Una lunga catena di Alitalie

Stefano Cingolani

Da Pan Am a Twa, non c’è compagnia aerea che non abbia attraversato una drammatica crisi economica. Qualche modello per offrire spunti ad Alitalia 

Chi è Juan Trippe e perché si parla così poco di lui? Il suo nome è sepolto dalla polvere della storia, la sua vicenda relegata per lo più nelle scuole di business. Un peccato, soprattutto oggi che ricorre l’ennesimo tentativo di tenere in vita l’Alitalia. Perché Trippe è il controverso e rutilante magnate che con la Pan American ha creato il trasporto aereo di massa. Nemmeno la sua creatura è sfuggita al destino che segna questa industria: la caduta precipitosa e la temporanea risalita. Per questo, ogni piano di salvataggio, ovunque nel mondo, s’è sempre ispirato alla Fenice, il mitico uccello che rinasce dalle proprie ceneri e dispiega le ali per poi consumarsi di nuovo, l’eterno ritorno e l’eterno addio.

    

Alitalia è morta due volte dopo il suo fallimento come compagnia di bandiera (il 12 gennaio 2009 s’è alzato in volo l’ultimo jet). Due volte soltanto? Nulla rispetto alla Pan Am. In bancarotta già nel 1991, ha avuto altre sei reincarnazioni, la più recente sette anni fa con il nome Paaglobal, ovvero Pan American Airways Global Holding. La sua acerrima concorrente, la Twa, Trans World Airlines, portata al successo da un altro campione dei cieli, Howard Hughes, ha chiuso i battenti nel 2001 ed è stata assorbita da American Airlines. E quante altre sono rimaste a terra, quante sigle gloriose sono solo un ricordo: Boac, Bea, Continental, Eastern, Ati, Sabena. Hanno trasportato milioni di passeggeri in ogni continente per oltre mezzo secolo, con i Caravelle, Tristar, Constellation (detto Connie), Dc 8, B 707, Jumbo, o l’elegante supersonico Concorde. Di loro che cosa resta? Polvere, immagini sbiadite? Debiti: quelli sì, perché chiunque salga a bordo si rende conto di quanto costa far alzare e riportare a terra quei giganteschi uccelli meccanici.

   

Il trasporto aereo non è un settore in declino. Alitalia, due compagnie in una: in quella del breve e medio raggio le perdite maggiori

L’Europa, dove imperava il modello compagnia di bandiera, pagata dallo stato e monopolista nei voli a lungo raggio così come nelle migliori tratte domestiche (si pensi a Roma-Milano), s’è illusa per un po’ di farla franca, ma a pochi anni di distanza ha seguito anche lei la sorte degli Stati Uniti. Il primo gigantesco choc è arrivato con l’impennata dei prezzi del petrolio negli anni 70. Poi la liberalizzazione negli anni 80. Infine, i voli low cost con Ryanair e i suoi cugini, monumenti alla concorrenza anche se temperata (eccome) da sovvenzioni, spintarelle di autorità e istituzioni pubbliche a vario livello. Costi bassi e alti incassi, prezzi minimi, utili massimi e tasse stracciate. Anche questo a suo modo è un modello, non esattamente da puristi del libero mercato, ma di successo.

   

Per Alitalia, dunque, si profila un destino americano? In Europa sono rimaste solo tre grandi. Air France, nella quale lo stato francese ha mantenuto una quota chiave (il 15,9 per cento), Lufthansa, legata strettamente al sistema tedesco (banche più poteri pubblici locali) e British Airways privata, ma troppo grande per fallire. Le big three si sono mangiate tutte le altre, o meglio quasi tutte tranne la travagliata compagnia italiana tenuta in vita con continue iniezioni finanziarie che a questo punto rischiano di rivelarsi letali. Per ora è commissariata e sopravvive solo grazie alla respirazione bocca a bocca (un prestito di 600 milioni garantiti dal governo). Si cercano partner, si cercano scappatoie con la Cassa depositi e prestiti, si cerca una qualsiasi via d’uscita perché anche il fallimento costerebbe allo stato oltre un miliardo in ammortizzatori sociali per i dipendenti mentre i creditori avrebbero indietro solo una manciata di spiccioli.

    

Ma torniamo a Trippe. Il 2 giugno 1927 fonda la Aviation Corporation of America con il supporto di potenti finanziatori con solidi appoggi politici: William A. Rockefeller e Cornelius Vanderbilt suo compagno d’università, più altri capitani coraggiosi di quei tempi. Per cominciare utilizzano un vantaggio competitivo: i diritti esclusivi di atterraggio all’Avana. Trippe ha 28 anni, nonostante il nome ispanico, i suoi antenati venivano dal Nord Europa e si erano installati nel Maryland fin dal 1664. La passione per il volo lo porta ad arruolarsi come pilota durante la Prima guerra mondiale, ma non fa in tempo a completare il suo addestramento che il conflitto è bello che finito. Tornato a Yale, si laurea poi si butta nella finanza, ma Wall Street lo annoia. Quando pensa di aver raccolto un bel gruzzolo, investe in un servizio di aerotaxi per gli straricchi di Long Island, quelli alla Great Gatsby tanto per capirci. Poi si lancia a corpo morto nel servizio postale, come farà più o meno in quel periodo Antoine de Saint-Exupéry, tra Tolosa e Dakar. Nel 1925 riesce a ottenere un buon contratto per il Mar dei Caraibi, s’installa a Miami e, acquisita la Pan Am, comincia il via vai con l’Avana. Ma Cuba non gli basta. E’ la Cina la meta ambita, così diventa presto l’operatore principale nella nuova repubblica che, liberatasi dell’ultimo imperatore Pu Yi, tenta il suo primo balzo in avanti verso la modernizzazione. Arriva la trasvolata del Pacifico, mentre l’Atlantico veniva attraversato senza scalo da Charles Lindbergh.

       

Il sorpasso del trasporto aereo su quello navale avviene nel 1957 e apre l'èra del volo per tutti. Le intuizioni di Juan Trippe

Il primo pionieristico volo passeggeri risale al 1914. Nel gennaio di quell’anno, a St. Petersburg, in Florida, venne messo all’asta un biglietto di viaggio. Se lo aggiudicò per 400 dollari Abram C. Pheil, l’ex sindaco della città, che s’accomodò da solo su una piccola panca di legno, accanto al pilota Tony Jannus, nella cabina dell’idrovolante biplano costruito con abete rosso e tela di lino da un certo Thomas Benoist di St. Louis. E raggiunse Tampa, dall’altra parte della baia, una tratta di 34 chilometri. La piccola compagnia trasportò in quattro mesi 1.205 passeggeri con due voli regolari al giorno, sei giorni alla settimana. Bisognava prenotare il biglietto, che costava 5 dollari, con largo anticipo e non ci furono mai incidenti di rilievo. Jannus lasciò la Florida in aprile, chiamato in Russia ad addestrare i piloti dello Zar. Scomparve nel 1916, a 27 anni, mentre volava sul Mar Nero.

      

Il grande museo dello spazio a Washington D.C. rende omaggio ai pionieri e agli assi della Prima guerra mondiale (dal Barone Rosso a Francesco Baracca). Proprio quel conflitto è stato il battesimo del fuoco (letteralmente parlando) per il nuovo mezzo di trasporto che realizza l’antico sogno leonardesco. Dopo la Seconda guerra nessuno nutre più dubbi su quale sarà il futuro della mobilità: aerei nel lungo raggio, automobili in quello breve. Per i transatlantici si prepara un rapido declino, il treno dovrà attendere le code in autostrada e i cieli troppo affollati. Il sorpasso del trasporto aereo su quello navale avviene nel 1957 e apre l’èra non solo del jet-set, ma del volo per tutti. E qui ritroviamo Trippe. E’ lui a introdurre per primo la classe turistica nella sua Pan Am e a capire che non basta far volare un velivolo a pieno carico, ci vuole altro: aeroporti accoglienti, alberghi, auto da affittare, ristoranti per mangiare, negozi dove acquistare. Così, fonda una catena di hotel, InterContinental, e nascono i primi pacchetti integrati. E’ chiaro, in ogni caso, che la base di tutto consiste nell’offrire mezzi sempre più veloci, sicuri e capienti. La linea aerea fornisce la domanda e l’incentivo, l’industria aeronautica l’offerta. E’ sempre Trippe a compiere il salto dall’elica al jet nei voli di linea, diventando il maggior acquirente dei nuovi 707 della Boeing e Dc 8 della Douglas. Nell’estate del 1965, durante un weekend a pesca sullo yacht di John Wayne, chiede al suo amico Bill Allen, big boss della Boeing, se è in grado di produrre l’aereo più grande e affidabile, un gigante da oltre 300 posti. “Se tu lo costruisci, io lo compero”, gli dice. “No, mio caro, se tu lo comperi io lo costruisco”, gli risponde Allen.

       

Il capo della Pan Am in origine pensava a un cargo, largo e ad ampio raggio, perché era convinto che il futuro per i passeggeri sarebbe stato il volo supersonico, sul Concorde o sul suo gemello sovietico, il Tupolev Tu-144. Sbagliava; sarà il nuovo Boeing 747 a spostare vere e proprie masse da un continente all’altro, favorendo come non mai quel processo che poi sarà chiamato globalizzazione. Ci mette lo zampino pure il governo americano. Anche la Douglas e la Lockheed, infatti, sono al lavoro per un colosso dei cieli. Ma il presidente Lyndon Johnson è convinto che non c’è spazio per tutti, quindi chiama Trippe e Allen alla Casa Bianca, tagliando il nodo a favore di Boeing e Pan Am (così vanno le cose negli Stati Uniti). La compagnia dominerà i voli a lungo raggio, pur senza trascurare le tratte interne dove la domanda è ricca, infatti prende il controllo dello shuttle tra New York, Washington e Boston, lasciando a terra Donald Trump. E Boeing diventerà il primo produttore al mondo.

        

Con la morte di Trippe nel 1981 si spegne la scintilla strategica dell’innovatore. La liberalizzazione mette fine al monopolio delle rotte transoceaniche. Nel 1985 arriva la prima secca perdita alla quale i vertici reagiscono facendo spallucce: “Sono 750 milioni di dollari, il costo di cinque jumbo”. Invece, comincia la vendita forsennata di tutti i gioielli: gli alberghi, il grattacielo di Manhattan e le rotte che passano via via alla Delta, la nuova arrivata, snella, efficiente che ha imposto come hub nordamericano l’improbabile Atlanta dove la Cnn miete i suoi primi successi. La recessione del 1990 è una nuova mazzata, la guerra del Golfo chiude i cieli mediorientali e spinge gli americani a viaggiare solo se indispensabile, il bilancio diventa un “buco nero” e dopo appena un anno non resta che dichiarare bancarotta. Samuel Skinner, ministro dei Trasporti nell’amministrazione di Bush padre commenta sconsolato: “E’ come se nell’industria dell’auto fosse fallita la Ford”.

     

Per quasi mezzo secolo, a Juan Trippe ha dato filo da torcere Howard Hughes, mitica figura di aviatore e magnate visionario ritratto con efficacia da Leonardo Di Caprio nel film di Martin Scorsese “The Aviator” (Alec Baldwin interpretava Trippe). Tra il 1938 e il 1939 aveva acquisito il controllo della Trans World Airlines e aveva chiesto alla Lockheed di costruire per lui un nuovo aereo, il Constellation, in grado di attraversare l’Atlantico senza scalo, attaccando così il monopolio della Pan Am. Nel 1946, a guerra finita, è ormai in grado di collegare non solo l’Europa, ma il Nordafrica e l’estremo oriente. In Italia si mette insieme all’Iri e fonda la Linee Aeree Italiane che nel 1957 si unirà all’Alitalia per creare una compagnia di bandiera piena di promesse: le Olimpiadi di Roma nel 1960 segnano l’inizio della sua età aurea e nel 1969 diventa la prima in Europa a volare solo con aerei a reazione. In Germania la Twa offre il proprio contributo alla creazione della Lufthansa e lo stesso fa in Arabia per la compagnia saudita. I suoi aerei diventeranno la scuola per i piloti di mezzo mondo. Ma anche lei, alla fine, subisce la sorte della Pan Am: nel 2001 chiude i battenti e viene ingoiata dall’American Airlines, la quale a sua volta nel 2006 è costretta a chiedere l’amministrazione controllata (il capitolo 11 della normativa americana sulla bancarotta). Seguono a ruota tutte le altre: Delta considerata un tempo imbattibile, United Airlines, Continental, Southwest. Cadute e risorte dopo tagli e ristrutturazioni finché la grande crisi del 2008-2010 non s’abbatte come una nuova catastrofe.

        

Ma perché rievocare personaggi leggendari e copioni d’altri tempi, quelli di un trasporto aereo che non potrà mai più essere replicato? Trippe e Hughes hanno ancor oggi parecchie cose da insegnare. Nemmeno un’industria sottoposta più di altre ai venti della storia (si pensi solo a quanto incide il terrorismo sui costi per la sicurezza) può andare avanti se non ha al comando un imprenditore audace e un manager dalla guida ferrea e dalla visione chiara (Alitalia docet).

        

I voli low cost: costi bassi e alti incassi, prezzi minimi, utili massimi e tasse stracciate. Anche questo a suo modo è un modello

Il trasporto aereo non è affatto un settore in declino, i piloti non sono come i minatori degli anni 60. “Nel secolo scorso ha rappresentato una delle principali forme dello sviluppo tecnologico e commerciale degli stati-nazione – ha scritto Paolo Bricco sul Sole 24 Ore – La sua funzione non è cambiata nel capitalismo internazionale contemporaneo, anche oggi costituisce una delle frontiere più avanzate”. Ecco perché, a suo parere, “avere Alitalia, piccola ma sopravvissuta all’interno di un’alleanza o in un’altra compagnia, è sempre meglio che non averla”. Secondo Ugo Arrigo, professore associato alla Bicocca di Milano, esistono in realtà due diverse compagnie: “Da un lato quella del lungo raggio intercontinentale sicuramente sostenibile pure nelle dimensioni attuali e dall’altro l’Alitalia del breve e medio raggio, italiano ed europeo, non sostenibile data l’attuale struttura dei costi. E’ proprio qui che s’annidano tra l’altro le maggiori perdite”. Per questa compagnia B, a suo parere, ci sono solo tre soluzioni: chiuderla, venderla o rivoluzionarla. Le prime due sembrano impraticabili. La terza consiste nel trasformarla in una low cost, non spinta come Ryanair, ma simile a Vueling (costola del gruppo British-Iberia). L’impatto sulla flotta e sul personale sarebbe pesante, anche se inferiore alla chiusura o alla vendita, tuttavia, una volta rimessa in sesto, potrebbe tornare a espandersi (Easyjet o Norwegian sono due esempi in questo senso).

      

Vedremo se i commissari inviati dal governo metteranno anche in campo un piano industriale. In ogni caso, val la pena tentare un gioco: cosa avrebbe suggerito Trippe? Il manager non andava tanto per il sottile, dunque, risparmi fino all’osso, premessa per sopravvivere. Poi ci vogliono investimenti, quindi soci in grado di impegnarsi per un certo numero di anni. Ma non basta. Una compagnia può stare in piedi solo all’interno di un complesso reticolo di aeroporti, autorità locali, strutture turistiche e altri vettori, in un mondo che, a dispetto di chi costruisce muri, vuole muoversi in modo sempre più rapido, facile e a buon mercato. Il trasporto come sistema e non solo quello aereo. Che cosa vuol dire? Sposare treni, aeroplani, pullman, automobili? Il salvataggio dell’Alitalia attraverso le Ferrovie? E la concorrenza? E i denari dei contribuenti? Chissà. Anche in economia a pensar male si fa peccato, ma a volte si azzecca.

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