla platea: “sì, ma quando potremo usare i robot nella raccolta?”. Chissà: forse la grande battaglia per l’autonomia robotica non si combatte nelle strade e coi taxi senza conducente, ma nelle piantagioni d’America (e sarà Steinbeck meets Blade Runner).
La ricerca “sul campo” non ha poi nulla da invidiare ad altri settori più celebrati; e la storia dell’insalata in busta è una piccola autobiografia della nazione: negli anni Venti un giovane laureato di Berkeley, Bruce Church, impianta un campo di lattuga per primo a Salinas Valley e con una tecnica rudimentale la mette sotto ghiaccio per esportarla laddove si consuma, fondamentalmente a New York. Poi negli anni Cinquanta un gruppo di studiosi e accademici a Fresno scopre finalmente il sistema per mantenere fresca la verdura fino a cinque giorni. E’ quello in uso ancora oggi, “iniettare azoto in modo che fuoriesca l’ossigeno e soprattutto non si imbruniscano i bordi, dove la foglia è stata tagliata”. “E’ azoto quel particolare odore che fuoriesce dalla busta”, ci spiega Carlo Boscolo, autorità morale transatlantica dell’insalata. E’ un signore veneto, maggiore produttore di radicchio d’America. “Siamo stati i primi a portarlo negli Usa”, dice al Foglio; “mio padre aveva un po’ di terra, ma poca, novemila metri quadri di terreno divisi tra vari parenti, troppo pochi per sopravvivere, così mi ha fatto studiare. Io ho lavorato in giro per il mondo per un’impresa di costruzioni, alla fine sono approdato ad Atlanta, e dopo un po’ mi sono accorto che il radicchio negli Usa non si trovava. Importarlo era impossibile, così abbiamo cominciato a coltivarlo qui».
I Boscolo dopo aver fondato la radicchio valley si sposteranno sulla costa est: coltivazioni in serra con partner la Fondazione Gates
Gli imprenditori trevigiani hanno messo su coltivazioni avveniristiche a Salinas. “La particolarità del posto è che c’è la corrente fredda che d’estate raffresca naturalmente come se fosse aria condizionata”, dice Boscolo. Quello di Salinas è un caso emblematico. “Eravamo una città conosciuta solo per disoccupazione e immigrazione clandestina”, dice al Foglio l’ex sindaco Dennis Donohue, roccioso signore irlandese di seconda generazione. “Adesso siamo il più grande esempio in America di rilancio dell’agricoltura grazie all’hi-tech ed innovazione”. “Quando Capital One, la banca che era il più grande datore di lavoro del posto, ha cominciato a licenziare tutti, potevamo diventare una delle tante città-call center d’America, una città dormitorio, invece abbiamo puntato sulla agricoltura di qualità e ci siamo inventati la Salinas Valley”, dice l’ex sindaco (il suo indirizzo email sintetizza la microstoria di Salinas: nome cognome @radicchio.com).
Invece i Boscolo oltre ad aver ri-fondato la valley adesso hanno altri due progetti: uno è quello di spostare la coltivazione sulla costa Est (vecchio sogno dei pionieri, come sfamare l’altra costa, costa fredda ma ricca, col prodotto fresco): insieme a Taylor Farma e a un partner non proprio secondario come la Fondazione Gates (quella di Bill) costruiranno un avamposto vicino alle grandi città dell’Atlantico. Tutto in serra. “Quando sono venuti gli americani in Italia a vedere le nostre coltivazioni sono rimasti stupiti, non avevano mai visto la verdura in serra. Perché in Italia piove, gli abbiamo risposto. Soprattutto per il lattughino serve la serra, altrimenti arriva il temporale e ci distrugge tutto”, dice Boscolo. “L’insalata, invece che portarla in giro per giorni sui tir, producendo inquinamento e consumando energia inutile te la facciamo crescere in città, sotto casa”, dice il padre Boscolo, che si divide tra il Veneto, la Salinas Valley e la Florida dove il figlio Federico segue le serre disegnate e prodotte in Italia.
E ancora, una collaborazione con Philips che si chiama Black Box e studia “l’indoor farming” cioè la coltivazione senza terra; “coi nostri agronomi stiamo seguendo la coltivazione al chiuso, stiamo studiando i vari tipi di luce”, dice Carlo Boscolo. Prossimamente la coltivazione potrebbe non avere proprio bisogno di terreno; “le radici possono anche essere spruzzate di vapore, senza mai toccare la terra. L’esigenza è sempre più quello di produzioni locali, vicino al luogo di consumo, e con la coltivazione fuori-terra non hai bisogno di antiparassitari, di nulla, è il massimo dell’organic”, dice ancora Boscolo.
“L’agricoltura 2.0 si sta sviluppando in numerosi campi, dal Biotech al Data Analytics, al Software, ai sensori dell’IOT, ai Macchinari” sintetizza Alberto Acito. Si pone anche un problema energetico, “l’agricoltura nel suo insieme è il principale utilizzatore di acqua del pianeta, e produttore di anidride carbonica. Con l’indoor farming si potrà evitare il trasporto delle merci, con l’agricoltura di precisione grazie a software e sensori, droni e satelliti, si potranno eliminare gli sprechi idrici”. “Nel 2050 saremo 10 miliardi sulla terra, con una crescita soprattutto delle classi medie in Cina ed India: l’agricoltura dovrà produrre di più e con maggiore qualità. Una sfida che si potrà affrontare solo con nuove tecnologie, in fondo l’ultima innovazione in agricoltura risale al trattore”.
Le aziende italiane, “con le competenze che abbiamo in questo settore, devono avere un ruolo fondamentale in questo processo”, dice il rappresentante dell’Ice. A partire dalla Radicchio Valley. “Ci sono nomi magari sconosciuti ai più, come Turatti, multinazionale veneta con sede qui in California, leader mondiale che fornisce i macchinari per la lavorazione dell’ortofrutta a gran parte dei Big della Salinas Valley. C’è poi un legame storico: moltissime aziende agricole di Salinas sono state fondate da immigrati italiani di fine ‘800 e inizio ‘900”.
Insomma il radicchio è il nostro silicio, e pare un buon punto da cui cominciare, comunque. Ha le carte in regola per battere l’ormai onnipresente e salutistico cavolo nero, che qui alligna con le sue qualità quasi miracolose. “Il radicchio non ha niente da invidiare al kale, è antiaging, può essere un nuovo superfood”, dice Boscolo convinto. Pare una battaglia anche culturale, per le radici ortofrutticole dell’Italia. Noi aderiamo convinti. Make radicchio great again.
Il Foglio sportivo - in corpore sano