La riserva indie
Contenti di essere marginali, anche quando diventano mainstream. Cantano e a volte urlano, diretti e sgraziati. Meno male che ci sono
Me li sono visti passare davanti agli occhi per mesi, anni, su Facebook, su Twitter, persino su Instagram, dove adesso va di moda pubblicare lo screenshot della canzone che stai ascoltando sul cellulare, di solito per comunicare indirettamente con qualcuno. Brunori, Lo Stato Sociale, Calcutta, Le Luci della Centrale Elettrica, I Cani, Motta, Pop X (che piacciono a Edoardo Camurri, e già questa è una garanzia). Li guardavo – guardavo, beninteso, non ascoltavo – con un certo sussiego, perché, pensavo, i cantautori o sono Battiato, Gaber, Guccini, De André, quelli che ho ascoltato per una vita, o semplicemente non sono, nella convinzione che questi cantautori più o meno giovani, più o meno nuovi, fossero solo puro intimismo (e che avessero tutti nomi assurdi, tipo Iosonouncane o Ex-Otago).
Poi, ho cambiato idea ascoltando una canzone dello Stato Sociale, “Mi sono rotto il cazzo”, che è del 2012, quando, secondo un certo purismo, Lodo Guenzi e gli altri ragazzi di Bologna non s’erano ancora compromessi con il mainstream, il pop, non erano ancora andati da Fabio Fazio, non avevano ancora pubblicato con una grossa etichetta; la cosa che onestamente spaventa di più, in ciò che viene rubricato sotto “indie”, una definizione che è così liquida come i tempi in cui viviamo, è che chi lo ascolta sfiora un certo settarismo. Vai bene, secondo i canoni dell’indie, solo se non hai troppo successo; se vendi, se vai in tv, diventi inevitabilmente commerciale e quindi arrivederci. E’ la stessa sorte che, in altri campi, è toccata a Zerocalcare, che ormai fa 100 mila copie a libro e questo lo rende meno simpatico agli occhi degli amici dei centri sociali. Ma è anche la stessa sorte toccata a Brunori SAS, Dario Brunori, un calabrese di Cosenza che prima di fare il cantante ha studiato economia a Siena, che non è più uno sconosciuto da anni; di recente lo ha persino citato Matteo Renzi sul palco del Lingotto (e quando ti cita Renzi significa che sei come Guardiola o Jovanotti, il che non è necessariamente un male, eh). Le cose sono comunque migliorate rispetto ad anni fa. Vasco Brondi (Le Luci) un volta ha detto che “negli anni Novanta i gruppi avevano una spocchia insopportabile. Dovevano rinchiudersi in una riserva per sentirsi più fighi. La scena musicale alternativa era semplicemente suicida. Ora non più, neanche il pubblico ha più quella visione”.
Ascoltare Lodo Guenzi che descrive meglio di Erich Fromm le relazioni sentimentali d’oggi è divertente. “Mi sono rotto il cazzo / Degli esperimenti del frequentiamoci ma senza impegno / Stiamo insieme ma non vediamoci che poi ho paura / Anzi vediamoci quanto ci pare / Ma vediamoci in compagnia / Mi sono rotto il cazzo dei codardi con l’amore degli altri / Mi sono rotto il cazzo perché poi non si dorme più / Si sta svegli finché non muore la speranza / Maledetta stronza che non muore mai mentre io vorrei dormire…”. Sicché, è stato il pensiero, vanno ascoltati. Perché non è possibile che non ci sia nulla da capire o da raccontare in queste nicchie. Soprattutto se il fermento è tale che i cantautori escono dalla ridotta in cui un po’ si mettono da soli e un po’ vengono messi dai media che per anni hanno guardato con commiserazione altre nicchie o controculture, come i GdR, i Giochi di Ruolo, pensando che fosse roba da nerd. Alla fine, però, hanno avuto ragione i giocatori di GdR e di carte Magic, perché il fantasy ha trionfato, in letteratura, in tv, come dimostrano i vari Troni di Spade con cui riempire collane e palinsesti.
La contaminazione dovrebbe rendere felici, invece talvolta viene guardata con sospetto dagli adepti (Vasco Brondi che scrive una canzone con Jovanotti? Vergogna!1!1!1!1). Come disse Zerocalcare da Fabio Fazio (appunto), se i miei fumetti piacciono anche a gente che mi sta sulle scatole, il problema è mio o di chi legge? Lo stesso vale per i dischi e i cantanti dell’indie, ben contenti di essere marginali e marginalizzati, come solo la sinistra bertinottiana poteva esserlo, teorizzando, schifiltosa, che la vera politica si fa sempre stando all’opposizione e mai maneggiando il potere. E la “vera” musica indie sarebbe all’opposizione di che cosa? Chiedere lumi a chi ne sa più di te, aiuta, specie quando sei più a tuo agio nell’elencare le correnti del Pd e con il dualismo Di Battista-Di Maio. Come Elisabetta, un’amica molto competente, che li ascolta tutti da anni. Dice: “La scena indipendente italiana è stata per anni portavoce di sentimenti scomodi ‘sparati in faccia come aria compressa’ (‘Come Vera Nabokov’, I Cani, ndr), quelli che stridono se li passi in radio, quelli che non entrano nella tv generalista che non vuole conflitti ma solo animati consensi. Ha risposto ai bisogni di quelli che volevano sentirsi dire le cose, in modo diretto, che a loro volta avevano bisogno di urlarle quelle cose, sia che si trattasse di felicità, sia che si trattasse di profondi disagi, sia che si trattasse del paese. Oggi qualcosa è cambiato, sta cambiando, oggi questi gruppi li conosci anche tu, tu che la musica non te la vai a cercare. Questo perché le persone oggi vogliono sentire, ne hanno bisogno, perché nessuno più grida, o grida troppo e troppe cose e non si capisce più niente. Oggi, raccontare la realtà, in una realtà in cui non si capisce più niente, in una realtà con ‘sessanta milioni di partiti’ (‘Sessanta milioni di partiti’, Lo Stato Sociale, ndr), in modo diretto e spiccio ci dà quello che abbiamo perso, cioè la possibilità di identificarci in qualcosa”.
Frank Furedi, nel suo “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” (Feltrinelli), avvertiva che nella società post-ideologica, priva di sovrastrutture, le persone hanno perso così tanto i punti di riferimento da doversi inventare nuove identità con cui leggere se stessi e la società: quelle di (presunti) malati. Meno male dunque che ci sono questi cantastorie, al posto dello Xanax. Meno male che c’è l’ironia dello Stato Sociale, che questo fine settimana suonano al Forum di Assago. Non è secondario averli incontrati sui social network, visto che per loro Facebook e Instagram sono una sorta di estensione della loro produzione musicale; i testi delle nuove canzoni rilasciate, come pillole, in tweet e aggiornamenti di stato, fino poi a diventare canzoni che “adesso esistono” (“Amore, lavoro e altri miti da sfatare” è il titolo dell’ultimo album, uscito a inizio 2017): “Ricordati di ringraziare / Per una vita in tempo reale / A trasmissione globale / In differita satellitare / Con problemi di connessione / Schiavo dei soldi, schiavo del tempo / Della moda del momento e poi muori / E non è detto che a quel punto / Tu abbia smesso di pagare / E odi chi è al successo / Perché non sai odiare chi è al potere / Lavori per non pensare a che lavoro fai / Per chi ti chiede sempre di più / La paura non serve a nulla / L’amore al peggio ti fa dimagrire / E non resta niente dei tuoi sogni / Se da sveglio non valgono più” (Sessanta milioni di partiti).
Meno male che c’è Le Luci Della Centrale Elettrica, che da pochi giorni è uscito con il suo “Terra”, dove ci sono due canzoni che valgono il disco: “Iperconnessi” e “Nel profondo Veneto”. “Iperconnessi” è il racconto del disagio della nostra società perennemente attaccata a Internet, tutta pubblica, tutta digitale, tutta presunta trasparente, per quanto questa trasparenza sia solo frutto di un’identità posticcia, “con visi più scavati, faccine sorridenti”, laddove i visi sono quelli veri e le faccine sono le emoticon con cui ci nascondiamo. Insomma non un granché, questa vita passata su Facebook a dire bestialità: “I tuoi vent’anni commenti feroci e polsi sempre appoggiati / alla fine sono passati abbastanza inosservati”. Sono anni che i cantautori raccontano l’amore ai tempi dei social network (o dell’Ikea), con una precisione da sociologi alla Sherry Turkle: “Le coppie si dicono basta e sui social network non sono più amici” (Le Coppie, cantata da I Cani nel 2011) e i rapporti sociali. “Cantami o diva l’ira della rete / imprevedibile come le onde / cantami della fame di attenzione delle sete di ogni idea che si diffonde / cantami o diva dello sciame digitale / l’ironia sta diventando una piaga sociale / cantami dell’immagine ideale / da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale / tu cantami della proprietà privata interiore / del rumore di fondo della società dell’opinione / cantami del diritto alla segretezza, la distanza, la timidezza / cantami dei posti dove il Wi-Fi non arriverà mai /mai e poi mai mai e poi mai” (Iperconnessi).
“Nel profondo Veneto” lo sporchissimo reale c’è eccome, insieme a fughe dalla provincia e fallimenti clamorosi; è, appunto, la storia di chi ha provato ad andarsene dalla provincia, salvo poi inevitabilmente tornarci, quella provincia che c’è nei dischi di Brondi e di cui il cantautore non può fare a meno: “Dietro di te le macerie, le false speranze / Le case in cui avresti voluto vivere / I ritmi per realizzare l’impossibile / Adesso puoi non pensare alla tua immagine / Essere più trasparente / Ritornare sconfitta e contenta / Facendo finta di niente”. Ascoltando questa gente, uno che scrive tutto il giorno di politica non può che chiederselo: sì, ma la politica? Dov’è la politica? Non è un riflesso condizionato, ma un’urgenza. Dunque: sono solo storie d’amore, storie di ventenni e trentenni alle prese con il proprio disagio quotidiano, in un mondo liquido senza punti di riferimento? La politica c’è, ma non è militanza, che è cosa diversa. Brunori, che vuole parlare alla sua generazione di trenta-quarantenni (lui è del 1977), non vuole essere un militante, come ha spiegato in un’intervista al Fatto Quotidiano, parlando del nuovo disco “A casa tutto bene”, ma descrivere le contraddizioni di un generazione. Più da osservatore, da narratore, che da attivista e da portatore di sovrastrutture. Il che non significa mancanza di ideali o essere privi di idee. Anzi.
“Nel disco ci sono sicuramente dei brani che hanno a che fare con l’attualità – ha spiegato Brunori – ma non volevo cadere nel cliché del cantautorato militante, quello di denuncia tout court. Volevo rappresentare un’amarezza di fondo che viene fuori da quello che vediamo, dalla realtà mediata. E’ un sentimento che può essere simile a quello che Battiato esprimeva in Povera Patria: è il guardare alla perdita di umanità, a quello che io considero il lato umano degli umani. E poi ci sono io, io che mi domando come mi stia comportando di fronte a tutto questo. E c’è l’amarezza del confronto con i miei coetanei, il capire che a volte preferiamo non vedere quello che ci circonda, guardare oltre”.
“Te ne sei accorto, sì / Che passi tutto il giorno a disegnare / Quella barchetta ferma in mezzo al mare / E non ti butti mai / Te ne sei accorto no / Che non c’hai più le palle per rischiare / Di diventare quello che ti pare /E non ci credi più”, canta Brunori ne La Verità. Ma anche: “Te ne sei accorto, sì / Che parti per scalare le montagne / E poi ti fermi al primo ristorante / E non ci pensi più”. Il disincanto di una generazione che sogna e disegna la barchetta, vorrebbe cambiare le cose che non ama, salvo poi accontentarsi di quel che offre una società gerontocratica, diffidente verso ciò che è nuovo tranne quando deve accattivarselo in campagna elettorale (e giù promesse elettorali per i “gggiovani”!).
Ma l’aspetto migliore di questa generazione di cantautori è che sono tanti. Tantissimi. Già ce lo aveva detto Chris Anderson nel suo saggio “La coda lunga” (Codice Edizioni) sull’economia della Rete, spiegando perché siamo passati da un mercato di massa a una massa di mercati. Un concetto che può essere applicato a molti ambiti, come la politica, dove sono nati movimenti, talvolta molto consistenti, di persone che hanno preferito evitare di affidarsi ai partiti in crisi di rappresentanza per creare dei movimenti di auto-rappresentanza. Una cosa che vediamo tutti i giorni in settori diversi dalla politica, dall’informazione all’intrattenimento: se la televisione trova un concorrente in YouTube e nella programmazione cinematografica personalizzata, nella quale ognuno può costruirsi il suo palinsesto, la politica dei movimenti e delle nicchie è la risposta a quella mainstream dei partiti di massa. I quali sono sempre meno di massa così come le nicchie sono sempre meno di nicchia. Anche in musica è così e se lo Stato Sociale non ti piace, se Brunori è troppo commerciale, se Brondi è troppo jovanottiano, se i Cani hanno fatto un ottimo esordio e poi si sono persi, ce ne sono altri dieci che potrebbero piacerti di più.
Sono, appunto “sessanta milioni di partiti”. O di spartiti.
Il Foglio sportivo - in corpore sano