Avanti c'è posto

Roberto Volpi

Saremo undici miliardi alla fine del secolo, e non sarà per forza un mondo peggiore. Sconfitti i catastrofismi eco-demografici

Eravamo 2,5 miliardi negli anni 1950-55, siamo 7,3 miliardi oggi, saremo 9,7 miliardi nel 2045-2050. Continueremo a crescere fino a superare gli 11 miliardi prima del 2100. In due secoli, tra la fine del XIX, quando abbiamo superato il primo miliardo di abitanti, e la fine dell’attuale XXI secolo, quando supereremo gli 11 miliardi, la Terra avrà acquistato oltre 10 miliardi di abitanti in più, diventando ancor più un pianeta ad altissima densità di popolazione umana.

 

La definitiva conquista della Terra da parte diell’homo sapiens moderno è in atto da poco più di un secolo, con una prepotente accelerazione negli ultimi 60 anni, e continuerà ancora per poco meno di un secolo. Reggerà la Terra, e reggeremo noi con essa, alla spinta demografica propulsiva più travolgente nella storia dell’umanità, che non lascerà un solo metro quadrato che non sia stato conquistato, colonizzato, abitato, lavorato?

 

Negli anni Sessanta si fece strada un pensiero demografico catastrofista, che trovò la sua espressione più compiuta e condivisa, anche a livello scientifico, nel saggio del 1968 The Population Bomb, dell’entomologo e ambientalista statunitense Paul R. Ehrlich. Nel saggio si ipotizzava che, a seguito dell’eccessivo incremento della popolazione mondiale, già negli anni Settanta ci sarebbe stata una grave crisi delle risorse, specialmente alimentari, con carestie devastanti e decine di milioni di morti in più. “La battaglia per nutrire l’umanità è persa”, scrisse espressamente l’autore. Forse mai una previsione scientifica, o supposta tale, si è rivelata più sbagliata. Paul Ehrlich, che faceva sentire chiara e forte la sua voce quando la Terra ospitava tre miliardi di individui, non avrebbe mai pensato che il nostro pianeta potesse arrivare a ospitarne e nutrirne cinque, di miliardi, senza aver raschiato fino in fondo il barile delle risorse e provocato disastri eco-ambientali irreversibili.

 

Paul Ehrlich pensava che il pianeta non potesse arrivare a ospitare cinque miliardi di individui senza causare disastri ambientali

Sbagliavano tutti, del resto. Sbagliavano al Club di Roma di Aurelio Peccei, sbagliavano i coniugi Meadows coi loro Limiti dello sviluppo, sbagliavano perfino al Mit, al di là dell’oceano, sbagliavano ambientalisti ed ecologisti e tutti quelli che si richiamavano più o meno direttamente al pensiero dell’abate Malthus. A guardare retrospettivamente al decennio tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta è possibile cogliere una sconfitta culturale campale del pensiero demografico ed ecologico-ambientalista catastrofista. Eppure quel pensiero è più che mai vivo. Si è aggiornato, oggi punta sui problemi legati al peggioramento più che non all’esaurimento delle risorse, all’inquinamento e al cambiamento climatico più che non alle carestie e alle malattie della popolazione terrestre. Ha rivisto i suoi paradigmi e le sue previsioni, ma è riuscito in ciò in cui non riuscì quarant’anni fa: nel diventare opinione comune, sensibilità di massa. In una cosa non sono cambiati, i nuovi e più avvertiti fautori di quel pensiero, rispetto ai loro predecessori: nel timore panico per la sovrappopolazione, per una dinamica demografica globale che aggiunge, si può ben dire, miliardo di abitanti a miliardo di abitanti a ritmi che quando Paul Ehrlich, Aurelio Peccei e i coniugi Meadows teorizzavano un bel po’ alla carlona non erano neppure sospettabili.

 

Il mondo è diventato denso. La società sarà pure liquida, ma il mondo è sicuramente denso. Lo sarà ancora di più di qui alla fine del secolo quando, superati gli 11 miliardi, dovrebbe cominciare la svolta: il contenimento prima, un certo ridimensionamento dopo. Il numero medio di figli per donna nel mondo è ancora oggi attorno a 2,5, tale da comportare l’aumento di un miliardo di abitanti in circa 15 anni. Scenderà a 2,2 verso la metà del secolo, e allora per aggiungere un altro miliardo di abitanti di anni ce ne vorranno più di 30. Dovrebbe scendere sia pure leggermente sotto la soglia di sostituzione dei 2 figli per donna soltanto verso la fine del secolo, quando la Terra avrà raggiunto il massimo livello di densità umana – e allora sarà la volta di una lenta retromarcia. Ma previsioni a così lunga scadenza sono per loro natura soggette ad ampi margini di errore, le variabili in gioco sono molte, troppe cose potrebbero non andare come previsto. Cosa succederebbe se la densità non dovesse trovare un freno nella contrazione della fecondità attorno ai due figli per donna? Ecco, questa può sembrare la domanda più pertinente possibile, ma posta in questi termini non lo è. Troppo generica. Il fatto è che il mondo è diviso oggi come non mai non tanto in termini di popolazione quanto, più ancora, di prolificità. Ci sono aree del mondo, come l’Europa, in cui il tasso di fecondità è ben sotto la soglia di sostituzione dei due figli da decenni e che stentano a restare sullo stesso numero di abitanti già raggiunti oltre mezzo secolo fa nonostante i massicci flussi migratori in entrata e il contributo che apportano ai livelli delle nascite, altrimenti in ancora più disastrosa discesa. Negli anni Cinquanta del secolo scorso l’Europa rappresentava il 20 per cento della popolazione mondiale, oggi rappresenta il 6 per cento, alla metà del secolo scenderà a rappresentare poco più del 4 per cento. Tra i paesi che già sono in una fase di regressione demografica destinata ad aggravarsi entro la metà del secolo ce ne sono quattro di prima grandezza: il Giappone (-16,1 per cento nel 2050), la Russia (-10,4 per cento), la Germania (-7,7 per cento) e la nostra Italia (-5,5 Per cento).

 

Le risposte di scienza, tecnica e globalizzazione ci hanno consentito di reggere l'esplosione della densità più forte di sempre

E mentre la marginalità demografica dell’Europa è cosa certa, ancora più certo è il fatto che il continente ch’era letteralmente vuoto alla fine dell’Ottocento, l’Africa, diventerà talmente denso alla fine del secolo da insidiare addirittura l’Asia dei giganti demografici per antonomasia: quasi quattro miliardi e mezzo di abitanti rispetto agli 1,2 di oggi e ai 200 milioni della metà degli anni cinquanta. Già nel 2050 la Nigeria, con 400 milioni di abitanti, sarà il terzo paese del mondo dietro l’India (1,7 miliardi) e la Cina (1,3 miliardi). Alla fine del secolo Nigeria e Congo, da soli, avranno due volte e mezzo gli abitanti dell’Europa. Chiaro che pensare di fare, tra questi estremi, un unico discorso demografico è pura illusione – o demagogia, a scelta. Non abbiamo fatto che inondare – organizzazioni internazionali, paesi, fondazioni private, singoli magnati, ong delle più diverse carature del mondo occidentale – l’Africa di preservativi, e questo è il risultato. I dieci paesi più fecondi del mondo sono tutti africani, con un tasso di fecondità che oscilla dal minino di 5,8 figli per donna del Gambia al massimo dei 7,6 figli per donna della Nigeria. Continueranno a essere tutti africani per l’intero secolo, alla fine del quale il numero medio di figli per donna nell’insieme di questi paesi si sarà ridotto a 4, pur sempre il doppio della soglia di sostituzione. O l’Africa conoscerà la democrazia e lo sviluppo economico o non se ne esce, dal disastro sociale, culturale e umanitario di questo continente, un disastro che fa schizzare alle stelle i tassi di fecondità e minaccia il mondo. Il preservativo non è neppure un placebo, in questa fattispecie è stato ed è poco meno di un inganno.

 

Il mondo denso non è e non sarà tutto ugualmente denso, dunque. Ma affinché non diventi insopportabilmente denso occorre saper guardare alle abissali diversità nella fecondità delle popolazioni umane tra estremi che toccano la sterilità e il rifiuto dei figli da un lato e la prolificità naturale o quasi dall’altro. Continuare ad agitarsi contro un indistinto eccesso di fecondità è insensato. Quando si dice che occorre fermare le nascite, invertire l’andamento della popolazione mondiale non si dice niente che non sia aria fritta.

 

La densità della Terra è andata aumentando di pari passo con un inurbamento sempre più accentuato dalle campagne e dalle aree rurali versole città. Quella mondiale è e sarà sempre di più una popolazione urbana. Il mondo denso è un mondo urbano, sempre più inesorabilmente urbano. Nel 2016 il 55 per cento degli abitanti del pianeta vive nelle città, già nel 2030 questa proporzione avrà superato il 60 per cento e una persona su tre vivrà in città di oltre mezzo milione di abitanti.

 

Ma il vero tratto distintivo sta, più ancora che nelle città, nella proliferazione delle grandi città, delle immense città. Più di 70 aree metropolitane nel mondo hanno già oggi superato i 5 milioni di abitanti e saranno oltre 100 nel 2030, tra queste spiccano 31 megacities di oltre 10 milioni di abitanti, delle quali solo 7 in occidente: 2 in Giappone (Tokio e Osaka), 2 negli Stati Uniti (New York e Los Angeles), 3 in Europa (Londra, Parigi e Mosca). Ad oggi ci sono 8 aree metropolitane con oltre 20 milioni di abitanti – Tokio, Delhi, Shanghai, Bombay, San Paolo, Pechino, Città del Messico, Osaka – alle quali se ne aggiungeranno altre 4 entro il 2030, tutte in paesi sottosviluppati: Dhaka, capitale del Bangladesh, Karachi, capitale del Pakistan, Il Cairo capitale dell’Egitto e Lagos, capitale della Nigeria. Anche Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo, sfiorerà quel traguardo, così come Istanbul, in Turchia. Nessuna area metropolitana occidentale – se si escludono le due giapponesi, peraltro le sole di questo “club” a perdere abitanti – rientrerà nel novero delle megacities con oltre 20 milioni di abitanti. La grande densità urbana e ancor più quella degli immensi agglomerati urbani si sta sempre più spostando dall’occidente al Terzo e Quarto mondo, dai più ricchi ai paesi con il più basso reddito pro capite. Superfetazioni urbane con strumenti urbanistici gravemente inadeguati, trasporti caotici, abitazioni fatiscenti, fenomeni diffusi di violenza ed esclusione sociale, tassi di inquinamento altissimi: le periferie del mondo troveranno paradossamene nelle megacities la loro espressione più alta e drammatica.

 

 Un pensiero che oggi punta sui problemi legati al peggioramento più che all'esaurimento delle risorse, al clima più che alle carestie

Teoricamente – e pure a quel che è dato vedere – in un mondo denso dissidi e conflitti tra gli uomini sono destinati ad aumentare. L’uomo sente il peso della densità, dell’affollamento, dei flussi migratori, della concorrenza, della rivalità. E con lui, naturalmente, sentono questo peso le forze politiche, i governi, gli stati. Nemmeno questi ultimi – i governi, gli stati – sanno bene come difendersi, se aprirsi o chiudersi agli altri – e quanto e come, con quali strumenti, con quali azioni e programmi – quando gli altri sono così tanti e così incombenti. Si finisce per non sentirsi protetti neppure nelle proprie comunità, nelle proprie case. Il grado di incertezza delle nostre vite sembra crescere nonostante che tanti indicatori economico-sociali indichino piuttosto il contrario: che viviamo meglio, e non peggio, che la densità non ci ha danneggiati ma, semmai, favoriti. D’altro canto, la complicatezza delle organizzazioni statuali, dei processi amministrativi e legislativi, delle relazioni economiche, dei rapporti sociali e umani è cresciuta più che proporzionalmente dell’affollamento del globo e ciò ci fa sentire ancor più inadeguati rispetto a problemi che sappiamo tanto più grandi di noi. L’insegnamento evangelico appariva più semplice da seguire in un mondo di scarso popolamento, oggi fatica a trovare la strada.

 

Ma in un mondo denso è sempre più difficile, se non proprio impossibile, non provare almeno a cercarla, una propria strada. Perché non provarci è mettersi ai margini, mentre oggi le possibilità di provarci sono le più alte di sempre. Questa sorta di urgenza, questa necessità di trovare una propria strada, comporta una differenza fondamentale col passato anche recente, ha segnato e segna la condotta di individui, comunità, stati. Ed è pur sempre vero, inoltre, che le risposte dell’inventività umana, della scienza e della tecnica, della globalizzazione nei suoi aspetti migliori ci hanno consentito di reggere l’esplosione della densità più forte di sempre, capace di aggiungere in sessant’anni cinque miliardi di individui, triplicando in questo brevissimo lasso di tempo gli uomini che abitano il pianeta e migliorando, nello stesso tempo, la vita delle persone anche nei paesi più arretrati. Oggi siamo 7,3 miliardi e, mediamente parlando, l’uomo ha superato il traguardo dei 70 anni di speranza di vita alla nascita: 15 anni di vita in più rispetto a quando Paul R. Ehrlich scriveva il suo de profundis della Terra densa. La proporzione degli abitanti della Terra che soffrono la fame o sono sottoalimentati è la più contenuta di sempre mentre se ne prevede una ulteriore, significativa contrazione già nei prossimi anni. Gli studi più recenti della Population Division dell’Onu vanno a delineare, combinati assieme, un quadro caratterizzato, come non ci si aspetterebbe, da motivi di ottimismo e di speranza. Primi tra tutti quelli che riguardano la caduta, già largamente in atto, delle malattie e della mortalità infantile nei paesi a più basso reddito e grado di sviluppo.

 

Il mondo denso è indiscutibilmente un mondo più fragile e problematico, ma non necessariamente un mondo peggiore – come molti dei risultati acquisiti proprio in tempi di densità crescente stanno a dimostrare. Mai c’è toccata una responsabilità più grande di quella di riuscire a rendere un mondo denso anche un mondo sostenibile. E’ questa la grande scommessa del futuro dell’uomo, il destino di sapiens è imprescindibilmente legato al suo esito.

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