Gli amori neri
Il sangue, il carcere, un processo. Antonella Lattanzi ci fa precipitare dentro i fili d’erba della verità mossa dal vento. Romanzo di una famiglia legata stretta dall’odio e dall’amore
Ci sono libri che sembrano colare addosso ai nostri corpi, libri di cui non possiamo liberarci o smettere di leggere, perché sentiamo le parole che ci avvolgono e ci trascinano e si appiccicano da ogni parte. Invece siamo noi, a essere precipitati dentro quelle parole, dentro quella storia. Non è la storia che avevamo creduto, prima di cominciare. Non è la storia che ci aspettavamo. E’ un’altra storia e noi non possiamo smettere. E’ una storia nera, questa volta, e c’è il sangue, il carcere, un assassino, un processo: prima di capire di che cosa si tratta, però, noi siamo già caduti lì dentro. Prima di chiederci: che cosa sta succedendo, chi è stato?, noi siamo prigionieri delle parole, di una scrittura precisa e musicale che ci tira dentro e ci incolla e ci fa aspettare continuamente qualcosa di spaventoso, ma con un godimento più grande della paura. E’ il godimento per la scrittura, per il sentimento, per la musica che fanno questi personaggi. Carla, Vito, Rosa, Nicola, Mara e poi Mimma, Milena, Paola, Livia, Manuel. Sono i vivi e i morti che Antonella Lattanzi segue, anima, scopre e nasconde dentro il suo ultimo romanzo, “Una storia nera”, appena uscito per Mondadori, già in traduzione in molti paesi all’estero, già forte di una forza soltanto sua, originale, perché riesce a far uscire le ombre e il dolore e il trionfo e la paura e i segreti dei personaggi che ha creato non dai loro pensieri, non dalle confessioni, non da una descrizione accurata, ma da quello che accade. Da come si guardano. Da come un fratello e una sorella agguantati dalla tragedia attraversano una stanza e si vanno incontro. Da come un padre violento, violentissimo, psicotico, guarda i figli dopo avere picchiato la madre dei suoi figli.
Vito picchia Carla, la picchia sempre, la picchiava quando erano fidanzati, poi sposati, la picchia adesso che sono divorziati
Vito picchia Carla, la picchia sempre, la picchiava quando erano fidanzati, poi sposati, la picchia adesso che sono divorziati. La chiudeva a chiave in casa con la bambina piccola perché non voleva che lei potesse uscire, o far entrare qualcuno. Un mostro. Ma non c’è mai soltanto un mostro da raccontare, per uno scrittore. Non c’è mai un solo sguardo con cui guardare il mostro. E uno scrittore sa raccontare anche la misericordia per il mostro, l’amore per il mostro, la finzione d’amore perfino, e la racconta attraverso i fatti, attraverso le reazioni e i gesti dei suoi personaggi, lascia a noi che leggiamo il piacere di indovinare i pensieri, di immaginare una verità. “Perché hai cambiato panificio? aveva detto a Carla, Eh? Parla, stronza, chi te l’ha venduto, sei andata a fare la stronza con qualcuno, eh? – suo padre aveva perso la pazienza con sua madre, l’aveva sollevata come se lei fosse posseduta dal demonio e lui un esorcista e l’aveva scagliata contro il muro. Poi si era girato verso i figli e li aveva guardati di un amore, di una misericordia smisurati. Perché c’era sempre questo: il loro padre non aveva mai davvero torto, sembrava sempre che tutto quello che faceva – fosse il bene che dava ai figli, Vito i suoi figli non li aveva mai toccati con un dito, o le botte che dava a Carla da quando Rosa e Nicola ricordavano –, che tutto quello che Vito faceva fosse solo per amore”. Antonella Lattanzi scrive un romanzo che racconta un odio strettamente legato all’amore, qualcosa di innato come la rabbia, racconta una violenza strettamente legata a un’idea di famiglia e di destino, e non si lascia mai andare a un giudizio, a un ammiccamento, non si mette mai a civettare pescando con furbizia parole che non esistono, che stanno fuori da quella storia. Lattanzi racconta una storia, e solo quella, ma è come se raccontasse la storia d’amore e di morte che le contiene tutte, una storia assoluta in cui la verità può assumere mille facce, può attraversare molti corpi. Come ha scritto Elias Canetti, “la verità è un mare di fili d’erba che si piegano al vento; vuole essere sentita come movimento, assorbita come respiro. E’ una roccia solo per chi non la sente e non la respira; quegli vi sbatterà sanguinosamente la testa”. Antonella Lattanzi in questo romanzo fatto di azioni, di corpi, di immagini del passato, di rapporti fra i personaggi, respira la verità e a poco a poco, pagina dopo pagina, la fa respirare anche a noi. Piega i fili d’erba prima da una parte e poi dall’altra e davvero noi lettori ci sentiamo sospinti dal vento, e siamo increduli, apprensivi, in attesa, crediamo di avere capito e non abbiamo invece davvero capito, allora facciamo l’unica cosa possibile, l’unica giusta: ci abbandoniamo al libro, con fiducia, lasciamo che sia lui a portarci dove bisogna andare. Non pensiamo più, leggiamo soltanto. “Giuro che ti ammazzo Carla, ti sgozzo come un porco e ammazzo pure i nostri figli. Giuro che ti ammazzo se ti vedo sorridere al tabaccaio che ti vende i biglietti della metro”. Giuro che ti ammazzo, ma perché ti amo. Giuro che ti ammazzo, ma con infinito amore, e con il palpito di lei, che ancora adesso quando lo vede si emoziona, e lo trova bello, e lo ama da quando aveva dieci anni.
Le rivelazioni vanno taciute sempre, ma a un certo punto i giornali su Carla titolano: madre coraggio. Una figura mitologica
Adesso ne ha trentotto, Carla, e si sente centenaria. Almeno noi siamo convinti di questo, all’inizio. Siamo convinti, grazie alle pennellate sapienti di Antonella Lattanzi, di avere di fronte una donna annientata. Una bellissima donna bionda, con gli occhi azzurri, appena quarantasette chili, con uno sguardo dolcissimo e triste, in balia dell’uomo che ha sempre amato e che non è riuscita a guarire. Il padre dei suoi tre figli, che ha un’amante da sempre, Milena, e forse perfino una quarta figlia, ma che tornava a casa ogni due ore per controllare la moglie, per picchiarla o baciarla o farsi consolare da lei. Una volta rientrando l’aveva trovata nella vasca da bagno e aveva pensato che c’era un uomo lì con lei e con la bambina piccolissima, e l’aveva appesa fuori dalla finestra. A testa in giù, nuda. “Devi avere cura dei tuoi figli, le disse quando la rimise giù, era di nuovo Vito, le diede un bacio, la coprì col lenzuolo. Ti ho portato dei fiori, disse, Scusa, disse, Ci vediamo tra due ore, e se ne tornò al lavoro”. E’ la storia di quella famiglia, la storia a cui hanno assistito i figli, la storia che conoscono tutti, la storia che approva Mimma, la sorella maggiore di Vito, che non ha avuto figli e considera Vito roba sua: tutte le altre donne sono soltanto delle troie. Troia Milena, che andava con un uomo sposato, troia Carla, che dopo il divorzio aveva conosciuto Manuel e faceva la spesa insieme a lui. Ma una famiglia così, cresciuta con addosso il senso della tragedia, non si è disintegrata ma si è cementificata.
I figli grandi stavano sempre con la madre e con Mara, la piccolina, stavano sempre tutti e quattro vicini, tutti in attesa di qualcosa di enorme, tutti in attesa di una fine o di un’altra vita. Scopriamo il loro amore attraverso i gesti, attraverso la cena di compleanno, attraverso le reazioni alla sparizione di Vito, scopriamo a poco a poco angoli di vita interiore, ma poiché ci siamo abbandonati, siamo precipitati dentro il romanzo, possiamo affrontare l’inaspettato. La confessione di un omicidio, anche. “Ma lì, in mezzo alla notte, seduti accanto alla madre che li consolava come fossero tutti e tre bambini – aveva preso una voce di cantastorie, calda, serena, ‘Guardate come siete belli’ diceva, ‘guardate come ci amiamo’ diceva, ‘dobbiamo solo mandare tutto questo amore a vostro padre, vedrete che basterà, siete cresciuti, state crescendo sani, belli, intelligenti, pieni d’amore, leali, onesti, vedrete che questo amore arriverà e lo riporterà a noi, sapete che, io e vostro padre a volte abbiamo avuto dei contrasti, ma credo che sappiate, che ognuno di noi sappia, che l’amore non finisce, l’amore non finisce mai”, lì in mezzo alla notte noi amiamo questa madre coraggiosa e misericordiosa, che consola i suoi figli, che scaccia via la paura, che aspetta ancora l’uomo che vuole sgozzarla come un porco, abbiamo pietà di lei, qualunque cosa abbia fatto, qualunque sia il suo ruolo nella sparizione di Vito, la sera del compleanno di Mara. E’ estate, e noi abbiamo caldo con loro, abbiamo caldo con Carla, sentiamo le gocce di sudore, abbiamo paura con lei e abbiamo paura con Milena, la donna che non è mai riuscita a farsi sposare da Vito, e che addirittura, durante il processo per omicidio, scritto straordinariamente bene, scritto per mostrarci tutto come se fossimo al cinema, le domande, le risposte, gli sguardi, durante l’interrogatorio davanti al giudice Milena guarda Carla e la odia. Non era solo odio ma anche una voglia pazzesca di conoscere i dettagli, voglia pazzesca di capire perché, e di sapere se Vito aveva davvero amato lei, Milena.
Giuro che ti ammazzo, ma con infinito amore, e con il palpito di lei, che ancora adesso quando lo vede si emoziona
Perché dal processo è così evidente che quel mostro aveva amato Carla, amata fino quasi ad ammazzarla, amata fino a distruggerla, fino a trasformarla in un mostro come lui, forse. “Perché Vito picchiava Carla? Perché non picchiava lei? Perché non mi amava”. E noi siamo già sprofondati dentro l’impazzimento amoroso e pensiamo sì, Vito non picchiava Milena perché non la amava, e pensiamo sì, Milena avrebbe potuto anche ucciderlo per questo, per aver passato tutta la vita in un microscopico seminterrato nel rione Monti, a guardare passare le gambe dei turisti, ad accudire una figlia strana, sofferente e strana, e ad aspettare Vito che da quando aveva divorziato da Carla andava sempre meno a trovarle. Quindi Antonella Lattanzi ci offre tutto: questa storia nera esce dalle pagine e ci si presenta con tutti i suoi personaggi a molte dimensioni, carnali, impauriti, spaventosi, singhiozzanti in tribunale, attoniti, convulsi, legati l’uno all’altro da amore, odio, rivalsa, desiderio di appartenenza. Sono tutti dentro una stessa bolla di pensieri terribili, di comprensioni improvvise, oppure stanno nascondendo ancora qualcosa. Paola, la figlia di Milena, vorrebbe essere la figlia di Vito, e in tribunale singhiozza più forte di tutti, ma singhiozza perché non è Rosa, non è Nicola, non è Mara, e noi lo capiamo dai gesti, da pezzi di pensieri, che singhiozza perché sua madre non è Carla, che ha confessato di avere ucciso Vito.
Ci sono molte rivelazioni in questo romanzo, e le rivelazioni vanno taciute sempre, ma a un certo punto i giornali su Carla titolano: madre coraggio. La madre delle madri, una figura mitologica. Prima era il male assoluto, adesso tutto il bene del mondo. Come è facile abbracciare un’idea di verità, sbattere la testa contro la roccia perché non si riesce a respirare la verità, perché non ci si può rassegnare al fatto che la verità sia costruita di fili d’erba e non di muro. “Voi lo sapete perfettamente quello che pensate? Quello che volete? Voi potete dividere tutto con certezza, giusto e sbagliato, sì e no, questo e quello? Se potete, io vi invidio con tutte le mie forze”. La famiglia di Carla, quel che ne resta, è ancora in piedi, ancora viva, è mutata, e come i fili d’erba ha preso la forma del vento che l’ha mossa. C’è qualcuno pronto a prendere il posto di Vito, c’è anche qualcuno pronto a credere all’inesistenza di colpe. Tutti innocenti, in fondo, basterebbe riuscire a spiegarlo, non ci sono colpe, non esiste il male, esiste solo l’amore che non finisce mai, come aveva detto Carla, con il suo sguardo dolcissimo, dopo che Vito, il suo persecutore, il suo uomo, era sparito una sera dopo il compleanno della bambina piccola. Solo l’amore che non finisce mai, fino al prossimo colpo di vento, fino al prossimo filo di verità.
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