A rimirar le cellule
Cervelloni felicemente in fuga al centro ricerca di Ibm, dove si studiano atomi e particelle, nasi elettronici e modelli matematici sulle pandemie
San José. Nasi elettronici, cellule che mandano impulsi, microscopi inestimabili e guantoni da videogioco. E’ la fabbrica che non fabbrica, il monumento all’innovazione futuristica di un marchio antico, il centro ricerca di Ibm ad Almaden, sperduta collina al limitare di Silicon Valley, dove, deposta la manifattura, si progetta il futuro. “Gli allarmi sono divisi per categorie, c’è quello per il fumo, quello per il gas, ma non esiste un naso universale come quello umano” ci dice subito la dottoressa Luisa Bozano, uno dei cervelloni felicemente in fuga su questo appennino di Silicon Valley, verso San José. Negli immensi parchi che circondano il centro Ibm volano soffioni di pollini. “Pensa come sarebbe utile una Waze delle allergie, una app che ti segnala quale strada è infestata di pollini e quale puoi invece percorrere”, dice Bozano. “Così come in cucina l’intelligenza artificiale potrebbe aiutare molto, soprattutto gli anziani, mia madre per esempio ha perso l’odorato, stiamo studiando dei sensori nel frigo che avvertono se le verdure sono andate a male, o un altro che avverte se il latte è scaduto, o se la spazzatura è da buttare”. La dottoressa Bozano si aggira per il grande centro di ricerca, tra stampanti in nanotecnologia e barattoli di sugo al pomodoro Barilla con scritto “don’t eat”, eccoli nel suo laboratorio, servono per sperimentare il naso digitale, allenarlo a distinguere tra le diverse spezie. “Un rural network con 32 sensori”, stanno costruendo, per allenare il naso artificiale, tra tubi che pendono dal soffitto, umani in mezzo a cavi, viti, pezzi di macchinari: sembra il laboratorio di Eta Beta.
Monumento all'innovazione futuristica di un marchio antico. Luisa Bozano lavora sui sensori
degli odori, utili anche
in cucina
Ma poi vi danno la percentuale, sui brevetti? “No, ma se le scoperte che facciamo vengono commercializzate e incassano più di 500 milioni di dollari abbiamo un outstanding award, cioè un premio produzione”, dice modesta, poi soggiunge con nonchalance: “Oh, io ho progettato anche un materiale per stampare i chip, mi sa che ce li hai anche nel tuo iPhone”. La dottoressa non si occupa solo di puzze: e Ibm oltre ad avere la maggior parte dei brevetti che stanno dentro il telefono Apple, ha anche la più alta percentuale di brevetti al mondo. Tutto è surreale su questo mammozzone in mezzo alle colline: nei laboratori i pc sono ancora targati “Big Blue”, come si chiamava un tempo la International Business Machines, e però portano etichette con scritto “made in China”. La manifattura, per il gruppo che inventò il computer quando si chiamava ancora “personal” e poi il portatile col thinkpad (ma prima ancora, le affettatrici) è stata venduta infatti da decenni ai cinesi, qui si fa solo innovazione ad altissimo valore aggiunto. E’ un caso emblematico di come la “seconda America”, quella della fabbricazione fisica degli oggetti, si possa trasformare allegramente nella “prima America”, quella che innova e fa soldi e crea occupazione ad alto valore aggiunto (le definizioni sono di Enrico Moretti, secondo la sua nuova geografia del lavoro che spiega gli Usa e il mondo a due velocità).
La fabbrica che non fabbrica sembra il quartier generale Diesel in Veneto ma senza muri verticali, non ci sono biliardini e colori sgargianti come nell’architettura goliardica di Silicon Valley, il complesso è anzi un po’ vecchiotto, i prati sono orizzontali, non lontano da dove Jonathan Franzen profeta antitecnologico viene a fare birdwatching tra un’intervista e l’altra contro le tecnologie cattive. In un parco di ettari aperto al pubblico un enorme parallelepipedo-bunker, dentro tutto di legno, unico a resistere al terremoto del 1989 perché blindato con mega fondamenta. Alle pareti, ritratti di inventori della casa, decine e decine. “Ci sono Nobel?” “No, quelli li teniamo nell’altro centro di Zurigo”, dice la Bozano scappando via.
Un microscopio inestimabile per infilare la memoria in un atomo. Il team (24 milioni
di dollari di fondi federali) guidato
da Simone Bianco
Abbiamo appuntamento con un altro scienziato immaginifico. Jim Hedrick si è inventato un modo per curare le malattie con la plastica riciclata. “Noi normalmente combattiamo tutto con gli antibiotici, ne abbiamo usato e abusato, e ciò ha generato resistenza”, ci dice Hedrick. “Per esempio in agricoltura ci sono specie di germi ormai resistenti, perché un microrganismo quando tu lo attacchi ha una resistenza innata, continua a mutare, reagiscono per sopravvivere, è la lotta alla base per la sopravvivenza della specie, e così quelli che non muoiono sono i più forti, col risultato che servono antibiotici sempre più aggressivi e diversi. L’antibiotico infatti legge il batterio come una stringa di numeri, a volte se se ne cambia anche uno solo, non è più in grado di leggere la combinazione e quindi di curarla. Ci sono malattie poi che più di altre sono resistenti, come polio, epatite, l’Hiv, ma noi abbiamo scoperto che usando i polimeri cioè le particelle infinitesimali della plastica riciclata, queste particelle sono in grado di attaccarsi alla parte esterna dei batteri, uccidendoli in maniera molto più rapida. In questo modo i batteri non hanno il tempo di riprodurre le difese”. Tutto questo in un ampio salone mentre su monitor giganti ci appaiono grafici ed equazioni incomprensibili che facciamo finta di capire.
Poco più in là, sempre nella grande sala aperta sulla campagna, due ragazzi dall’accento romano, Federico Columbro e Lorenzo Napoleone, from Tor Vergata University, appena arrivati: “Siamo sconvolti da come ci trattano”, nel senso di bene, e però sfuggire al genius loci è impossibile così venendo da Roma giustamente sono qui a fare ricerca su un sistema di smaltimento dei rifiuti, “stiamo pensando a un secchione che compatta la spazzatura già in casa, e poi comunica direttamente con l’azienda di smaltimento, e un algoritmo intelligente che poi ti fa pagare le tasse sull’immondizia in base al consumo reale”, dicono al Foglio. Hanno un tazebao su cui ogni passante (che è almeno scienziato) può lasciare un’indicazione, un pensiero. Magari riusciranno a risolvere il più grande mistero scientifico della storia, quello della monnezza romana.
"Ci sono batteri più resistenti di altri, ma abbiamo scoperto che certi polimeri, cioè particelle della plastica riciclata, possono ucciderli"
Altro giro: la dottoressa Kun Hu è esperta in matematica epidemiologica (cioè, tradotto, su come si trasmettono le malattie, valutando le probabilità). “Studiamo modelli matematici per vedere come si trasmettono e si distribuiscono le epidemie”, ci dice. La dottoressa combatte i mostri del nostro tempo, l’Ebola, Zika, l’aviaria, discute coi governi (“per esempio, uno dei lavori che facciamo è calcolare le probabilità in emergenze come un attacco della Sars, cosa succede se chiudiamo un aeroporto?”), e ha messo a punto lo Stem, che sta per “Spatiotemporal Epidemiological Modeler” ed è un contenitore di modelloni matematici sulle pandemie che Ibm ha reso disponibile gratis per tutti (governi e scienziati) in modo che in caso di emergenza ogni soggetto coinvolto possa utilizzarli. 244 paesi al mondo già lo usano per prevenire e trattare epidemie. E’ anche open source, cioè ogni utente lo può modificare a piacimento.
Ciò che proprio non si può modificare è invece la stabilità di un microscopio da milioni di dollari. Andiamo giù di sotto in un laboratorio minuscolo che pare la stanza del funzionario Rai ne “La terrazza” di Ettore Scola, con le pareti che si restringono meccanicamente. Il dottor Christopher Lutz è innamorato dei suoi atomi. Tutto orgoglioso ci mostra un cartone animato della stessa Ibm, “Un ragazzo e il suo atomo”, Lutz è studioso nel campo dell’“atomic computing” ed è un po’ l’opposto dei vari siliconvallici che vogliono andare su Marte perché la Terra è troppo affollata. In generale colpisce, rispetto alla baldanza dei vari startupper di Silicon Valley, alla mitomania un po’ trucibalda dei vari Elon Musk, coi loro jet privati e missili, la timida consapevolezza di questi scienziati gentili che zitti zitti stanno nel loro laboratorio e progettano scoperte probabilmente fondamentali, partendo dall’infinitamente piccolo.
Il dottor Lutz dunque non vuole colonizzare Marte ma fare spazio quaggiù: gli atomi hanno ancora tanto spazio libero, Perché non riempirli di memoria? Ecco dunque questo microscopio gigante, microscopio “a tunnel”, inventato qui negli anni Ottanta, peso due tonnellate, occupa una stanza, finisce in una buca profonda un metro, ancorato alla terra sismica di California per avere zero vibrazioni anche in caso di terremoti classe “Big One”. Ha un pedigree non male, è fruttato un premio Nobel per la Fisica nel 1986 al suo inventore. E’ in grado di andare a pescare ogni singolo atomo, scoprendolo nel mucchio, con un ago che va a titillarlo con un ingrandimento di 100 milioni di volte, e per fare questo titillamento ha bisogno di poche vibrazioni e di stare al fresco (-268 gradi centigradi). L’atomo così disturbato nella sua privacy si arrende ed è pronto alla bisogna a contenere presto la nostra memoria (lo riempiremo di selfie e video di snapchat con le orecchie di gatto, pazienza).
“Per ora”, dice il professore, “per avere un bit, cioè il livello base della memoria, servono un milione di atomi. Presto invece potremmo avere la memoria di un telefono in un singolo atomo. Per anni abbiamo infilato memoria e potenza nella stessa superficie. Il tuo iPhone è più potente del primo, ma ha sempre la stessa dimensione di dieci anni fa. La memoria atomica potenzialmente ha una memoria 100 volte più densa di una memoria Ram”. Come in uno scherzo, in una stanza vicina al microscopio Nobel c’è il microscopio più economico del mondo: il dottor Tom Zimmerman, che in un sottoscala ci porta nel suo laboratorio popolato di trapani, saldatori, macchine fotografiche aperte e smembrate, cacciaviti, barattoli di burro d’arachidi svuotati in cui nuota felice del plancton. Zimmerman è anche, a tempo perso, il papà della realtà virtuale, e da un secchio di giocattoli della sua Wunderkammer, in cui sta cercando qualcosa da farci vedere mentre cita Man Ray e Oscar Wilde e prende accordi per andare a suonare la chitarra con gli altri ricercatori, tira fuori un attrezzo e dice “oh, e cos’è questo?”, sono dei guantoni, meglio conosciuti come “Data glove”, i guantoni sensoriali che secondo l’Enciclopedia Britannica hanno inaugurato la realtà virtuale nel 1982.
Nel tempo libero, con una macchinina fotografica collegata saldando un circuito stampato, ha costruito un piccolo microscopio digitale “in grado di registrare immagini a 4k”, costo venti dollari, e sul suo laptop Ibm (made in China) ci fa vedere una schermata dove scorre la vita sotto forma di particelle, “è plancton”, dice aprendo il vasone di burro d’arachidi da cui ha estratto una cucchiaiata di “babyfood per balene”, cioè sempre plancton. Si diverte poi a buttare sul plancton diverse sostanze, alcol, e a vedere come reagisce, il pesce baby (il pesce baby impazzisce e corre da tutte le parti, giustamente).
Federico Columbro
e Lorenzo Napoleone vengono da Roma,
sono a San José
per fare ricerca
su un sistema di smaltimento dei rifiuti
Zimmermann fa parte del gruppo di lavoro di Simone Bianco, ricercatore pugliese che ha vinto un progetto di ricerca di cinque anni e 24 milioni di dollari di fondi federali, uno dei più importanti in tutti gli Stati Uniti. Dieci persone sotto di lui, cervello in fuga senza retorica (“non posso dire che l’Italia mi abbia mai rifiutato, semplicemente dopo la laurea in Fisica a Pisa il mio professore mi disse, perché non fai un dottorato in America, invece che in Italia? Così, dopo vari incarichi in Texas e in Virginia, eccomi qui. Ho scoperto poi che lavorare in azienda mi piace, mi piace trovare riscontri pratici alle mie scoperte”). Bianco, made in Taranto, è ormai una sorta di ambasciatore delle italiche scienze a Silicon Valley: guida una Fiat 500 gialla tra il tavoliere e il West: ha incontrato Renzi, ha portato in giro qui a Ibm il presidente della regione Lombardia Maroni qualche settimana fa (Maroni sta cercando di portare a Milano Watson Health, un sistemone della Ibm che mette in rete i dati sanitari creando un gigantesco database che possa aiutare a prevenire e prevedere malattie. Un progetto da 150 milioni di dollari e 100 posti di lavoro, autorità della privacy permettendo).
Bianco tira un po’ le fila di tutto quello che abbiamo visto qui nel bunker dell’innovazione di Ibm: dal naso all’atomo, si tratta di mettere a lavorare l’infinitamente piccolo al servizio dell’uomo. Dal polimero all’atomo alle cellule. Delle cellule infatti tratta il suo progetto di ricerca: “Come usarle come sensori. Tentiamo di trasformare la biologia cellulare in ingegneria”, dice. “L’input può essere per esempio l’inquinamento di un lago, e vogliamo trasformarlo in un output, ora noi abbiamo un test per il piombo, ad esempio, e uno per il mercurio, uno per altri veleni. Ma non abbiamo un test generale che ci dica se c’è qualcosa che non va nel lago stesso, come il plancton impazzito di Tom. La stessa cosa nel cibo. La nuova frontiera del sensing non è sul segnale specifico, ma sull’insegnare a una macchina lo stato normale delle cose, e come segnalare se questo cambia improvvisamente. Oggi nella prevenzione di grossi disastri devi fare diecimila test e così rischi di avere molti morti prima di avere l’allarme. Per esempio”, prosegue Bianco, “anche nel cibo, qualche anno fa in Cina hanno scoperto che allungavano il latte con la melammina. E per la melammina non c’è un test. Fai tutti i test e il latte risulta sano. Però intanto i bambini muoiono”. Ma presto arriveranno le cellule segnalatrici, forse a partire dai laghi lombardi, dice che Maroni è rimasto molto impressionato dal plancton e dall’idea delle cellule sentinelle. Piccole sentinelle lombarde, dunque, e comunque, che sia per annusare, sentire le malattie o trasmettere segnali, nel lago o nel latte o nel sugo, o caricarsi di memoria, è chiaro che per cellule ed atomi la ricreazione è finita, è ora di mettersi al lavoro.
Il Foglio sportivo - in corpore sano