La trisomia 21, o sindrome di Down, è il più frequente tra i difetti cromosomici registrati da Eurocat (nella foto LaPresse, un momento dei Trisome Games del 2016 a Firenze)

L'eugenetica che non si dice

Roberto Volpi

Un registro dell’Europa per i difetti congeniti dei concepiti. Aborti a catena contro la sindrome di Down

Eurocat è il registro europeo dei difetti congeniti che raggruppa, organizza ed elabora le informazioni provenienti da quei registri europei dei difetti congeniti che rispondono a determinati criteri di completezza e attendibilità dei dati: 31 registri membri più 6 registri associati. L’Italia è rappresentata in Eurocat dai registri della Toscana e dell’Emilia-Romagna. Secondo gli ultimi dati appena pubblicati da Eurocat, e relativi al periodo 2011-2015, il tasso di concepiti con difetti congeniti è pari a 251 ogni 10 mila concepiti, 25 ogni 1.000, ovverosia un concepito con qualche difetto congenito ogni 40 concepiti. Un tasso che ci appare piuttosto alto, ma occorre tener presente che i difetti congeniti sono di entità molto diversa tra di loro, e che vengono segnalati anche i difetti minimi, quando diagnosticati.

 

I concepiti con difetti congeniti possono tradursi in nati, in morti fetali (nati morti più aborti spontanei) e in interruzioni volontarie di gravidanza a seguito di diagnosi prenatale. I dati al riguardo sono stati, su circa 3 milioni di nascite osservate attraverso questi registri: 59.179 nati, 1.433 morti fetali e 14.619 Ivg per un totale di 75.231 concepiti con difetti congeniti, dei quali 29.415 diagnosticati in fase prenatale. Da questi dati si ricavano i due indicatori più generali: (a) 39 su cento concepiti con difetti congeniti sono diagnosticati in fase prenatale e (b) 50 su cento feti diagnosticati con qualche difetto congenito sono abortiti volontariamente.

 

Eurocat è il registro che raccoglie i dati: dall'Italia quelli di Emilia e Toscana. Un'incidenza, anche di difetti minimi, del 25 per mille

Il difetto congenito proporzionalmente più diagnosticato in fase prenatale è anche il più grave: l’anencefalia, una malformazione congenita a causa della quale il nascituro appare già dalla primissima fase della gravidanza privo totalmente o parzialmente della volta cranica e dell’encefalo. Dei 1.199 feti con questo difetto ne sono stati diagnosticati ben 1.187, pari al 99 per cento; di questi ultimi 1.074, pari al 90,5 per cento, sono stati abortiti. Superano il 90 per cento di diagnosticati in fase prenatale anche i feti con i seguenti difetti: agenesia renale bilaterale, gastroschisi, onfalocele (meglio conosciuto come ernia ombelicale), trisomia 13 e trisomia 18 (due difetti cromosomici tra i più gravi), mentre si avvicinano alla quota del 90 per cento di diagnosticati i feti con spina bifida. Non sempre un’alta proporzione di diagnosi prenatali indica un difetto particolarmente grave. La gastroschisi, per esempio, è un difetto della parete addominale che non si chiude perfettamente lasciando fuoruscire l’intestino da una piccola apertura vicina all’ombelico. Difetto riconoscibile già dal primo mese con l’ecografia, di norma richiede soltanto di essere monitorato, mentre dopo la nascita il bambino che ne è portatore potrà essere completamente guarito con una operazione chirurgica piuttosto semplice.

 

Cosa ben diversa è per i feti con agenesia renale bilaterale, che indica la mancanza di entrambi i reni, e per quelli con spina bifida, che indica la non completa chiusura del tubo neurale – che quand’è del tutto aperto è anch’esso, come la mancanza dei reni, incompatibile con la vita. In queste due malattie il ricorso all’Ivg rappresenta rispettivamente l’80 e il 75 per cento dei diagnosticati in fase prenatale. Ma i due difetti congeniti che portano più frequentemente all’aborto volontario, quando diagnosticati in fase prenatale (e lo sono entrambi al 94 per cento), sono le trisomie 13 e 18, che consistono nella presenza di un cromosoma – il 13 o il 18 – soprannumerario o di un frammento in più di detto cromosoma. Entrambe queste trisomie conducono di norma alla morte entro i primi mesi di vita. Non meraviglia che i feti abortiti per queste trisomie arrivino alla quota di 85 su 100 diagnosticati.

 

 C'è un'eugenetica implicita, ma nient'affatto nascosta, nella diagnosi prenatale e nella ricerca a tutti i costi di un figlio sano

Concludendo, non abbiamo più di una mezza dozzina di difetti congeniti molto gravi che vengono diagnosticati quasi completamente, tra il 90 e il 99 per cento, in fase prenatale – con metodi non invasivi come l’ecografia, o invasivi come l’amniocentesi e la villocentesi, che individuano i difetti cromosomici – e danno luogo a percentuali di aborti volontari dei feti diagnosticati oscillanti tra il 75 e il 90 per cento. Si tratta di difetti che quasi sempre conducono chi ne è portatore a morte molto precoce. Le proporzioni di aborti, che proprio per questo motivo non appaiono così elevate, rappresentano una media tra realtà geografico-territoriali in cui si sfiora il 100 per cento di Ivg (Francia, Svizzera, Danimarca, alcune aree della Spagna e dell’Italia) e altre, dove il ricorso all’aborto volontario è di proporzioni assai più contenute (Irlanda, Galles, Malta, Olanda).

 

Trattandosi di feti che generalmente non hanno alcuna speranza di tradursi in individui capaci di giungere all’età della riproduzione, non possono incidere in alcun modo sul patrimonio genetico di una popolazione, sia che vengano o non vengano abortiti volontariamente dopo una diagnosi prenatale positiva. Di conseguenza l’interruzione volontaria di gravidanza nei loro confronti non ha implicazioni dirette di tipo eugenetico. L’eugenetica parte da un presupposto scientifico, che sia cioè possibile selezionare geneticamente una popolazione e, al limite, una umanità sempre più perfetta applicando nella pratica le scoperte scientifiche fatte nel campo della genetica e dei meccanismi dell’ereditarietà. Le pratiche eugenetiche non potevano che basarsi, fino a mezzo secolo fa, su un qualche controllo delle nascite, in base al principio che nascite indiscriminate propagano indiscriminatamente i difetti presenti nel “genoma collettivo” di una popolazione mentre più le nascite sono controllate sulla base di certi criteri selettivi più quei difetti tenderanno a uscire dal patrimonio genetico. Il nazismo, per il quale la politica era biologia, portò avanti un programma tanto di sterilizzazioni di massa che di eliminazione fisica di malati di mente e di individui affetti da gravi handicap fisici e malattie invalidanti. Le definizioni non sono mai così chiuse: sifilitici, alcolizzati, emarginati, per esempio, sono sempre a rischio inclusione, in politiche del genere. La politica eugenetica del nazismo non ha certamente giovato al buon nome dell’eugenetica, che pure godeva, prima di esso, di largo credito proprio tra gli intellettuali e gli scienziati progressisti che, sulla scia dell’evoluzionismo darwiniano, immaginavano un perfezionamento evolutivo dell’umanità che si sarebbe per così dire stampato in un Dna fatto di soli geni “buoni”. In fondo, bastava evitare che certe categorie di individui mettessero al mondo dei figli. In effetti, quando pensiamo all’eugenetica pensiamo, come argomenta l’Oms, a “una politica di coercizione che intenda favorire un proposito riproduttivo contro i diritti, la libertà e le scelte dell’individuo attraverso leggi, regolamenti, incentivi positivi e negativi, inclusi quelli che rendono meno accessibili certi servizi medici”. Ma è davvero tutta qui l’eugenetica? Dunque ove non ci sia, com’è in Europa, una politica di coercizione dei propositi riproduttivi si può star sicuri che né una politica né una mentalità eugenetica possano mai allignare?

 

Non siamo più nella seconda metà dell’Ottocento, e neppure nella prima del Novecento. Oggi si possono selezionare embrioni sani, nella fecondazione medicalmente assistita, scartando quelli che presentano qualche pur minimo difetto. Si può manipolare il genoma individuale. Si può, come si è visto, diagnosticare un difetto del feto già in fase prenatale, così da poter scegliere di abortirlo o no. Ci sono molti difetti diagnosticabili durante la gravidanza, e non sono certo tutti della gravità di quelli di cui abbiamo parlato. Ce ne sono di lievi, o di curabili, si va dal piede torto-equino alla palatoschisi, per citarne due molto conosciuti. Ma anche per questi difetti, ove diagnosticati, c’è una quota di interruzioni volontarie di gravidanza che si aggira sul 20-25 per cento: uno ogni 4 o 5 di questi feti viene abortito senza che abbia un qualche difetto grave, anzi avendone qualcuno, come la stessa così facilmente individuabile gastroschisi di cui abbiamo detto all’inizio, che si può ben definire lieve o minore.

 

Sono 39 su cento i concepiti con difetti congeniti diagnosticati in fase prenatale. Cinquanta su cento abortiti volontariamente

Giustamente si chiede Lucetta Scaraffia in Per una storia dell’eugenetica (dal formidabile sottotitolo “Il pericolo delle buone intenzioni”: e l’eugenetica ha lo scettro delle buone intenzioni) se la scelta di una coppia di avere solo un figlio sano, fisicamente perfetto, possa davvero non avere niente a che spartire con l’eugenetica. I feti con palatoschisi o piede torto-equino o gastroschisi, a maggior ragione in quanto, una volta nati, e quando sarà l’età, operabili e guaribili, diventeranno persone perfettamente in grado di procreare. Applicata a loro non vale più la regola secondo la quale l’aborto volontario di un feto che non ha alcuna possibilità di diventare una persona in grado di procreare non ha una rilevanza eugenetica. Che l’Ivg di un feto affetto da qualche difetto congenito che però non impedisce al portatore di arrivare all’età adulta e fare figli debba considerarsi un’azione in sé eugenetica è pacifico in base alla definizione stessa di eugenetica. Quasi tutti i difetti congeniti hanno una componente genetica, dunque eliminando i loro potenziali portatori, impedendo loro di arrivare all’età della riproduzione, si eliminano progressivamente certi geni non buoni, difettosi, che vengono via via cancellati dal Dna di una popolazione. C’è un’eugenetica implicita, ma nient’affatto nascosta, nella diagnosi prenatale, anche se non ci piace guardare la cosa da questo punto di vista. C’è un’eugenetica implicita, ma nient’affatto nascosta, nella ricerca a tutti i costi di un figlio sano. Un’eugenetica che in certe aree geografiche, tra certe popolazioni si fa a tutti gli effetti politica eugenetica, magari non dichiarata, sottaciuta o nascosta, anzi, ma nondimeno tale a tutti gli effetti.

 

La cosa è particolarmente visibile per quanto riguarda la sindrome di Down, la trisomia 21. Coi suoi 7.091 casi nel periodo considerato, la trisomia 21 è il più frequente tra i difetti cromosomici e uno dei più frequenti tra tutti i difetti congeniti. La trisomia 21 è diagnosticata in fase prenatale quasi al 70 per cento, mentre circa l’82 per cento dei feti diagnosticati viene abortito. E’, quest’ultima, una percentuale che non dobbiamo valutare in sé, per coglierne l’abnormità, e insieme lo spessore eugenetico, ma nel confronto con le percentuali di feti abortiti nei difetti più gravi e quasi sempre mortali già entro i primi mesi di vita: la trisomia 13 e la trisomia 18, con l’85 per cento di feti diagnosticati abortiti, l’agenesia renale bilaterale (mancanza di reni), con l’80 per cento, la spina bifida (mancata chiusura del tubo neurale), con il 75 per cento. Se si esclude la sola anencefalia (mancanza in tutto o in parte della volta cranica e dell’encefalo), con il 90 per cento di abortiti diagnosticati, praticamente non c’è difetto che sia più “sradicato”, con l’aborto volontario, della sindrome di Down. Ma la cosa è difficilmente comprensibile. I feti Down non hanno un rischio di morte dopo la nascita più elevato dei non Down, hanno raggiunto una speranza di vita di 60 anni prima impensabile, hanno alti gradi di autonomia personale, e livelli intellettivo-cognitivi che pur se della metà di quelli normali permettono loro una vita di relazione e affettiva piena e soddisfacente. Certo, sono predisposti a cardiopatie, a disturbi importanti delle vie respiratorie e dell’udito, a patologie della vista, a ritardi della crescita, a rischi molto più alti di leucemia e ad altro ancora. Ma non hanno mai goduto di condizioni e prospettive di vita migliori di oggi nei paesi occidentali che hanno per loro e le loro famiglie servizi e provvidenze di tutto rilievo. Eppure è proprio nei paesi occidentali che vengono sistematicamente abortiti, al punto che ci sono molti registri in cui il rapporto tra Ivg e nati Down è di 4 e perfino di 5 a 1, concentrati soprattutto in Francia. Il registro di Parigi, per esempio, dà questo responso: 183 aborti per 42 nati. E che dire del registro di Basque Country, la regione basca spagnola, con 240 aborti per 17 nati? Ma la trisomia 21 è in Europa diagnosticata in fase prenatale al 70 per cento, per il 30 per cento non viene diagnosticata in quanto gli esami dell’amniocentesi e della villocentesi sono fortemente consigliati solo a partire dai 35 anni della donna, perché sotto quell’età il rischio di un concepimento Down scende sotto l’uno per 1.000, mentre quello di avere un aborto spontaneo a seguito di uno di quegli esami è almeno di cinque volte superiore. Eppure a Parigi gli aborti rappresentano l’80 per cento dei concepimenti Down e nei Paesi Baschi addirittura il 93 per cento. Il che vuol dire, specialmente in quest’ultima realtà, che non uno dei diagnosticati Down si salva, che tutti quelli diagnosticati sono abortiti.

 

Cosicché non si sfugge a un’ipotesi inquietante se si pensa, appunto, che il livello di rifiuto di un bambino Down è pari a quello di un bambino affetto da una gravissima malformazione con un’aspettativa di vita di mesi, se non di settimane: che i Down vengano abortiti in massa non già perché non hanno aspettative di vita ma perché ormai ne hanno sin troppe, che vengano abortiti perché vivono a lungo, non perché muoiono subito, perché se fossero partoriti dovrebbero stare con noi per una vita intera, non per uno scampolo dolorosissimo di vita, e richiederebbero impegno e dedizione, perché, infine, ce ne vergogniamo. Vogliamo allora guardarci in faccia senza ipocrisie e dirci che questa ipotesi, suggerita da nient’altro che dai dati nudi e crudi, è tale da farci pensare che la diagnosi prenatale in sé stessa, di per sé, è tale da far maturare, in silenzio e in modo discreto, ma nondimeno ineluttabilmente, una mentalità, quando non una prassi, eugenetica?

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