Il mal di Francia
Ribelli e innamorati (sempre delusi) dell’autorità, ingegnosi ma poco disposti a guardare oltre il proprio orizzonte. I cugini nello specchio di Peyrefitte, utile ancora oggi alla vigilia del voto
“Nessuna nazione ama considerare i propri mali come suoi figli legittimi”
Paul Valéry
Ecco i francesi che si dice siano ingovernabili (più di tutti gli altri), che detengono il record delle rivolte, dei crolli di regime, delle lotte civili, del malessere collettivo. Ed ecco gli stessi passivamente sottomessi alla loro amministrazione e innamorati (sempre delusi) dell’autorità, ribelli al loro stesso Stato e a un tempo incapaci di vivere senza questo tutore vessatorio”. Qui, s’annida “Le mal français”, come lo chiamò Alain Peyrefitte nel suo bestseller del 1976 divenuto presto un grande successo politico-editoriale. Sono trascorsi quattro decenni durante i quali la République è salita e scesa molte volte lungo le scale della illusione e della delusione, della protesta e della frustrazione, ma l’analisi dell’intellettuale e uomo politico diventato confidente di Charles de Gaulle, merita di essere letta e meditata alla vigilia di elezioni che s’annunciano anch’esse di rottura.
La Francia è di nuovo tentata da un cambio di regime e nello stesso tempo timorosa del salto nel buio. Il libro del confidente di De Gaulle
La Francia è di nuovo tentata da un cambio di regime e nello stesso tempo timorosa del salto nel buio, una Francia la cui pelle rugosa, segnata da lacerazioni e violenze, macchiata di sangue versato da terroristi islamici eppur fatti in casa, è in realtà il pelo di un gattopardo che ha paura di cambiare. Sembra un paradosso, ma non è così. Basta ascoltare i quattro cavalieri della supposta apocalisse politica, Marine Le Pen, Emmanuel Macron, Jean-Luc Mélenchon e Benoît Hamon, leggere i loro programmi, parlare con i loro sostenitori per capire che la posta in gioco a partire da domenica è proprio questa: come celebrare se stessi facendo finta di parlare a tutti, come chiudersi in casa illudendo che resti aperta la porta di servizio, come cercare una missione nel mondo senza sapere quale missione e in quale mondo. Ma prima di consumarci nell’attualità, torniamo a Peyrefitte.
Nato nel 1925 ad Aveyron, un paesino dell’Occitania, dopo il diploma all’Ena, la scuola d’alta amministrazione, comincia la carriera diplomatica, ma nel 1958 si butta in politica e viene eletto all’Assemblea nazionale nelle liste gaulliste. Il generale lo nota perché non solo è un giovane brillante, ma è uno dei pochi usciti dall’Ena tra i suoi parlamentari: è l’esemplare perfetto di “politico ed esperto”, come diceva parafrasando il detto di Mao che voleva i suoi mandarini “rossi ed esperti”. Eletto presidente, De Gaulle lo porta al governo: dal 1962 fino al 1981 con la vittoria di François Mitterrand e della Union de gauche, Peyrefitte ricopre una serie di posizioni ministeriali con Georges Pompidou e con Valéry Giscard d’Estaing all’Eliseo, interpretando sempre più l’anima tecnocratica e il cervello della destra modernizzatrice. Informazione, ricerca, educazione, giustizia sono i suoi dicasteri preferiti, ma in realtà Peyrefitte fa da relais con gli ambienti colti, con i governi stranieri (Germania, Stati Uniti, Cina comunista persino), con il mondo dell’industria e degli affari. Nel 1973 raccoglie il primo successo in libreria con un saggio dal titolo premonitore: “Quando la Cina si risveglierà… il mondo tremerà”. Tre anni dopo arriva “Il mal francese” che suscita un putiferio, non perché i suoi lettori non si siano ritrovati nella spietata e acuta analisi, ma proprio per la ragione contraria: un francese che più francese non si può, riusciva a mettere a nudo i problemi, le contraddizioni, le tensioni e il malessere che attraversava una società in declino non solo a confronto con i fasti del passato (diciamo fino alla Prima guerra mondiale), ma rispetto alla corsa dei propri vicini, i più forti come i tedeschi e persino i più deboli come gli italiani, non ancora stanchi e satolli, impegnati in una frenetica rincorsa.
Un eccesso di aspettative e di potere riposto in uno stato che genera irresponsabilità nei cittadini. La tendenza all'etnocentrismo
Il volume è corposo, oltre 400 pagine molte delle quali sono datate, naturalmente. Ma, ripubblicato nel 2006 è apparso ricco di “questioni di una attualità e d’una urgenza brillanti”, come ha scritto nella prefazione alla nuova edizione Hélène Carrère d’Encausse, storica, grande russologa, accademica di Francia (e madre dello scrittore di successo Emmanuel). La malattia che è a un tempo della società e delle sue strutture, ma soprattutto dello spirito e della mentalità, affonda le radici in una lunga storia ripercorsa dall’autore. Vi contribuisce in modo determinante l’eccesso di aspettative e di potere riposto in uno stato che genera irresponsabilità nei cittadini. Quella tecnocrazia così efficiente tanto invidiata da altri paesi, e in particolare dall’Italia, calata sopra le intricate croste del passato, genera un contraccolpo negativo sulla società francese. Madame Carrère d’Encausse sintetizza così le fattezze di quella che chiama la “incoscienza collettiva”: “La passione dell’ugualitarismo, il rifiuto della differenza, la paura del cambiamento, dell’innovazione, della modernità, la sfiducia di fronte all’autorità che i cittadini tendono a considerare illegittima, un atteggiamento che conduce a una contestazione permanente, spesso esplosiva, infine l’aggressività che fa della lotta lo strumento principale del dialogo”. Gli italiani si riconosceranno facilmente in queste ultime caratteristiche, i paesi del nord Europa nelle prime. Del resto, storia, cultura, geografia, demografia, fanno della Francia una cerniera tra nord e sud, la sua doppiezza rende i mali più evidenti.
Ogni popolo, secondo Peyrefitte, ha una tendenza all’etnocentrismo, ma ci sono due modi di esprimerla. Il primo mette in evidenza le differenze e le considera irrimediabili. Così fanno gli inglesi. Il secondo, invece, tende all’assimilazione e questo è l’atteggiamento dei francesi i quali, secondo T.E. Lawrence (il leggendario Lawrence d’Arabia) s’identificano con la perfezione umana. Peyrefitte chiama questo atteggiamento scotoma, come la malattia degli occhi che crea un’area di cecità all’interno del campo visivo dovuta generalmente a lesioni del tessuto nervoso. Freud parlerebbe di un inconscio che rifiuta di comunicare alla nostra coscienza tutto quello che ci impedisce di vedere in noi e attorno a noi. Qualche esempio pratico in politica. Scrive l’autore: “La maggioranza che ha sostenuto la V Repubblica (quella di De Gaulle, ndr) si è persuasa che tutte le difficoltà del 1960 venivano dalla IV Repubblica; e quelli che avevano gestito il potere nella IV Repubblica erano convinti che fosse colpa della V Repubblica” (Mitterrand che era stato ministro per i radicali nella IV Repubblica chiamò il regime del generale un “colpo di stato permanente”). La politica italiana soffre dello stesso male, con in più un altro capro espiatorio sul quale scaricare i nostri mali: l’Unione europea e in particolare l’introduzione della moneta unica.
Le fasi della modernità al potere e la "mondialisation" avversata. Due presidenze disastrose, e la campagna elettorale ha aggiunto confusione
Gli episodi più gustosi e illuminanti del “Mal francese” si trovano in alcune vicende economiche. Peyrefitte racconta che nell’ottobre 1964 propose al segretario tedesco all’informazione Günther von Hase un accordo tra i due sistemi di tv a colori, quello francese Secam e quello tedesco Pal, una collaborazione che avrebbe creato un indubbio dominio in tutta Europa, e non solo. Il suo collega seguì il consiglio, ma non ottenne alcun risultato. Come mai? Von Hase spiegò che uno dei princìpi della Repubblica federale era che il governo consultava gli imprenditori, ma non imponeva loro le scelte produttive. Ebbene gli industriali interpellati risposero che il Secam era eccellente, tuttavia aveva meno mercato del Pal: “Il prototipo è ben riuscito, ma dov’è la serie?”. Come il Minitel, un sistema anticipatore di internet, ma un sistema chiuso e solo transalpino. Funzionava benissimo, però non dialogava con nessun’altra rete fuori dai confini, così Internet aperta e globale lo ha bruciato. Un altro bel prototipo senza serie, al pari di un gioiello dell’ingegneria come il Concorde, il primo e finora unico aereo supersonico per trasporto di passeggeri. Battezzato nel 1976, venne abbandonato dopo la catastrofe del 2000, tuttavia non fu mai un successo economico. Peyrefitte racconta che a un certo punto gli inglesi avevano pensato di abbandonare quel progetto troppo costoso e con scarso mercato, allora il generale De Gaulle volle cambiare alleanze coinvolgendo la Russia sovietica. Poi ritenne che sarebbe stato pericoloso sul piano strategico e associò invece Mosca in un accordo per la tv a colori. Ricordiamo che in Italia venne introdotta in ritardo, solo nel 1977, perché considerata da Ugo La Malfa, antesignano dell’austerità, un lusso che non potevamo permetterci. E venne scelto il Pal.
La contraddizione tra prototipo e serie colpì la classe dirigente gaullista e la indusse a cambiare, soprattutto dopo lo choc del maggio 1968. La Francia reagì con riforme sociali e modernizzazione industriale alle lotte operaie e studentesche, l’Italia stampando moneta e accumulando debito, ha scritto Michele Salvati in un suo saggio molto noto. Fu Pompidou, succeduto al generale, a dare una dimensione su larga scala ai prototipi dell’ingegno francese. Pensiamo all’uso massiccio dell’energia nucleare per fini pacifici, ai treni ad alta velocità, all’aeronautica o anche alla grande distribuzione, alle reti alberghiere, persino al lusso (tre rami economici, questi ultimi, squisitamente privati). Anche quando lo stato non ha esercitato un ruolo diretto, ha sempre “fatto sistema” stimolando, incitando, mettendo insieme alta finanza, grandi banche, uomini d’affari abili e ambiziosi (Bernard Arnault, François Pinault, Vincent Bolloré, tanto per citare tre nomi di grande successo).
Alcune delle abrasive analisi di Peyrefitte, dunque, sono state recepite dalle classi dirigenti francesi e dalle stesse élite tecnocratiche (gli enarchi sono entrati direttamente nella stanza dei bottoni, fino a raggiungere l’Eliseo). Dopo Pompidou la Francia ha attraversato altre fasi di modernità al potere, per esempio il secondo settennato di Mitterrand, quando il presidente, abbandonate le nazionalizzazioni della sinistra unita, puntò a potenziare l’infrastruttura materiale del paese e a stringere quell’alleanza forte con la Repubblica federale tedesca che ha aperto la strada all’unione monetaria europea. Un tentativo è stato fatto anche da alcuni esponenti della gauche plurielle che ha vinto nel 1997 ed è rimasta al governo fino al 2002. Soprattutto Dominique Strauss Khan, il più aperto e spregiudicato tra i socialisti, ha cercato di sposare la Francia con la “mondialisation”, anche se, inutile negarlo, la globalizzazione è sempre fortemente avversata per quello spirito di cui parlava Lawrence e non solo per sovranismo o perché considerata lo strumento dell’egemonia americana. Il buon Lionel Jospin, socialista tradizionale più che conservatore, ha fatto defluire l’onda modernista verso acque più consuete, aigues mortes come gli stagni della Camargue alle bocche del Rodano. Così, ci ricorda la Carrère d’Encausse, il mal francese non è affatto guarito; anzi, la lunga crisi economica lo ha aggravato.
Lo stato ha sempre “fatto sistema” stimolando, mettendo insieme alta finanza, grandi banche, uomini d’affari abili e ambiziosi
La Francia ha reagito al crac del 2008 in modo ancora una volta scotomico: ha visto solo una parte, la propria, perdendo il resto. Ha preteso di dettare agli altri paesi le regole del gioco, ma ha giocato a modo suo, per esempio violando costantemente Maastricht e il patto di stabilità sul disavanzo pubblico (in tutti questi anni non è mai sceso sotto il tetto del 3 per cento), compiendo un balzo nel debito superiore a quello dell’Italia, rispolverando il sempiterno colbertismo per giustificare i salvataggi in barba alle norme europee che vietano gli aiuti di stato. Nonostante ciò, non è riuscita a salvare alcuni storici gioielli (la siderurgia è finita in mano agli indiani). Protezionismo, spesa pubblica, mancata riforma del mercato del lavoro non hanno allentato la morsa della disoccupazione: 10 per cento, più che doppia rispetto a quella tedesca, di poco inferiore alla quota italiana. Con due presidenze disastrose come quelle di Nicolas Sarkozy e François Hollande, del resto, non c’era da aspettarsi né gli scatti d’orgoglio del generale De Gaulle né l’astuzia machiavellica di Mitterrand soprannominato non a caso “il fiorentino”. L’ultima campagna elettorale, una delle più complesse e per certi versi drammatiche, ha aggiunto confusione a confusione. Ma ha riportato in primo piano alcune componenti fondamentali del mal francese, a cominciare dalla voglia di dare una spallata eversiva pur di non cambiare davvero le correnti profonde della società.
“Anche il generale De Gaulle era un prototipo riuscito, ma dov’era la serie?”, scrive Peyrefitte. I suoi eredi di destra giocano una partita identitaria respingendo il diverso, al di là di un muro (la destra radicale di Marine Le Pen) o in una enclave più o meno razionalmente costruita (la destra repubblicana di Fillon). E per diverso s’intende non solo il maghrebino, il berbero, l’immigrato, l’idraulico polacco o la portiera portoghese, cioè tutti quelli che agitano i sonni vandeani, ma ciò che arriva da fuori e minaccia l’eccezione culturale francese, siano prodotti agricoli o opere dell’ingegno. Le due sinistre si battono in modi e con proposte diverse per tenere viva la Gauche, quella socialista, quella comunista, quella trotzkista, l’intera tradizione che dalla seconda metà dell’Ottocento ha attraversato poi il XX secolo. Senza rendersi conto che del secolo breve resta solo la polvere, e fra poco nemmeno più quella. In mezzo c’è un terzo incomodo, un progressista che nuota controcorrente sia pur con prudenza, che vuol difendere il nuovo, ma con l’obiettivo di temperarlo affinché suoni come il clavicembalo di Bach. Intendiamoci, Emmanuel Macron è stato coraggioso nel suo tentativo di staccarsi dai due cori contrapposti, eppure in sintonia, s’è preso la briga di misurare la febbre e sfidare il mal francese, un azzardo che merita la medaglia al valore, anche se verrà sconfitto. Tuttavia, lui pure è un prototipo.
C’è una lezione per l’Italia, così diversa e così simile in molti tratti tra i quali svetta la sottocutanea pulsione a non cambiare? C’è, eccome. Rileggere il mal francese e apprezzare l’intelligenza di Peyrefitte è un modo per farsi partecipi di quel che accade in un paese che non può non esserci vicino non solo geograficamente, ma nel profondo del nostro essere e della nostra storia. Ed è anche un modo per renderci consapevoli del male italiano che ci perseguita e ci divora.
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