L'hotel Burj al Arab di Dubai (foto LaPresse)

Ma che ne sai tu di Dubai?

Fabiana Giacomotti

Un mega Apple store, l’aeroporto più redditizio al mondo, il mattone in ripresa. La sfavillante “global shopping experience” dell’emirato. Gli italiani lo trovano buono per gli affari e per viverci

Quando si visita il museo storico di Dubai e ci si imbatte nelle tetre ricostruzioni della vita quotidiana dei mercanti beduini di ottant’anni fa, brutte statue di cera accucciate a terra con i lunghi baffi ritorti che si contendono lo spazio fra cumuli di spezie impolverate e qualche rotolo di stoffa grezza accatastata negli angoli, risulta un po’ difficile credere che l’organo di stampa ufficiale degli industriali del laniero di Biella, storico e paludato come le atmosfere che la sua testata “La spola” evoca, abbia dedicato tre giorni fa un numero speciale alla sesta edizione dell’International Apparel and Textile Fair di Dubai, sottolineandone l’importanza nello scacchiere mondiale della compravendita di tessuti e abbigliamento. Invece, nel giro di pochi anni Dubai è diventato l’undicesimo maggiore importatore di abbigliamento al mondo con quattro miliardi di dollari di giro d’affari a valore, ma occupa addirittura il secondo posto fra i maggiori rivenditori internazionali dopo Londra, com’è risultato chiaro l’altro ieri all’apertura dell’Apple Dubai Mall, il più grande centro studiato dagli eredi di Steve Jobs al di fuori degli Stati Uniti: ottantotto metri di facciata curva, una balconata che si affaccia sul Burj Khalifa e la Dubai Fountain, ma soprattutto l’obiettivo dichiarato di diventare “uno spazio per la comunità, in cui incontrarsi, imparare e divertirsi”.

 

L’avrete capito, siamo nell’area semantica della “global shopping experience”, come peraltro aveva dichiarato qualche mese fa il principe ereditario dell’emirato, lo sceicco Hamdan bin Mohammed bin Rashid al Maktoum, noto come “Fazza”, lo pseudonimo con cui firma libri di poesia si dice molto letti, annunciando che gli investimenti per la crescita avrebbero riguardato finanza, cultura e commercio halal, cioè lecito (l’equivalente dell’ebraico kosher che in Europa conosciamo certamente di più e sappiamo applicare a molti campi, anche se forse non a quello della cosmetica che è invece primario in questo caso). Dunque, musei, grandi mostre, fiere d’arte: all’ultima edizione di Art Dubai Contemporary, tenuta lo scorso marzo, hanno esposto quasi ottanta gallerie di portata internazionale: dalla londinese Victoria Miro, che fa anche parte del comitato selezionatore, ai torinesi Giorgio Persano e Franco Noero, che ha aperto di recente la sua seconda galleria al piano superiore del ristorante del Cambio, rinnovato da un paio d’anni, allestendovi una delle più importanti retrospettive su Robert Mapplethorpe degli ultimi anni.

 

“La nostra economia non appartiene al passato, ma guarda al presente e al futuro”, ha osservato lo sceicco, forse con

Quest'anno il fondo sovrano dell'emirato investirà 12 miliardi di euro in turismo e commercio, musei, grandi mostre, fiere d'arte

l’intenzione di marcare la differenza con quella europea, dove ancora dibattiamo di capitalismo Engels style, ma certamente conscio che la diversificazione di quei quattromila e rotti chilometri quadrati dall’economia petrolifera, già argomento scottante per suo padre vent’anni fa, dopo la guerra del Golfo, è diventata fondamentale da quando il prezzo dei cento dollari a barile di greggio si è trasformato in un miraggio e l’Opec pianifica di continuo tagli alla produzione. Dopo lo scoppio della bolla speculativa immobiliare del decennio scorso, il mercato della compravendita, affitti in particolare, ha ripreso a crescere. Ma la risorsa più ambita e invidiata di Dubai è il suo aeroporto, da cui nel 2016 sono sbarcati 83,6 milioni di passeggeri; tutti, a quanto sembra, con grande gioia e contando in un’attesa di transito di almeno un paio d’ore per darsi allo shopping duty free, che non di rado è a tiratura limitata ed edizione speciale: nel 2015, ultimo dato disponibile, il fatturato generato dallo scalo si avvicinava ai due miliardi di dollari, classificandolo al primo posto a livello mondiale. Ho un paio di amici stilisti che chiedono specificamente nei voli verso il Far East lo scalo a Dubai per godersi lo spettacolo dell’esercito di clienti che compra le loro borsette e i loro vestiti, come non succede quasi più altrove.

 

L’idea che Dubai si trasformi da hub aeroportuale in snodo globale per ogni genere di commercio (nel 2014, sfidando il clima che d’estate tocca i cinquanta gradi, ha aperto un grande hub refrigerato per il commercio dei fiori, in concorrenza con Amsterdam) piace molto alla famiglia al Maktoum. Quest’anno, il fondo sovrano di Dubai investirà in cultura, turismo e altre attività legate all’affermazione dell’emirato come “primary destination”, 47,3 miliardi di dirham, più di 12 miliardi di euro, sulla scia di una crescita del 27 per cento nelle spese in infrastrutture in vista dell’Expo del 2020. E moda, design e turismo sono, come sempre, la chiave più immediata ed efficace per raggiungere lo scopo, sebbene l’Italia fatichi a riconoscerlo perfino in relazione a se stessa che ne è una delle protagoniste. Il presidente di Smi e di Pitti Immagine, Claudio Marenzi, fa sapere che nel 2016 l’export italiano verso gli Emirati Arabi ha toccato i 223 milioni di euro, di cui 176, in crescita del 4,4 per cento, in abbigliamento, più del doppio rispetto al 2010. Lui, che vende piumini d’eccellenza e peso zero con l’azienda di famiglia, la storica Herno che negli anni Cinquanta forniva impermeabili perfino all’Inghilterra, nell’area ha un giro d’affari limitato per ovvie ragioni, ma Brunello Cucinelli ha aperto il suo primo monomarca nel Mall of the Emirates lo scorso anno e dagli ultimi dati di bilancio dovrebbe ritenersene soddisfatto: vi offre praticamente tutta la collezione, dalle camicie di cotone, lino grezzo e seta ai capi in lana. Sembra un’ovvietà a pensarci, ma con l’aria condizionata gelida che circola negli edifici pubblici di Dubai, a noi europei che non indossiamo djellaba o hijab e abbiamo il terrore dell’attacco di cervicale il golfino di cashmere è indispensabile. E qui arriviamo al punto fondamentale del tema, e cioè ai tanti, tantissimi italiani che vanno scegliendo l’emirato come meta per soggiorni lunghissimi, affari, e non di rado per viverci. Nel nostro ben circostanziato timore per il mondo islamico e l’intricato giro di denaro che ne sovvenziona le frange estremiste, gli emirati, e Dubai in particolare, sembrano godere di una speciale immunità: entriamo nell’università e la vediamo affollata di ragazze e di giovani ambosessi e nazionalità diverse, così come i ristoranti. Ai forum economici internazionali incontriamo signore dai capelli folti e ben in vista che siedono ai vertici di istituzioni importanti (una per tutte Monica Malik, chief economist di Abu Dhabi Commercial Bank). Sì, noi donne occidentali ci rendiamo conto che le differenze rispetto al nostro livello di autonomia sono ancora tante e molto evidenti ma, come dice Sabrina Baldi, direttore comunicazione di Renato Balestra, che a Dubai trascorre almeno un mese all’anno fra relax e lavoro e che fra pochi giorni affiancherà lo stilista nell’organizzazione della sfilata alla sesta edizione della Arab Fashion Week, “l’efficienza dell’emirato, la sua organizzazione e la sua sicurezza ti ripagano ampiamente di certe restrizioni. Io adoro Roma, è la mia città, ma purtroppo è diventata invivibile: a Dubai posso lasciare le chiavi dell’auto nel cruscotto sicura di ritrovarla e non devo guardarmi continuamente le spalle. Ho tanti amici che vi si sono trasferiti, senza mai pentirsene. Ci sta benissimo anche mia figlia che ha sei anni: molte delle sorelle più grandi delle sue amiche indossano il velo; ne abbiamo parlato, non mi pare che ne sia turbata. Di solito, se non interveniamo noi adulti, i bambini tendono ad accettare le differenze come naturali”.

 

Richiesti medici e piloti, e quelli italiani godono di una immagine extra. Cresce la moda d'alta gamma, rallentano i ristoranti

Thomas Paoletti, ormai l’avvocato d’affari di riferimento per gli italiani che vogliono aprire un’attività nell’emirato, fa parte degli ottomila expat residenti, di cui duemilacinquecento italiani, con seicento imprese registrate. “Ogni mese”, dice, “al consolato arriva un centinaio di nuove richieste”. Vive a Dubai dal 2008: aveva iniziato a frequentarla all’inizio del decennio scorso due o tre volte all’anno, per seguire lo sviluppo delle joint venture di alcuni clienti. Si è trasferito sul Creek nei mesi precedenti al crollo di Lehman Brothers; nel 2009 ha assistito allo scoppio della bolla immobiliare di Dubai e alle infinite cause che le sono succedute, intentate dai tanti che avevano comprato su carta palazzi o appartamenti mai costruiti o completati. Il vento è cambiato grazie all’assegnazione dell’Expo 2020 e al clima di insicurezza dei paesi occidentali cui faceva riferimento anche Baldi, e di cui le buche e l’insopportabile inefficienza di Roma rappresentano davvero una quota minima. Proprio gli emirati, l’occhio del ciclone, incastonati come sono fra paesi dove la radicalizzazione islamica è forte o anche tenuta lontana ma comunque tollerata, si stanno infatti qualificando come l’area ponte ideale per fare affari con il sud del mondo, una sorta di free zone certamente non dal punto di vista fiscale o societario, ma per così dire mentale. La burocrazia che pone l’Italia agli ultimissimi posti nelle classifiche dei paesi dov’è semplice fare affari è inesistente e “volendo, si possono aprire società anche da soli in poco tempo”, dice Paoletti, che sul suo sito ha caricato anche un vademecum per i sostenitori del fai da te. Però, visto che nemmeno l’oro a caratura altissima preferito a Dubai è rosso e luccicante come sembra, la joint venture con un emiratino è, quasi sempre, la soluzione migliore: “L’autonomia rappresenta la soluzione ideale per l’imprenditore che ha già esperienza nell’area, ne conosce le regole (anche dell’attesa, non bisogna dimenticarsi che, fra cristalli e cemento, Dubai continua a essere medio oriente e snodo millenario di traffici e mercanti, nda) e si sente sicuro, ma anche le aziende che per propria policy non entrano mai su mercati esteri per poter mantenere la totalità del controllo, possono strutturarsi con un ufficio di rappresentanza gestito da un locale”. Negli Emirati, a eccezione della free zone, vige come in molti altri paesi la formula del 49-51 della spartizione delle quote a favore di un soggetto di nazionalità emiratina. “Di solito, però, pochissimi sono in grado di operare su questo mercato da soli”, dice Paoletti, “e lo scoprono a proprie spese a pochi mesi dall’insediamento, dopo aver investito decine di migliaia di dollari per organizzare l’ufficio”. Insomma le agevolazioni non mancano, ma i controlli nemmeno, e l’attenzione a che cosa accade in quei pochi chilometri quadrati è totale. La sicurezza, anche invisibile, ha un costo. Molti connazionali sono tornati a investire nell’immobiliare: tremila euro al metro quadrato è la media per un appartamento a Marina, l’area prediletta dagli stranieri. Il rendimento netto è del cinque, sei per cento. “Vanno molto i tagli medio piccoli, sessanta metri quadrati, il cosiddetto one bedroom flat”.

 

Nel 2016 l'export italiano verso gli Emirati ha toccato i 223 milioni di euro, di cui 176 in abbigliamento: più del doppio rispetto al 2010

A Dubai sono richiesti medici e piloti. Quelli italiani, e dirlo fa proprio rabbia, godono di un’immagine e di una considerazione extra. Quando i colleghi che si occupano in questi giorni di Alitalia scrivono che gli aviatori della nostra compagnia commissariata passano da un colloquio all’altro dopo aver votato no al referendum sul piano di ristrutturazione sanno bene che cosa vanno mettendo su carta: Emirates li apprezza molto, ma c’è anche una schiera di privati, quelli che “I don’t fly commercial” come Naomi Campbell, pronti a metterli sotto contratto. Una certa ritrovata sobrietà nei consumi rispetto all’epoca pre-crisi, che lo sceicco Hamdan va sottolineando in tutte le interviste, ha invece rallentato un po’ i ritmi di crescita dei ristoranti, fino a oggi il grande sbocco dell’imprenditoria italiana insieme con l’hospitality. “La propensione alla spesa in queste categoria mi sembra si sia un po’ raffreddata” dice Paoletti. Quella nei confronti della moda pronta di altissima gamma, cucita in gran parte a mano e ricamata, la semi-couture o ready couture come si dice in gergo, non accenna invece a diminuire, anzi. Nei paesi emiratini la manualità è ancora apprezzata almeno quanto il design, e l’abito unico comunque preferito a quello in serie. Mario Boselli, presidente onorario della Camera della Moda italiana e della stessa Arab Fashion Week, si ritiene ragionevolmente certo che, lavorando di diplomazia e di educazione accademica con i ventidue paesi aderenti all’Arab Fashion Council, di cui fanno parte anche paesi manifatturieri per le imprese della moda europea come Marocco, Algeria e Tunisia, “si potrebbe, non dico certo arrestare, ma rendere anche parzialmente meno interessante l’emigrazione economica. Negli Emirati stiamo lavorando per impiantare una filiera locale nei paesi che già vantano una tradizione nella manifattura dell’abbigliamento o, a valle, nel tessile come Libano e Giordania”.

 

Fino a qualche anno fa, in questo ultimo elenco rientrava anche la Siria, con i suoi tessuti ricchi e impalpabili. Siamo così abituati a sederci sulle poltroncine di seta damascata delle nonne, da averci dimenticato che abbiamo imparato a produrre quelle trama lucida e opaca da quella città bellissima e ormai ridotta in macerie, novecento anni fa.

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