Un'altra Parigi

Giuseppe Fantasia

La città cambia con il Secondo impero. Manet ne coglie i fermenti e apre le porte della pittura alla modernità. Una mostra a Milano

Tra il 1852 e il 1870, Parigi è una città pronta al cambiamento, alla crescita e al miglioramento, una città che si sta perfezionando grazie all’imperatore Napoleone III e al prefetto della Senna, il barone Georges Eugène Haussmann, l’uomo che riuscirà a darle il volto di una capitale moderna, vivace, ariosa e sfavillante di luci attraverso trasformazioni che portarono a nuovi stili di vita, al fascino, all’atmosfera ammaliante e a molti dei suoi luoghi e monumenti-simbolo che oggi conosciamo e che continuano a sorprenderci. Durante il Secondo impero i due, insieme, ridisegnano l’intera città che giorno dopo giorno deve essere trasformata nella capitale delle capitali: ecco, quindi, i venti arrondissement che tutt’ora la compongono e la raccolgono come una grande conchiglia; al via una Parigi monumentale attorno ai grandi assi rappresentati da viali, piazze e boulevard. Ecco, quindi, le tre nuove reti viarie che collegano i diversi quartieri e facilitano l’accesso alle stazioni, ecco i giardini e i parchi, nuovi e perfetti, come quello delle Buttes-Chaumont, o storici, come quello alle Tuileries, che si offrono come porti di pace e luoghi di svago. Esplodono un po’ ovunque i caffè-concerto, luoghi di incontri e di confronti, come L’Eldorado (1858) o il Bataclan (1864), dove si va ad ascoltare cantanti popolari come Thérésa, prima star della storia della canzone. Nascono nuovi teatri e la nuova Opéra di Charles Garnier, il monumento più famoso e più spettacolare della Parigi haussmanniana e in quelle sale maestose, realizzate con uno stile che verrà poi definito “napoleonico”, trionfano Verdi e Meyerbeer, mentre Wagner fa scandalo con il suo Tannhäuser (1861). In città aprono i primi grandi magazzini come i mercati coperti e si moltiplicano le esibizioni del circo e degli acrobati con la costruzione, tra gli altri, del “Cirque Napoléon” su progetto di Hittorf, poi chiamato “Cirque d’Hiver”, che tanto ispirò Toulouse-Lautrec e Seurat. L’imperatore vuole stupire e impressionare l’Europa facendo rivivere i fasti di Versailles e rinsalda l’adesione del popolo al suo regime attraverso una grande quantità di feste: la vita parigina procede al ritmo del Salon, dei grandi balli organizzati dalla corte e delle Esposizioni universali.

 

La borghesia trionfante moltiplica i segni esteriori della ricchezza e, affascinata dalla sua stessa immagine, alimenta una vera e propria industria del ritratto. Il “meraviglioso” era già presente nell’aria negli anni precedenti, ma nessuno se n’era accorto, come disse Charles Baudelaire: adesso, finalmente, esplode e colpisce tutti.

 

Napoleone III e Haussmann ridisegnano la capitale, la borghesia trionfante moltiplica i segni esteriori della ricchezza

L’artista Édouard Manet (1832-1883) all’inizio di quei cambiamenti ha vent’anni, ma sin da piccolo ha mostrato un particolare attaccamento per la sua città, un posto da amare e da vivere che per lui, che proviene proprio da quel mondo dell’alta borghesia parigina, sarà poi uno specchio. Lontano dall’idea stereotipata dell’artista bohémien, diventa un uomo di mondo raffinato e brillante, totalmente impregnato di quell’atmosfera di costante fermento che riesce, poi, a restituire nei suoi lavori con una foga interiore temperata da un ineccepibile senso dell’equilibrio. E’ lui il “vero” inventore di una nuova pittura che annulla le barriere codificate tra ritratto, scena di genere e natura morta e dipingendo con pennellate libere ed evidenti, stravolge i codici dell’estetica classica. A lui, artista-simbolo di quella trasformazione, è dedicata “Manet e la Parigi moderna”, la grande retrospettiva in programma al Palazzo Reale di Milano fino al 2 luglio prossimo, un grande omaggio a quell’artista che seppe aprire le porte alla modernità in una Parigi che si preparava a vivere una delle stagioni più straordinarie della storia dell’arte degli ultimi secoli. Promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, da Palazzo Reale, MondoMostre e Skira, la mostra ha come curatori Guy Cogeval, storico presidente del Musée d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi e le due conservatrici del museo parigino, Caroline Mathieu (conservatore generale onorario) e Isolde Pludermacher (conservatore del dipartimento di pittura), tutti e tre autori anche del catalogo illustrato pubblicato da Skira.

 

Manet amava passeggiare a lungo per la sua città, soffermandosi a osservare dettagli nascosti e gruppi di persone, riuscendo sempre a cogliere le atmosfere di quel mondo rutilante in cui la Parigi dello spettacolo convive con quella sotterranea e dove le donne si manifestano ora misteriose, ora sfolgoranti. Abbandonati per sempre l’idea (non sua, ma dei suoi genitori) di divenire avvocato o ufficiale della marina, nel 1850 entra nell’atelier di Thomas Couture e vi rimane per sei anni durante i quale fa anche diversi viaggi in Italia, in Germania e nei Paesi Bassi per studiare e copiare gli antichi maestri. “Le citazioni di Manet sono sempre state numerose e costituiscono altrettante mise en abyme pittoriche”, ci spiega Guy Cogeval. “Non era affatto estraneo a questo processo di reinterpretazione – aggiunge - e per essere un artista moderno, era davvero un eccellente conoscitore della pittura antica in generale e di quella italiana in particolare”. Nella stessa mostra allestita quattro anni fa al Palazzo Ducale di Venezia (“Manet, ritorno a Venezia”, ndr), veniva sottolineato proprio questo aspetto: in quell’occasione, Olympia, una delle sue opere più conosciute realizzata tra il 1863 e il 1865, non presente a Milano, era stata ricollocata proprio accanto alla Venere di Urbino di Tiziano del 1538, il modello dichiarato della tela di Manet che, nel 1857, aveva copiato l’opera conservata agli Uffizi. “Tuttavia – precisa il curatore – nessuno dei contemporanei di Manet aveva saputo o voluto rimarcare il collegamento tra la prostituta parigina e la cortigiana veneziana, simbolo della bellezza ideale”. L’artista ammira molto la pittura spagnola del Secolo d’Oro e l’universo di Goya, ma il Louvre è all’epoca ancora troppo “povero” in tal senso. Potendoselo permettere, dopo essere stato deriso dalla critica e dal pubblico per Le déjeuner sur l’herbe (1863) e dopo l’insuccesso della presentazione dell’Olympia al Salone due anni dopo, Manet decide di andare lui stesso a cercare Velázquez, al museo del Prado, e in lui scoprirà “il pittore dei pittori” in una Spagna che “appariva come una terra di rigenerazione dove trovare scampo dall’onnipotente Accademia che sclerotizzava l’arte parigina”. Torna in patria e decide di riallacciarsi al pittoresco immaginario dell’arte spagnola con dipinti come Lola di Valencia (1862), Angelina (1865), il Combattimento dei tori (1865-1866) e Il Balcone (1868-1869) con grandi rimandi a Goya e allo stesso Velázquez, come dimostra anche “Il pifferaio”, destinato al Salone, ma che sarà, ancora una volta, rifiutato. Tra i suoi ammiratori ha, invece, Émile Zola, che contesta tutto questo astio nei suoi confronti ed esprime la sua preferenza proprio per quella tela che è stata scelta come simbolo dell’imperdibile mostra milanese, una sorta di riscatto per Manet che, in tutta la sua vita, la vide esposta una sola volta in pubblico, in occasione della sua personale al Pavillon de l’Alma. L’opera ritrae un giovane suonatore di piffero dei volteggiatori della guardia imperiale che colpisce per i suoi colori (rosso, nero, bianco e giallo su sfondo grigio, stesi con naturalezza per campiture piatte) e per l’assenza di prospettiva, un’opera “fatta di semplicità e di armonia”, come la definisce lo scrittore francese, “una perfetta visione a macchie, per frammenti semplici e pieni di energia”.

 

Quello che lascia sconcertati i suoi contemporanei è l'ambiguità dei soggetti, persone che non compiono mai un'azione ben definita

“A differenza degli impressionisti, Manet fu un grande pittore di storia, possente sia nell’ambito dell’allegoria sia nell’ambito diretto con gli eventi del suo tempo”, ci spiega ancora Cogeval. “Probabilmente è il meno simbolista degli artisti, la sua opera viene interpretata senza sosta e la sua modernità è percepita con altrettanta chiarezza sia dai sostenitori di un approccio formalista, sia dagli esegeti che hanno voluto sottolineare la portata sociale dei suoi dipinti, ma è sicuro che lui intrattiene con la pittura un inalterabile rapporto di tipo carnale”. Manet dipinge infatti la vita reale, il quotidiano, gli ambienti affollati dei caffè e dei teatri, le abitudini dei parigini, ma anche le figure che vede e che conosce, le donne che lo attraggono e che lo incuriosiscono. “Vuole essere del proprio tempo e dipingere ciò che vede, senza lasciarsi turbare dalla moda”. La donna è al centro dei suoi quadri, ma è una donna diversa, perché dai nudi scandalosi alle signore eleganti del bel mondo e del demi-monde, riesce a fondare gran parte della sua rivoluzione pittorica sulla rappresentazione di donne moderne caratterizzate da una propria personalità. Non ci mette mai davanti a ritratti nel senso tradizionale del termine e quello che lascia sconcertati i suoi contemporanei è l’ambiguità dei soggetti, persone dagli atteggiamenti incomprensibili che non compiono mai un’azione ben definita.

 

Quello che conta davvero per lui è l’interiorità delle sue modelle, su tutte Suzanne Leennhoff (1830-1906), una pianista olandese che poi diventò sua moglie, sposata subito dopo lo scandalo provocato da Le déjeuner sur l’herbe. In quel celebre dipinto, che per statuto resta all’Orsay, è ritratta nuda Victorine Meurent, una delle sue modelle preferite (è lei anche nell’Olympia) assieme a Berthe Morisot, entrambe pittrici, che lo colpiscono con la loro bellezza malinconica e con quel fascino singolare e astratto. In tutte queste opere quello che emerge è uno sguardo che rivela il grado di complicità esistente tra il pittore e la donna che posa per lui e che crea così una relazione singolare tra l’osservatore e il dipinto. Non c’è retorica, né mitologia, eppure la sua pittura ha salde radici nella tradizione e quello che fa non è altro che dipingere la sua “impressione” affondando però nella cultura passata. Ne avrete conferma voi stessi ammirando da vicino le quasi cento opere su tela presenti all’esposizione milanese, fra cui diciassette suoi capolavori (tra gli altri, La fuga di Rochefort, Berthe Morisot con un mazzo di violette e La lettura) e quaranta appartenenti ad artisti come Boldini, Degas, Cézanne, Monet e Renoir. Niente scandalo, ma solo testimonianze vere, reali e quotidiane come lui – e pochi come lui – sono riusciti a realizzare.

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