Edouard Manet, dettaglio di "Cristo morto e due angeli"

I giorni della nostra Passione

Prese il pane poi il vino e io mi sentii morire e rinascere

Angiolo Bandinelli

L’incontro con l’adultera, la madre che gli era sempre vicina, il profeta Giovanni e quel Ponzio Pilato. Ricordi apocrifi di un discepolo di Gesù, dei suoi dubbi e delle sue inquietudini, fino all’ultima cena

Solo adesso, molto dopo che ci ha lasciato, sento quanto fosse già da tempo lontano da noi, lontano anche mentre era lì presente tra noi, dalla mattina alla sera, sempre sollecito, attento e premuroso, sempre in realtà immerso in quella sua segreta lontananza che lo rendeva unico, e affascinava chiunque avesse a che fare con lui.

 

Sì, era sempre attento, vigile, ma anche era come se vivesse altrove, astratto, turbato per cose invisibili, che lui – lui solo però – vedeva e che esitava a partecipare con noi, i suoi discepoli, quasi temesse per noi un contatto con una presenza, una realtà, un disvelamento troppo difficile per la nostra povera capacità di comprensione. Vi alludeva, attraverso parabole in apparenza semplici, ma che per noi erano ardue, cifrate: e noi ci appartavamo per confabularne, per provare a capirne il vero significato. Così, quando ci ammoniva, facendo con mano leggera il gesto di allontanarci: “Andate, diffondete la mia Novella”, oppure: ”Fate questo in memoria di me…”, noi passavamo le notti a discuterne, senza venirne mai troppo a capo. Che cosa dovevamo diffondere, insegnare? Sembravano cose semplici, le sue parole erano semplici, eppure noi dubitavamo che dietro quella semplicità vi fosse altro, altri significati riposti, che toccava a noi penetrare. E ci disperavamo, inutilmente. Del resto, non era questo l’uso, non dico dei nostri profeti, ma di quei filosofi greci che in pubblico, nell’agorà, dicevano altro, altro dall’insegnamento che poi, nelle stanze lontane e discrete, impartivano ai seguaci, come in un mistero da non rivelare?

 

"Ma che cos'è la verità?", gli borbottò Pilato. Allora mi parve di notare che un sorriso di tranquilla ironia gli sfiorasse le labbra

Mentre noi ci perdevamo in vuoti, astrusi arzigogoli, lui dormiva serenamene, avvolto nella veste inconsutile che la madre e le donne curavano perché fosse sempre rassettata, in ordine, monda della polvere raccolta per le strade, in quell’incessante e inquieto camminare con cui dava corpo al suo tormento. Poi… la mattina dopo gli chiedevamo ancora: ”Maestro, cosa hai voluto dirci, parlando come hai fatto, ieri, a cena?..” E lui sorrideva, e riprendeva il discorso: “In verità, in verità vi dico…”. “In verità…”. Come ricordo questa parola, che lui sussurrava di frequente, ma si vedeva che la pronunciava innanzitutto per sé, a ribadirne – vorrei dire – la convinta pienezza… E anche, diceva: “… Io sono la via, la verità, la vita…”. Non alzava mai la voce, diceva questo con una semplicità disarmante e insieme sconvolgente. Così, mi ricordo bene quando, mantenendomi confuso in mezzo alla folla sotto il loggiato della sede del governatore, sentii quel Ponzio Pilato borbottare tra i denti, con un ghigno sarcastico, mentre ripetutamente si sciacquava le mani con l’acqua che il servo gli versava dalla brocca: “Ma che cos’è la verità?”. Mi parve di notare che un sorriso di tranquilla ironia sfiorasse le labbra di Gesù, lì, dritto dinanzi a lui.

 

Io sono ignorante, ma a quel punto sentii come se si aprisse un abisso, il baratro tra due mentalità, due mondi incompatibili l’uno all’altro, inconciliabili, per sempre. Ponzio Pilato rappresentava il variegato, affaccendato mondo della società, dello Stato o del Tempio, degli uomini buoni o cattivi che lì vivono, presi nei più vari traffici. Lui era altrove. Testardamente, continuava a ripetere, a ripeterci: “Io sono la via, la verità, la vita…”. Confesso che in quel momento mi corse un brivido tra le spalle, ebbi paura, dubitai del Maestro venerato. Dinanzi alla ragione – o alla ragionevolezza – del mondo, lui contrapponeva l’assolutezza dell’assurdo, la sfida di credere proprio perché assurdo…

 

Dinanzi alla ragione del mondo, lui contrapponeva l'assolutezza dell'assurdo, la sfida di credere proprio perché assurdo…

Quel Ponzio Pilato, in fondo, era non troppo dissimile da un altro maestro, a un profeta, vicino a Gesù ma da Gesù lontanissino, Giovanni il Battista. Giovanni era un uomo aspro, duro, inconciliabile, convinto di sé. Aveva, come Ponzio Pilato, un compito da assolvere, e lo assolveva puntigliosamente. Erano cugini, lui e Gesù, sua madre voleva molto bene a Maria, veniva a trovarla, e Maria andava a trovarla. Quei loro due figli avevano preso la stessa strada, l’uno come l’altro predicava, Giovanni battezzava. Non era strano, quelli erano tempi di predicatori, di battezzatori, di profeti veri e falsi, di aizzatori e mestatori, anche di tentatori… a volte gente che ostentava di non credere più al nostro Libro ma di praticare credenze, miti e schernevolezze moderne, elleniche, proprie ai greci con quel loro sottile scetticismo che si ritiene intelligente, sprezzante verso gli altri, i barbari; a volte persino spie, o prezzolati dei Romani, sempre pronti a gettare zizzania nella gente e tra le sette di Giudea… Giovanni battezzò Gesù, ma riconobbe il suo primato, un giudizio che Gesù accettò con semplicità, sapeva che gli era dovuto. Tra noi discepoli di Gesù e quelli di Giovanni ci furono però attriti, quelli di Giovanni non nascondevano la loro gelosia nei confronti del profeta venuto da Nazareth, così diverso dal loro Giovanni.

 

Gesù era affabile, stava in mezzo alla gente, non amava i deserti, l'ascesi del solitario, la macerazione come via della salvezza

Giovanni sicuramente incarnava il perfetto esempio di come ci si aspetta, noi ebrei seguaci del Libro e della Legge, debba essere e vivere un vero, santo profeta: in solitudine, in preghiera, in ascesi, nel deserto, mangiando locuste, battendosi il corpo fino a piagarlo, indossando stracci di pelo di cammello o il cilicio della penitenza… Gridava: “Pentitevi, o guai a voi, peccatori…”. Gesù non faceva nulla di tutto questo. Lui era affabile, il suo fascino era piuttosto nel silenzio, non si faceva notare. E stava sempre in mezzo alla gente, non amava i deserti, l’ascesi del solitario, la macerazione come via per la salvezza… L’aveva provata anche lui, si capisce, e laggiù fu tentato da Satana; si salvò dalla seduzione del potere che il grande nemico gli aveva promesso; ma da allora scelse di frequentare e amare, in umiltà e senza presunzioni e ambizioni, le città e i paesi, chiacchierare con tutti, perfino con le donne, o chi incontrasse per la strada, al mercato o al Tempio, e mangiare e bere il vino o la birra – moderatamente, certo – spezzare il pane con tutti… una volta si abbeverò alla brocca di una samaritana, una impura… Giovanni era irsuto e iracondo, si scagliò con brutte parole contro il potente Erode che si era presa con sé Erodiade, la bella moglie del fratello morto, e coprì i due di insulti perché fornicavano, gridava contro di loro dalle pubbliche piazze. Lei, tanto bella quanto vipera, lo fece arrestare, e lui finì con la testa mozzata, ignobilmente. Gesù, mi ricordo bene che chiacchiericcio sollevò quando, per tentarlo, gli presentarono la puttana, l’adultera, perché la giudicasse per quella che era, e desse il via alla lapidazione, meritata meritatissima… e lui che li svergognò, scoprì la loro malafede: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”… Che ipocriti… Lui amava tutti e tutte, ammoniva che il buon pastore è quello che si allontana dal gregge mansueto nello stabbio, per andare sollecitamente a raccogliere la pecora smarrita, e che il buon padre è quello che fa ammazzare il vitello grasso per festeggiare il ritorno a casa del figliolo prodigo e scialacquatore. Gesù sapeva che non c’è mai abbastanza misericordia per lavare e sanare le ferite degli uomini, anche quelle del peccatore, e che giudicare significa avere una bilancia precisa e giusta, ma anche amarlo, il peccatore – anche lui una pietra scartata dai costruttori, che potrebbe divenire, domani, la pietra d’angolo del mondo. E gli piacevano le feste, i banchetti, era molto conviviale. Come quella volta a Cana, agli inizi della sua predicazione… Era una festa di matrimonio, e fu in quella occasione che fece il suo primo miracolo…

 

La casa dello sposalizio era – oh, come la ricordo bene! – vasta e decorosa, con i suoi bassi edifici e i portici che chiudevano armoniosamente tutt’attorno la spianata affollata di familiari e amici degli sposi. Tutti erano allegri e vispi, si cantava e si ballava ai ritmi del salterio, le donne erano meravigliosamente vestite, gli uomini avevano le barbe profumate di unguenti: in queste occasioni si scacciano, si dimenticano le tristezze, le preoccupazioni, le paure, e ci si abbandona a quella allegria e spensieratezza, a quel calore che il vino generosamente dispensa, talvolta anche fuori della misura, del contegno, perfino della decenza… Naturalmente, allo sposalizio il vino circolava, traboccando dalle idrie, e tutti ne godevano, chiacchierando, ridendo e cantando. Il Maestro se ne stava un po’ in disparte, accucciato, tracciando invisibili parole nella sabbia. Era una sua abitudine, anche in mezzo al chiacchiericcio, trovare il modo di isolarsi, assorbendosi nei suoi pensieri. Così né lui né altri si accorse che il vino stava finendo, che le idrie si erano quasi del tutto prosciugate. Finché il capo dei servi si accostò al padrone di casa, il padre dello sposo, e lo avvertì di quel che stava accadendo.

 

Il Maestro di solito sorseggiava appena il calice che gli veniva offerto, era naturalmente parco, naturalmente moderato, come se il suo corpo fosse sempre in equilibrio con se stesso, pacificato, anche se sovente, in alcuni suoi scatti estemporanei, mostrava di essere sensibile e, direi, sempre profondamente partecipe. Ma il prodotto della vite lo amava, alla vite faceva spesso cenno nelle sue conversazioni, nelle sue parabole. Una volta, l’ultima volta che avemmo il pasto assieme, due giorni prima del suo supplizio, si paragonò alla vite e al suo frutto. Disse di sé: “Io sono la vite…” – purtroppo il suo frutto non fu vino ma il suo stesso sangue…

 

Gli piacevano le feste, i banchetti, era molto conviviale. Come quella volta a Cana, agli inizi della sua predicazione

E certo i frutti della vite e del grano sono doni meravigliosi di Dio e delle cure sapienti degli uomini e delle donne, ma vanno gustati senza eccessi, non come fanno gli Epuloni. Nei nostri costumi gli eccessi sono evitati e condannati, nulla a che vedere con i greci, i quali onorano un dio che vive nell’eccesso e dell’eccesso del vino, perché, dice, solo nell’eccesso del vino, nell’ubriachezza più estenuata si può pervenire alla Verità, o a forme misteriche di verità che solo l’eccesso del vino consente di rivelare. I greci, nei loro simposi, bevono il vino che scioglie loro le lingue, la lingua, e amano, grazie alle libagioni, discettare sulla verità, sull’amore, quell’eros struggente e sconvolgente che certo anche noi ebrei conosciamo e abbiamo cantato, come in quel sublime cantico nel quale l’amore per l’amata è evidente simbolo dell’amore per Jahve… Per i greci l’eros è innanzitutto amore dei corpi, della loro bellezza, cui erigono statue, idoli. Sono spudorati, quasi come quei popoli lontani d’oltremare, i tusci, che rallegrano i loro banchetti con la presenza delle loro donne, che danzano lascivamente in mezzo alla sala, senza vergogna o discrezione.

 

Anche il Maestro amava mescolarsi alle donne, c’erano con lui, e con noi, alcune donne devote. Su tutte la madre stessa del Maestro, inseparabile dal figlio, sempre attenta che lui stesse bene, che non gli mancasse alcunché. Non ho visto mai una madre così sollecita per il figlio, anche quando questi non era più un bimbo. La madre del Maestro, la dolce Maria, era minuta, delicata, gentile, e lui amava che si mescolasse a noi, i discepoli di suo figlio. Forse lei lo capiva molto meglio di noi, lo circondava di una trepida ammirazione fin da quando, dodicenne, si era allontanato da casa e lei e il suo sposo Giuseppe lo avevano ritrovato, dopo tre giorni, che discuteva sapientemente con i dottori del Tempio. Da allora Maria pendeva dalle labbra di quel suo figlio saggio e colto e però obbediente e amoroso. Pare che in quella occasione Gesù disse qualcosa che turbò i presenti. A me fu raccontato così: Maria lo rimbrottò perché lui si era allontanato di casa, e il bambinetto le rispose: “Perché mi cercate? Non sapevate che io devo essere con il Padre mio?” Maria si coprì gli occhi con il velo, piena di pudore, Giuseppe chinò il capo, turbato ma senza rispondere. Alla cena, lì a Cana, fu Maria che chiamò i servi e disse loro, energicamente: “Riempite le idrie di acqua, portatele a mio figlio e fate quel che lui vi dirà”. Lui era, si vedeva, un po’ infastidito, ma non si oppose al desiderio di sua madre. Quando i servi gli ebbero deposte davanti le idrie gocciolanti di acqua, lui stese sopra di esse la mano, poi riprese a scrivere sulla sabbia. Io vidi, e rimasi esterrefatto: i servi cominciarono a servire i presenti e, senz’altro, non era acqua ma vino, e anche molto buono…

 

Cos’altro potrei aggiungere di mio senza profanare le parole del Maestro? Siamo così immersi nelle tenebre, che la verità è sempre una ricerca

La voce si diffuse, e da allora cominciarono qua e là a chiedergli miracoli, lo importunavano, fastidiosamente. E Gesù mostrava esperienza e abilità, come se fosse stato a scuola anche da qualcuno dei più reputati taumaturghi, di quelli che hanno per compito la cura dei corpi, dei lebbrosi, degli storpi e sciancati, dei ciechi, delle donne che perdono il sangue, degli indemoniati. Tra i taumaturghi molti erano ciarlatani e imbroglioni, altri erano anche bravi, e Gesù sicuramente il più bravo di tutti. Quegli infelici, abbandonati al bordo delle strade perché infetti o immondi, gli chiedevano cose anche impossibili, e lui era attento a tutti, imponeva loro le mani e quelli gridavano al miracolo. Arrivavano a chiedergli cose come la resurrezione di un morto, del caro defunto, e spesso diventavano insolenti e intolleranti. E quando noi, per proteggere il Maestro, facevamo presente che la richiesta era impossiile, loro ti sciorinavano i versetti del Gran Libro, dove è vero che ai fedeli viene promessa la resurrezione della carne; ma il Libro parla evidentemente della resurrezione finale, quando gli angeli faranno squillare le trombe e tutti ritroveremo la nostra veste terrena, per sempre. Eppure, io c’ero quando, alle richiese delle sorelle, le care Marta e Maria, Gesù disse: “Lazzaro…”, e Lazzaro si sciolse dalle bende e tornò a camminare…

 

Ma il miracolo più grande, e che noi tutti amammo di più, fu un altro, e non ebbe nulla di sovrannaturale. Non ci fu, a propriamente parlare, nessuna resurrezione, eppure io sentii come se da quell’evento fosse scaturita una sorta di resurrezione, in tutti noi che eravamo presenti. Anche in me accadde, anche io sentii che a un certo punto, come dire, rinascevo… Mi sentii un altro, nato a una nuova vita. Fu la sera di quella nostra ultima cena, prima della tragedia, della morte del Maestro, di Gesù. Avrebbe dovuto essere il venerdì, come da sempre è d’uso in noi ebrei, di celebrare la Pasqua, la festa degli Azzimi, con una cena. Ma Gesù era visibilmente turbato, volle anticiparla al giovedì. Pochi giorni prima era entrato trionfalmente in Gerusalemme, issato su un’asina bianca, noi discepoli intorno, felici per lui e con lui. La gente si accalcava lungo la strada, e acclamava Gesù chiamandolo Re, Re dei Giudei. Non avevo mai visto una cosa così, era il trionfo della predicazione di lui, del Maestro. Ma lui restò triste, inquieto. Già forse vedeva – sapeva – quello che sarebbe accaduto. Perciò volle anticipare la cena. E quando gli chiedemmo – quando Pietro e Giovanni gli chiesero – dove avremmo cenato, lui rispose vagamente, di seguire il primo uomo che incontrassero, entrando nella città, che portasse una giara d’acqua. E Pietro e Giovanni lo incontrarono, ed effettivamente quello ci condusse a una sala, bella e spaziosa, con tre grandi finestre che lasciavano scorgere un paesaggio pieno di luce. Ci sedemmo alla lunga tavola, e c’eravamo tutti, noi discepoli, dal prediletto Giovanni, accucciato accanto al Maestro con la testa sulle sue ginocchia, a Simon Pietro, a Tommaso, a Filippo, ai due dallo stesso nome, Giacomo, giù giù fino a Giuda, l’Iscariota, il traditore, ladro, seduttore, frequentatore di prostitute… Lui, il Maestro lo trattava ed amava come gli altri discepoli, ma lo teneva sempre un po’ distante da sé, all’inizio aveva anche provato a dissuaderlo dal seguire il suo cammino, le sue predicazioni; ma quello insistette e si intrufolò tra di noi, forse geloso, forse invidioso di Gesù, gli si leggeva subito in quei suoi occhi di faina…

Ma chi in quel momento poteva prevedere quanto sarebbe accaduto? Noi eravamo festosi, allegri, anche un po’ esaltati, inebriati da quanto avevamo visto poche ore prima. E tutti e ciascuno facevamo a gara per stare il più vicino possibile a colui che avevamo visto acclamare Re dal popolo di Gerusalemme. Ma lui, d’un tratto, si fece imperioso. Ci ordinò di toglierci i calzari, e cominciò a lavarci i piedi pieni di polvere, e poi ad asciugarli con dolcezza. Noi protestammo – Pietro, più di tutti – gridando: “Ma cosa fai? Tu sei il Maestro!”. E lui replicò, con voce calma e lontana: “Voi mi chiamate Maestro, e infatti io lo sono; ma se ora io lavo i vostri piedi, voi dovrete fare lo stesso tra voi. Io vi sia d’esempio…”. Poi, e la voce gli si offuscò di tristezza, aggiunse: “Ma voi non siete tutti puri. Uno di voi mi tradirà…”. Tutti noi chiedemmo:, angosciati, turbati: “Chi mai di noi potrà tradirti, Maestro ?”. Lui non rispose; solo, prese un boccone di pane, lo intinse nel vino, e lo offrì all’Iscariota. Quello, lo vedo ancora, divenne terreo in viso, si alzò dalla tavola e uscì precipitoso, quasi correndo. Noi tacevamo, perplessi. Capimmo dopo quanto stava accadendo e accadde, lui già lo sapeva, lo vedeva.

 

E ancora prese del pane, lo spezzettò, ne porse a ciascuno di noi: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”; poi riempì di vino, a una a una, le coppe: “Bevete, questo è il mio sangue… chi crede in me, siederà alla destra del Padre”. Terminò ammonendo: “Fate ancora così, in memoria di me”. Fu allora che mi sentii invadere di una nuova dolcezza, di un fuoco sovrannaturale. Come se insieme stessi morendo e rinascendo a una nuova vita. Il resto che seguì…

 

Con lui, in anni ormai lontani, abbiamo camminato in lungo e in largo, per le polverose strade di Galilea, di Samaria, di Giudea… A quelle, oggi preferisco le strade ampie, dritte, superbamente pavimentate costruite dai Romani. Sono opere gigantesche, un po’ come la Torre di Babele della nostra Bibbia: in fondo, anche queste strade hanno a che fare con le parlate delle genti. Dicono che si estendono, come tele di ragno, per tutto il mondo, da un oceano all’altro. Quando uno percorre una di queste consolari può ascoltare una infinità di lingue che io non conosco. Quello che capisco è che il mondo, grazie alle vie romane, è un mondo sempre più globale, dove tutto e tutti si mischiano, vanno e vengono, trafficano e a volte si arricchiscono… non mi stupirei se un giorno sul trono imperiale di Roma, di quel Romolo e di Augusto, arrivasse a sedere un africano della Numidia o, che so, un siriano. E’ l’effetto della “pax romana”, efficace anche se sanguinosa.

 

Io non so dove mi porterà la bella strada che sto percorrendo. Ma mi piacerebbe se, seguendo accortamente la ragnatela, un giorno riuscissi ad arrivare a Roma. Noi seguaci di Gesù non siamo pregiudizialmente ostili all’Impero, come i confratelli in Abramo. Il nostro Regno, ripeteva il Maestro, non è di questa terra, e noi pagheremo sempre – scrupolosamente – le tasse da pagare con la moneta che reca l’effigie del Cesare. E’ moneta sua e a lui volentieri la rendiamo, quando è giusto. Così, il mio più grande desiderio, in questa mia tarda età, è di poter arrivare a Roma, predicare a Roma il Vangelo, la Novella, di Gesù.

 

Non so bene cosa devo predicare, il comandamento del Maestro non mi è ancora chiaro, e così è anche per molti altri fratelli di fede: la resurrezione…? Almeno la resurrezione della carne alla fine dei tempi? Il ritorno del Maestro, del Messia? Non so, tra di noi, suoi vecchi discepoli, ne parliamo, ogni volta che ci incontriamo, quando rinnoviamo e confermiamo il patto del silenzio che abbiamo stretto tra noi – ma una sola cosa mi è certa, cioè che io ripeterò ancora, assieme a uomini e donne che lo vorranno, pubblicani e prostitute, il gesto del Maestro in quell’ultima nostra cena: spezzerò il pane azzimo e lo distribuirò a chi lo vorrà, verserò e berrò del vino e lo farò bere a chi ne vorrà, e poi, alla fine, dirò ai convenuti: “Andate in pace”. Cos’altro potrei aggiungere di mio, senza stravolgere e profanare le parole del Maestro? Siamo così immersi nelle tenebre, che la Verità è sempre una ricerca, una ricerca nel cammino del tempo, il tempo umano. A me piacerebbe dire, osando, che la Verità è, appunto, figlia del tempo. Ma forse la mia è solo superbia, emula della superbia di quelli che eressero l’empia torre in Babilonia…

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