Raitre vo cercando
Il sogno di Angelo Guglielmi ormai annega nei flop. La tv che era della sinistra post comunista si è incarnata in Repubblica. Con Caschetto al posto di Scalfari e Gad Lerner che parla con Marx
Storicamente, dobbiamo a Fabio Fazio l’aver traghettato RaiTre dalla sinistra post-comunista a quella di Repubblica con un format ben presto sconfinato in “spaccato antropologico” di una borghesia middlebrow, feltrinellizzata, pacata. La sinistra di “Che tempo che fa”. La sinistra che piace e si piace, a suo tempo immortalata da Berselli come un’efficace rappresentazione televisiva del veltronismo: una sinistra “aperta al nuovo, ai Pacs, opportunamente riflessiva sull’eutanasia, esplicitamente pacifista, terzomondista ma anche consumista, ecologista ma non indifferente alle comodità del Suv, proiettata nella modernità e anche oltre, ma affettivamente legata ai ricordi evocati da Enzo Biagi”. Una tradizione raccolta e rilanciata dall’elusività ipnotica delle “parole della settimana” di Gramellini, un racconto “discreto e garbato” da seguire tutti insieme col plaid sulle gambe aspettando “Ulisse” di Alberto Angela. Però di fronte all’incedere implacabile del tempo, davanti a una possibile estinzione del suo target di riferimento, dovremmo pur guardarci allo specchio, contemplare la catastrofe e domandarci con un sogghigno impercettibile: “quale futuro per la terza rete?”.
La RaiTre alla milanese di Daria Bignardi fu salutata come una “rivoluzione”, ma dal caso “Politics” al “Rischiatutto” di Fazio, passando per “Amore criminale” (tolto a Barbara De Rossi, messo in mano ad Asia Argento e sprofondato al 3 per cento di share) non decolla. Il problema è profondo. Se Alitalia è “lo specchio di un paese ripiegato su sé stesso” (copyright Aldo Cazzullo), RaiTre è l’emblema di almeno due crisi d’identità: quella del servizio pubblico nell’epoca dell’on-demand, quella della sinistra nell’èra di Matteo Renzi. Chi siamo? Che dobbiamo fare? Dove andiamo? La vicenda “Politics” è già archiviata come portentosa allegoria del potere paralizzante-divorante della palude romana che inghiotte i bravi giornalisti di Sky. Ma è anche l’immagine cristallina della crisi della rete, coinvolta in un’imbarazzante condanna del Tribunale del Lavoro per “condotta antisindacale” nell’assunzione di Semprini, anche a ricordarci che responsabilità della scelta, sindacalismo e tv di stato sono incompatibili, specie se non fanno gli ascolti sperati. Una RaiTre bullizzata, snobbata da Renzi, orfana della “vera sinistra”, di Berlusconi, dei girotondi, del primato di intelligenza sulla satira, orfana delle messe laiche di Santoro, delle vignette di Vauro, delle manifestazioni di piazza, tutte evaporate altrove, fossero anche le nebbiose piazzette delle province incazzate di “Quinta Colonna”. Resta solo la piazza del concertone del primo maggio, fino a che Sky non si prenderà anche quello per farne un’appendice antagonista di “X Factor”. Un concertone presentato da Fedez e J-Ax con le star di “Amici” e le bandiere di Emma Marrone al posto di quelle di Che Guevara.
“RaiTre si ispira a Pasolini”, ricordava spesso il padre fondatore Angelo Guglielmi, fissando così la sua idea di “specifico televisivo”: “la realtà va raccontata con la realtà e non con le parole”. Ma la realtà risponde alle regole del mercato oppure no? A RaiTre non si capisce. “Gli ascolti non sono tutto”, dice Daria Bignardi, “dobbiamo uscire dalla logica degli ascolti, la Rai non è nata per questo”. Gli share sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Perché tra il 4 per cento di “Stato civile”, programma sulle unioni civili e le coppie gay in salsa “docufilm” coi cameo di Cirinnà e il 3 per cento di “Politics” non c’è solo un punto di share, ma un mondo. Per il talk di Semprini valgono lo psicodramma degli ascolti, le spietate regole del mercato, il fiato sul collo della concorrenza. Ma giudicare con gli ascolti un format d’impegno come “Stato civile”, fortemente sostenuto dalla direttrice, significa svilirne l’impatto educativo, la missione pedagogica non più democristiana ma “liberal” e progressista. I talk che durano tre ore sono “un’anomalia italiana”, spiegava Bignardi lanciando la proposta innovativa di “Politics”, però “Cartabianca” della Berlinguer diventa “Cartabianca a colori”, si dilata a dismisura in prima serata e nonostante gli sforzi e una buona partenza, alla fine non intacca il primato del martedì di Floris, astutissimo nel rimpinzare il suo talk con appendici da “associazioni dei consumatori”, diete pericolose, frodi alimentari, truffe, costruendo un finale da “Mi manda DiMartedì” che scopiazza lo storico format di RaiTre (caposaldo del genere “servizio pubblico”, rilanciato in prima serata da Salvo Sottile).
“FuoriRoma” di Concita De Gregorio oscillava intorno al 3 per cento però dice Bignardi che “il suo successo non si misura con il bilancino degli ascolti… se gli ascolti saranno ancora buoni, felici tutti. Sennò felici lo stesso, conta la qualità”. Semprini no e Concita sì. Perché? Perché “FuoriRoma è un progetto identitario” e su “progetto identitario”, capite bene, crolla tutto, alziamo le mani. Dopo “Pane quotidiano” – presentazioni di libri per ricordarci che con la cultura si mangia – Concita De Gregorio ha tentato la strada del format che racconta la politica dal basso, tra la gente. “Con scarpe tacco basso, e a volte direttamente anfibi anche se sono fuori moda, taccuino e matite, vado a incontrare gente nelle periferie del paese che sono laboratori politici e che anticipano quello che vedremo a Roma”. Un dress code in sintonia con le regole della direttrice, allineato con l’estetica delle donne di RaiTre, Sciarelli, Annunziata, Berlinguer, Michela Murgia, Filippa Lagerback, Giovanna Botteri in notturna che ci “annuncia una disgrazia da New York”, come ricorda Aldo Grasso, disgrazia intuibile già dalla capigliatura di chi si è dovuto precipitare in studio. Volti della tv-verità per cui vale il comandamento supremo, “la cultura non esiste senza dolenza” (stacca tutti solo l’icona camp, Franca Leosini).
Nonostante il tacco basso, “FuoriRoma” non ha catturato il suo target, ammesso sapesse qual era. Ho visto la puntata su Bari e il suo sindaco, Antonio De Caro del Pd. Sembrava “Linea blu” in versione “Einaudi Stile Libero”, con la voce di Concita molto ispirata, molto letteraria, un filo di “s” dolce alla romana che plana sulle panoramiche dei droni: “Una meraviglia di luce bianca e di vento, Bari, vento di levante, città di commerci” e poi “l’arrivo della nave Flora con le sue ventimila vite, nel ‘91, lo stesso anno del rogo del Petruzzelli”. Concita cammina nei mercati, Concita al porto tra polipi e cozze pelose, Concita alle prove di Giò Sada e alle presentazioni di Franco Cassano, “il più importante sociologo del nostro tempo”, il racconto vibrante della “primavera pugliese”, la “Milano del sud” e via così. Praticamente, trentasei pagine di “Robinson”. Perché RaiTre somiglia sempre di più alla televisione di Repubblica, con Beppe Caschetto al posto di Eugenio Scalfari e non a caso in molti indicano in Concita il nuovo direttore dopo Bignardi.
Qualcuno allora corre ai ripari. Va bene diventare la tv di “Repubblica” ma non dimentichiamo chi siamo, perché siamo nati. Ci pensa Gad Lerner. Dopo “Islam, Italia” arriva “Operai”. Tempismo perfetto per il dopo-referendum, peccato per il risultato delle primarie. Il promo circolato in questi giorni è da antologia. In piedi, nel cimitero di Highgate, lo sguardo fisso sulla tomba di Marx, Gad Lerner si interroga sul futuro della classe operaia. “Ma non lo vedi Carlo Marx che tra la classe e la nazione vince sempre la nazione?” Marx lo fissa imperturbabile. “Abolizione del lavoro salariato, dici tu, eccola qui… robot che lavorano gratis al posto degli operai”. La musica incalza. Marx non risponde. Gad lancia il promo: “Operai”, prossimamente su RaiTre. E’ passato anche dal concertone di San Giovanni. Mentre Francesco Gabbani usciva dal protocollo sindacale (“ragazzi va bene il diritto al lavoro, ma noi dobbiamo metterci una cosa: la voglia”) Gad Lerner ritirava fuori la parola “padroni”. E’ salito sul palco per spiegare ai ragazzi che i padroni li sfruttano, che loro non lo sanno ma sono tutti dei proletari e se vogliano saperne di più si vedano “Operai” e si leggano l’omonimo libro-inchiesta del 1987, ora anche in e-book. In alternativa, Gad ha un’idea per rilanciare la logora formula dei talk: “Mettere a confronto due saggi che si rispettano reciprocamente a interrogarsi sulle grandi domande della vita, secondo il modello della disputa medievale, per oltrepassare la sordità reciproca”.
Se Renzi snobba RaiTre, RaiTre torna nelle fabbriche, al limite rispolvera le dispute medievali, tutto pur di riprendersi il pubblico della “vera sinistra”. Se non riusciamo con gli operai e i metalmeccanici, proviamo almeno coi giovani, la vera bestia nera della televisione di stato. “C’è un nuovo modo di fruire la televisione”, dice Bignardi, “parlo di smartphone e tablet, se non cambiamo rischiamo di perdere sempre più spettatori. Il nostro target medio attuale ha un profilo medio di circa 60 anni. Se non includiamo un pubblico più giovane, non so che fine faremo”. Per i giovani c’è “Gazebo”, cinquantenni in t-shirt, giubbotto di pelle e jeans, avventori da enoteca del Pigneto, orfani del dandinismo, impauritissimi da Trump ma ignari del Venezuela. I servizi col telefonino e i tweet letti alla lavagna da Zoro (tra le cose più anti-televisive viste negli ultimi anni) da noi non si sa perché diventano una “commistione tra la tv e i nuovi linguaggi”. Vabbè. La verità è che RaiTre continua a stare in piedi solo con i suoi format storici, dall’immarcescibile “Chi l’ha visto” a “Un posto al sole” e “Mi manda RaiTre”, formule efficaci, a loro modo in linea con la “diversità” del servizio pubblico, anche se il programma della Sciarelli sconfina in quella terra di nessuno dove il crime e l’investigazione, la tv-verità e quella del dolore, il trash, il kitsch e l’ultra-kitsch si fondono in un’unica ipnosi collettiva cui è difficile sottrarsi. Ma da almeno dieci anni, non ci sono nuovi programmi che decollano e quando ci si prova si naufraga miseramente (vedi il reality degli scrittori, “Masterpiece”, vedi “Politics”). Sicché ci si ritrova a chiedere aiuto a Corrado Augias, l’innovazione è temporaneamente rimandata, ma almeno la mente torna ai beati giorni di “Telefono giallo”, il pubblico apprezza, vogliamo tutti invecchiare con Augias e come Augias.
“Oggi dentro questa Rai non è possibile fare assolutamente nulla”. Non è un’intercettazione di Campo Dall’Orto, un’esternazione di Michele Anzaldi, uno sfogo di Fazio sul tetto stipendi, ma l’ammissione sconsolata del padre della “terza rete”, guru della sperimentazione televisiva, Angelo Guglielmi nel 1993, all’apice del suo lavoro di rilancio del canale assegnato al Pci. Chiambretti recapitava lettere a Cossiga, Santoro raccontava la pancia del paese, “Un giorno in pretura” faceva record di ascolti e Guglielmi accarezzava un sogno: portare tutta RaiTre a Milano. Trasferire la sua creatura televisiva “lontano dal “romano-centrismo e dal potere politico”, verso la città “della rinascita culturale, delle case editrici, della svolta morale”. A Milano! A Milano! Per “creare quelle occasioni di sperimentazione, novità e arricchimento che non sono più romanesche o sudiste”, per “disintegrare questo grande colosso che è la Rai”, per “seguire lo spostamento della centralità del paese verso zone diverse”. I sogni non sempre si avverano ma qualche volta si capovolgono, che è anche peggio. RaiTre non è più andata a Milano, così Milano è venuta a RaiTre. Con la nomina di Daria Bignardi l’utopia di Guglielmi poteva rivivere se non altro al rovescio. Tv-verità, sperimentazione, innovazione, ma molta più Milano. La direttrice era stata esplicita: “Trucco leggero, tacchi bassi, colori tenui, scollature sobrie”. Gettò nel panico costumiste e truccatrici di via Teulada. Panico da “Vanni”, panico da “Settembrini”. Addio botox, addio animalier. Col dress-code alla milanese o alla Bignardi (“non sono snob, è solo che vesto Prada”), l’innovazione sarebbe venuta da sé. Forse arriverà, forse no. Ma fino alla fine dei suoi giorni, “RaiTre sarà la rete della realtà”, come ricordava Bignardi presentando lo scorso anno i nuovi palinsesti che “rivoluzionavano la rete”. “Come tutte le reti Rai, forse di più, sarà profondamente di servizio pubblico, quindi dell’inclusione e della sperimentazione”. Solo che nel frattempo nessuno sa più che cosa dovrebbe essere il servizio pubblico, figuriamoci essere “profondamente servizio pubblico”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano