Autobiografia di un super-io
“Liberté, frivolité, éternité…”. Un secolo di storia francese nelle memorie di Jean d’Ormesson
Studiare invece che scopare era forse una perdita di tempo, ma anche un considerevole vantaggio nell’ascesa all’interno di una società”. E’ una considerazione di Jean d’Ormesson, scrittore, giornalista, Accademico di Francia e bon vivant, raccolta nella sua autobiografia Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella (Neri Pozza, 18 euro, in questi giorni in libreria). E più avanti: “La superiorità, per due o tre secoli, di quella che si può a grandi linee chiamare cultura occidentale dipende probabilmente in gran parte dal ritardo imposto alle pulsioni sessuali. Tutto il tempo rubato all’amore era dedicato agli studi. Per molto tempo sono andato a letto presto. Per molto tempo, invece di scopare, ho studiato”.
In pratica, secondo d’Ormesson, la superiorità del canone occidentale (e chissà cosa ne pensa Harold Bloom) è dipesa dalla repressione sessuale durante gli anni del liceo e dell’università, che, nel caso dell’insigne scrittore è stata l’Ecole normale supérieure. Quanto a lui, in seguito ha recuperato il tempo perduto con gli studi matti e disperatissimi, a quel punto riuscendo a espugnare le donne più ambite con conversazioni che riescono a spaziare dall’assedio di Troia a Stephen Hawking, e tutta questa copiosa attività seduttiva si è svolta nonostante la statura non svettante: “Se in un assembramento fitto di folla vedete un buco, quello sono io”. Infine, riconosce lo scrittore, sulla bilancia dei successi personali nel mondo del lavoro, della cultura e delle conquiste va aggiunto il privilegio di essere un U, secondo la distinzione, inventata dagli inglesi, tra U e Non-U. Essere U (upper class ma anche University) è “una faccenda di linguaggio, di abbigliamento, di comportamento a tavola”. “Agli occhi di mio padre, di mia madre, dei miei nonni, dei loro amici e conoscenti, a dispetto delle differenze, spesso considerevoli, di estrazione, di ricchezza, di religione, di opinioni politiche, s’imponeva un codice di comportamento al quale era fuori questione non sottomettersi”. Ossia l’imprescindibilità delle tenute da cerimonia, da lutto, da viaggio, da sport, e, specialmente, quella delle cose da dire e da non dire: “Il linguaggio era un campo ancor più delicato dell’abbigliamento”. Senza togliervi il piacere della lettura di questo gustosissimo memoir, vi anticipiamo che potete dire “stronzo” o “merda” quante volte vi pare, ma mai “caspita!”, mai “‘le ventidue’, riservato alle ferrovie dello stato”, e soprattutto, scrive d’Ormesson, “facevamo delle prime colazioni, pranzavamo, facevamo merenda, cenavamo, facevamo una cenetta, andavamo pazzi per ricevimenti e cene notturne, sgranocchiavamo e piluccavamo ma non ‘mangiavamo’ mai. Ci ripugnava la sola idea di ‘mangiare con’ Tizio o Caio”. Molto importante era parlare poco; e proprio per via dell’attitudine alla chiacchiera, dice d’Ormesson, la contessa Greffulhe e la contessa de Chevigné consideravano Proust un chiacchierone indiscreto di cui diffidare. Lui invece le adorava e s’ispirò a loro per tratteggiare la duchessa de Guermantes.
"Per molto tempo sono andato a letto presto, per molto tempo anziché scopare, ho studiato". La superiorità del canone occidentale
A parte le facezie, nella portentosa autobiografia di Jean d’O (come è comunemente chiamato in Francia) c’è ben altro. C’è almeno un secolo di storia francese, ci sono letteratura e filosofia, un appagante sfoggio di aneddoti, citazioni e soprattutto massime, una stupefacente girandola di incontri, ritratti di esseri umani e di castelli, viaggi e anche qualche amore, sebbene d’O continui a comportarsi da gentiluomo e quindi, pur arrivato sull’orlo della vita – con molte sue ex probabilmente defunte –, eviti di svelare al lettore i succosi dettagli di quella che dev’essere stata una grande carriera di seduttore, con la complicità del potere, del lignaggio, degli occhietti azzurri penetranti, dello spirito avventuroso e della capacità affabulatoria. A novant’anni, d’Ormesson ha deciso di riunire in un volume episodi della propria vita, alcuni già raccontati in libri precedenti (per esempio in Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto, edizioni Clichy, 2013), molti altri non ancora resi noti. Quattrocento pagine che da un lato sono un ripasso di nomi & fatti topici e dall’altro una scoperta, ideali per far provare un senso di vertigine a qualsiasi amante della storia politica, sociale e culturale dell’Europa novecentesca. Soprattutto, sono lo strumento con cui d’O ci fa notare quanto sia stato e sia ancora oggi al centro delle cose, addentro al dibattito politico, amico, conoscente e comunque in grado di esprimere giudizi circostanziati su chiunque, sia esso scrittore, attore o candidato alla presidenza della Repubblica.
Per dispiegare nel suo memoir il ventaglio dei nomi, dei luoghi e delle confidenze raccolte, d’O ha usato un curioso stratagemma, una zampata d’autore che dà ritmo e movimento all’organizzazione dei ricordi: è la forma della narrazione, organizzata come se si trattasse di un processo. C’è un Io, anzi un «venerabile super-Io» che conduce un’inchiesta, e un Io che risponde. Come se non si trattasse di un memoir ma del verbale di un’audizione, con un tribunale che deve giungere a un verdetto. L’imputato ha ovviamente un considerevole senso del sé, altrimenti non ci racconterebbe per filo e per segno la sua vita, incluse le letture da adolescente, il ricordo di una ragazza brutta che gli rivolge la parola in tram, i professori, i risultati degli esami d’ammissione e altre vicende che leggiamo con interesse ma, se le scrivessimo noi, i lettori ci manderebbero al diavolo; eppure viene continuamente sbeffeggiato dall’Io tracotante che lo inquisisce. Di domanda in domanda, il super-Io gli dà del vermiciattolo di palude, dell’impostore sfavillante, del ganimede sfarzoso, del tracotante fanfarone, e lo accusa di leggerezza, mondanità, inconsistenza, indecisione, superficialità, di essere in pratica “uno che ha perso gran parte del suo tempo ad andare a pranzo e a cena fuori”, mentre d’O cerca di scusarsi, in perenne difesa, ammettendo che se è stato incostante e superficiale e poco appassionato è successo solo perché “ho cercato tutta la vita di rifuggire noia, fasto, solennità”. “Liberté, frivolité, éternité…” è stato brillantemente scritto in Francia per definire il contenuto di questo libro che ha venduto duecentomila copie, ennesimo bestseller prodotto dall’autore di A Dio piacendo, titolare di tanti record oltre a quelli delle vendite, tra cui l’essere uno dei pochissimi scrittori (sinora quindici) pubblicati da vivi nella Pléiade di Gallimard, collana cui sono ispirati i nostri Meridiani Mondadori (che però da tempo hanno aperto le porte a manipoli di scrittori viventi, selezionati con minore severità o comunque con criteri più mondan-commerciali di quanto non accada da Gallimard).
L'imprescindibilità delle tenute da cerimonia, da lutto, da viaggio, da sport, e, specialmente, quella delle cose da dire e da non dire
Quanto allo stile dell’autobiografia, ci sono curiose coincidenze con il memoir di un altro grande della letteratura francese novecentesca, Romain Gary, di cui d’O è stato “lettore entusiasta”. Anche lo scrittore russo-francese titolare di svariati pseudonimi e identità aveva usato per il proprio appassionante memoir, La notte sarà calma (sempre pubblicato da Neri Pozza), lo stratagemma delle domande e risposte. Anziché un Io giudicante, Gary aveva usato l’espediente di un giornalista fittizio che gli poneva domande insinuanti. Forse, uomini così noti, così celebrati, consapevoli di essere imputabili di sfoggi narcisistici, hanno pensato che per dare in pasto ai lettori le proprie memorie occorresse mettere in scena un teatrino, col giudice e con l’imputato, come a chiedere l’indulgenza dei lettori (e dei critici), magari invidiosi delle loro sfavillanti carriere. Tra le coincidenze, il fatto che entrambi, d’O e Gary, abbiano abitato sia a Nizza sia a Parigi in rue du Bac, e che entrambi non siano mai stati, neppure per un momento della loro esistenza, intellettuali di sinistra (per fare un esempio, d’O così definisce il ’68: “Il sorprendente psicodramma conosciuto con il benevolo nome di ‘avvenimenti del maggio 1968’”).
Jean d’Ormesson, il cui padre discendeva da una famiglia della nobiltà di toga, è nato nel 1925 e ha passato i primi anni della sua vita nelle città dove il padre aveva incarichi diplomatici: dapprima a Monaco di Baviera, poi a Bucarest (ed è splendido il ritratto della buona società romena ai tempi della monarchia), infine in Brasile. Rientrato in Francia con i genitori nel 1938, non andò a vivere nel castello paterno, a Ormesson (“Diderot lo paragonava, a causa dei suoi fossati, a una bottiglia capovolta in un cestello per il ghiaccio”), ormai in totale disarmo, ma in uno dei castelli più belli di Francia, quello della nonna materna, a Saint Fargeau (castello la cui inevitabile vendita, negli anni Sessanta, produrrà nello scrittore un rimpianto assai produttivo: ne ha fatto il protagonista del romanzo bestseller A Dio piacendo).
Le coincidenze con Romain Gary, di cui è stato "lettore entusiasta". Mai stati, neppure per un momento, intellettuali di sinistra
Arrivata la guerra, la famiglia d’Ormesson si sposta al sud della Francia, mentre Jean studia e studia, con un’unica certezza sul futuro suo e del fratello: “Eravamo liberi: potevamo diventare diplomatico, consigliere di stato, ispettore delle Finanze, membro della Corte di conti, governatore della Banca di Francia o prefetto, ma mai, in nessun caso, banchiere, agente immobiliare, pittore, calciatore, cantante o produttore cinematografico”. Lavori disprezzati dal padre, che probabilmente non avrebbe approvato nemmeno la svolta attoriale di Jean, avvenuta quando ormai lo scrittore era ottantasettenne, nel 2012. Incuriosito dalla vita degli attori, che aveva osservato durante le riprese dello sceneggiato tv tratto da A Dio piacendo, d’O ha accettato di interpretare il ruolo di François Mitterrand nel film La cuoca del Presidente. Un Mitterrand da lui per nulla amato, e di cui nel corso di queste memorie fa notare doppiezze e mistificazioni: per esempio i tre lunghi anni che gli furono necessari per prendere le distanze dal regime di Vichy, mentre al padre di d’O erano bastate poche ore. Sempre a proposito di Mitterrand, d’O racconta un aneddoto gustosissimo: nel 1995 venne convocato all’Eliseo per una conversazione col presidente che era alla fine del mandato, proprio due ore prima del passaggio di consegne con Chirac. Durante la chiacchierata, Mitterrand fece la seguente notazione: “In questo (il caso Bousquet, ndr), signor d’Ormesson, si riconosce la potente e nefasta influenza che ha la lobby ebraica in Francia”. A quel punto lo scrittore si sentì in dovere di rispondergli: “Signor presidente, ascoltandola mi pare di sentire mia nonna, che era una santa donna ma non aveva nel cuore né gli ebrei, né i massoni, né i comunisti, né i divorziati”. Poi, Mitterrand si dedica a una serie di maldicenze sulla classe politica del proprio schieramento, rivelandosi come “colui che dopo aver messo in piedi il Programma comune della sinistra, ha più contribuito al declino del comunismo in Francia”.
Nella lunga vita di d’O, ci sono persino tre anni da direttore del Figaro (dal ’74 al ’77), giornale di cui in precedenza era stato un semplice collaboratore. Lo scrittore accetta l’incarico, pur non avendo esperienza specifica né talento per la direzione, un po’ per la sua venerazione nei confronti di Raymond Aron, principale editorialista del quotidiano, e un po’ come tardivo omaggio al padre, ormai morto, che lo considerava incapace di ruoli istituzionali.
Accademico di Francia, "questa confraternita di beccamorti a caccia di funerali solenni". Fece eleggere una donna, la Yourcenar
“Ero continuamente assillato da una massa di problemi sindacali, economici, sociali. Françoise (la moglie, ndr) sosteneva che era lei ad annunciarmi per telefono i grossi avvenimenti politici mentre io discutevo con le associazioni dei giornalisti”. Resiste tre anni, infine dà le dimissioni. Ha cinquant’anni e ha finalmente deciso cosa vuole essere: solo e unicamente uno scrittore. Lascia la totalizzante vita da direttore e si dedica al romanzo che lo consacrerà definitivamente, A Dio piacendo. D’O, il cui tono a volte è lirico, a volte è autocompiaciuto, ma molto spesso è affettuosamente ironico, constata che: “Sono raramente della mia opinione”. Condizione più adatta alla vita dello scrittore che a quella di direttore del principale quotidiano francese di orientamento conservatore. Si dedica dunque alla scrittura, rifiutando ogni sperimentalismo avanguardistico: “Come Voltaire, credo che tutti i generi letterari siano buoni, escluso il genere noioso, che ha raggiunto il culmine nella seconda metà del secolo scorso”. Prima di A Dio piacendo, d’Ormesson aveva comunque già toccato il cuore dei lettori francesi con il romanzo La gloria dell’impero, pubblicato nel 1971 da Gallimard, e grazie al quale era entrato nel celebre comitato di lettura della casa editrice, delle cui sedute racconta spiritosi aneddoti. E grazie al successo di quel libro, e all’amicizia e ai consigli di Paul Morand, nel 1973 d’O era diventato il più giovane membro di sempre (record ancora oggi imbattuto) dell’Académie Française, “questa confraternita di beccamorti o di penitenti in divisa verde perennemente a caccia di funerali nazionali o solenni”. Della sua carriera di accademico, resterà nella storia la battaglia per eleggere finalmente tra gli “immortali” una donna, cioè Marguerite Yourcenar, in “una compagnia ostile al cambiamento. Fu una battaglia durissima. Sono partiti insulti da tutte le parti. Mi trattavano come un mascalzone”. Dopo una lunga contesa su regolamenti e pregiudizi, d’O riesce infine nel suo intento: “Un giornalista mi domandò: ’Allora cosa è cambiato all’Académie Française?’ Risposi: ’Ormai ci saranno due gabinetti. Su uno sarà scritto: Signori; e sull’altro: Marguerite Yourcenar’”.
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