Kevin Spacey in "Margin call" di J. C. Chandor (2011)

Banche da ballo

Stefano Cingolani

Fra trame, sospetti e rumori fuori scena, il mondo del credito cerca di trovare nuove strade. Nel 2016 altri crediti avariati: 32 miliardi

È finita? No, non è finita. Non lo è per la magistratura, né per la politica, tanto meno per i mercati o per le famiglie e le imprese che hanno bisogno di uscire dalla Lunga Recessione. La crisi bancaria italiana sembra proprio una storia senza fine. Il ragazzone si slaccia il bottone dorato del blazer blu e alza le spalle con aria desolata. Lavora in una società specializzata in titoli marci, crediti non esigibili, derivati ad alto rischio. È un mestiere oggi fiorente più che mai dal quale si possono trarre ottimi profitti. E lui ha pescato anche in Italia, ma vuol capire se ne vale ancora la pena. Il dialogo si svolge a Lund, cittadina universitaria nel sud ovest della Svezia considerata, con un filo di esagerazione, la Cambridge scandinava, anch’essa sede di rinomati studi teologici nel Medioevo e oggi centro di sofisticati esperimenti scientifici (la Oxford sarebbe Uppsala, più antica di Lund, centro di formazione della classe dirigente politica). Il giovane è ospite in una casa elegante del centro, dove si ritrova uno spaccato di vecchia aristocrazia terriera, monarchica, ricca e rispettata in un paese considerato l’ultima oasi della socialdemocrazia, insieme alla solida borghesia mercantile e industriale, erede di quella anseatica, quella dei Buddenbrook, i cui figli si sono buttati a pesce nelle nuove tecnologie, nei social media e nella finanza, che è il sangue senza il quale l’intero corpo sociale rinsecchisce come una mummia. Visto l’invitato italiano, la chiacchiera davanti a un bicchiere di riesling alsaziano cade sul paese dove fioriscono i limoni e appassiscono le speranze. L’orgoglio nazionale spinge a imbellettare la sostanza, ma l’amicizia e l’onestà intellettuale non consentono di nasconderla.

 

"Gli sforzi di coinvolgere investitori privati
nella gestione dei crediti deteriorati non sono
mai decollati", scrive
il Financial Times

No, non è affatto finita. “Gli sforzi di coinvolgere investitori privati nella gestione dei crediti deteriorati non sono mai decollati”, scrive il Financial Times, a differenza da quel che accade in Irlanda o in Spagna, dove Blackstone ha cominciato a vendere pacchetti di mutui cartolarizzati acquistati nel 2014 dalla Catalunya Caixa. Lo stock di non performing loans si è ridotto, ma al suo interno sono cresciute le sofferenze. L’agenzia di rating canadese specializzata in questo settore, Dbrs, tiene sotto osservazione le 15 principali banche italiane. Ebbene, segnala che lo scorso anno si sono deteriorati prestiti per 32 miliardi di euro. Quel che preoccupa, secondo Nicola de Caro vicedirettore dell’agenzia, è la qualità dei portafogli delle banche. Il Monte dei Paschi di Siena con i suoi 43 miliardi lordi (28,8 dei quali da vendere prima possibile) ha fatto da tappo e blocca l’intero mercato. La Bce ha chiesto di fare presto, ma non è facile. Si pensa di cederli in blocco con uno sconto del 25 per cento. Le perdite in bilancio non saranno coperte con denaro pubblico. È un boccone pesante da ingoiare anche per gli specialisti anglo-americani e le trattative con l’Unione europea sono in fase di stallo. Tutti, così, sono appesi alle sorti della terza banca italiana.

 

Se il mercato ci tiene per le briglie, che dire della magistratura? La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per Alessandro Profumo, Fabrizio Viola, Paolo Salvadori, nell’ordine ex presidente, ex amministratore delegato ed ex capo del collegio sindacale al Montepaschi. Sono accusati difalso in bilancio e aggiotaggio. Oggi Profumo guida Leonardo, cioè la Finmeccanica, e Viola la Banca Popolare di Vicenza. Nel settembre scorso, i pm di Milano avevano chiesto l’archiviazione nell’ambito dell’inchiesta per la presunta rappresentazione non corretta dei derivati Alexandria e Santorini nei bilanci dal 2011 al 2014. Ma i piccoli azionisti e il Codacons, l’associazione dei consumatori, si sono opposti. Non sono i soli a volersi rivalere. Anche il gup del Tribunale di Lagonegro, in provincia di Potenza, ha rinviato a giudizio Profumo e Viola. La decisione risale al primo marzo e il processo si aprirà martedì prossimo. La trafila giudiziaria è cominciata tre anni fa con la denuncia fatta da un concessionario d’auto di Sala Consilina in Campania, secondo il quale aveva pagato tassi da usura sui prestiti richiesti. Profumo è in ballo solo in quanto rappresentante legale di Mps. Il circo mediatico-giudiziario, dunque, ha riacceso il ventilatore attorno ai misteri di Siena. Ma come, Profumo e Viola non hanno riportato in attivo il Montepaschi? Sì, i conti della gestione ordinaria sono tornati in ordine, non il capitale. Dopo una serie di aumenti rivelatisi insufficienti, è dovuto intervenire lo stato con quasi 6,6 miliardi di euro tutti a debito (il fabbisogno secondo la Bce ammonta a 8,8 miliardi). Oggi il Tesoro è azionista dominante, anzi pressoché unico, con una operazione che dovrebbe essere temporanea, anche se nessuno riesce a calcolare il tempo e non per colpa di Einstein e della relatività.

 

Tutti appesi alle sorti
del Montepaschi.
I maldestri tentativi
di salvare l'Etruria. Popolare Vicenza
e l'angelo custode Unicredit

Non è finita nemmeno per la politica. Qui la pietra dello scandalo è la Banca Popolare dell’Etruria, fondata nel 1882 per finanziare gli orafi di Arezzo, ben gestita dalla massoneria locale, stando alle dichiarazioni rilasciate al Giornale da Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente, finché le ispezioni della Banca d’Italia non hanno tirato fuori la polvere nascosta sotto il tappeto. Il 22 novembre 2015 è stata posta in liquidazione coatta e il 10 di questo mese è stata comprata per un euro dalla Ubi. Ma prima che il governo la sciogliesse, è partita una sequenza di maldestri tentativi per salvare il salvabile con soluzioni interne al sistema, come è sempre stato nel mondo delle banche italiane i cui fallimenti, non a caso, si contano sulle dita di una mano. A quanto pare c’è stato un giro delle quattro chiese, cominciato con la Banca Popolare di Vicenza che però doveva essere salvata a sua volta. L’angelo custode era niente meno che Unicredit, la quale, nel 2015, usando il suo ramo tedesco, aveva firmato una lettera d’intenti a certe condizioni, la principale delle quali era, testualmente, “l’ingresso in Borsa e/o l’aumento di capitale”. Ma la quotazione non è riuscita e Federico Ghizzoni, l’amministratore delegato di Unicredit, alla ricerca spasmodica di capitali per la propria banca, non se l’è sentita di buttare un miliardo e mezzo per coprire i buchi lasciati dalla gestione ballerina di Zonin. Un voltafaccia secondo i vicentini che si sono ritrovati con le brache in mano. A quel punto è sceso in campo il fondo Atlante per cavare le castagne dal fuoco anche a rischio di scottarsi le dita.

 

Il pasticciaccio lombardo-veneto non è piaciuto agli azionisti (tra i quali Leonardo Del Vecchio) ed è costato il posto allo stesso Ghizzoni già da tempo sotto tiro. I fondi internazionali, ormai padroni della prima banca italiana, volevano un doge straniero, nella persona dell’ex paracadutista Jean-Pierre Mustier il quale, in men che non si dica, ha raccolto 13 miliardi di euro. Il mercato ha concesso al “prefetto di Francia” quel che aveva negato al manager italiano del quale non si fidava più. Proprio mentre Ghizzoni tratteneva il fiato, tra color che son sospesi nelle sue colline piacentine, avrebbe ricevuto la gentile richiesta di comprare la Popolare dell’Etruria da parte dell’allora ministro Maria Elena Boschi (secondo quel che ha scritto Ferruccio de Bortoli), angosciata per la sorte del papà Pier Luigi, vicepresidente della banca. L’amministratore delegato ha passato la pratica ai suoi uffici, poi si è lamentato con la Banca d’Italia. Intanto, si tirava indietro anche la Banca Popolare dell’Emilia Romagna, un rifiuto che qualcuno attribuisce a oscuri disegni prodiani perché chi ha detto no, come l’economista Angelo Tantazzi, fondatore di Prometeia, è da sempre vicino al Professore. Trame, sospetti, rumori fuori scena, un copione degno del miglior vaudeville al quale sarebbero attaccate le sorti di Matteo Renzi, non solo della Boschi, e addirittura del governo.

 

Un tempo il banchiere voleva conoscere
lo stato di salute dell'impresa, vedere
i libri contabili.
Oggi vuole sentir parlare di futuro

Famiglie e imprese assistono a questa dissacrante rappresentazione senza divertirsi nemmeno un po’. Hanno visto franare il terreno sotto i piedi e non capiscono più come comportarsi. Un tempo il circuito del credito cominciava con la richiesta di un finanziamento a fronte di una garanzia reale (immobili visto che lì si concentra il risparmio degli italiani). Poi il mercato è stato colpito dalla crisi e le banche si sono trovate con collaterali svalutati e non liquidabili. Per coprire le perdite, hanno cominciato a tagliare i costi e ridurre i prestiti mettendo i clienti con le spalle al muro. Come difendersi? Anzi, come orientarsi? Con un cambio di prospettiva per seguire il mutamento rapido e radicale del mercato, anzi “la rivoluzione che sta attraversano il sistema bancario”, spiega Valerio Malvezzi, esperto di finanza aziendale con un passaggio in arlamento (deputato della Lega nella XII legislatura) e nel settore pubblico in Sviluppo Italia. La sua creatura si chiama WintheBank, organizza corsi e pubblica un manuale pieno di consigli e indicazioni pratiche. Un tempo il banchiere voleva conoscere lo stato di salute dell’impresa, vedere i libri contabili, conoscere la sua storia; oggi vuole sentire parlare del futuro. Quel che conta non è il patrimonio offerto in garanzia, ma sapere cosa hai in cassa e dove andrà domani la tua liquidità. Se sei una pizzeria o una manifattura industriale non importa, bisogna ragionare come fanno le multinazionali, presentare un business plan e convincere che verrà realizzato. Per questo occorre innanzitutto che chi fa impresa acquisisca una cultura finanziaria senza la quale non va da nessuna parte. La banca è un fornitore, la sua materia prima è il denaro al quale si accede non con il cappello in mano, ma con un piano ben fatto e un futuro ben raccontato.

 

Mettersi dalla parte di chi usa la banca consente di guardare al sistema creditizio con lenti diverse. Ma attenzione, non si tratta di ripetere la tradizionale lamentela dei questuanti che si sentono imbrogliati. Piuttosto, è necessario assumere un consapevole atteggiamento mercantile. Il cliente ha un bene da offrire non un favore da chiedere. E il banchiere non sta lì a concedere una regalia né a combinare un raggiro, anche lui ha bisogno di collocare il suo prodotto (il prestito, il mutuo, l’obbligazione, l’azione) perché se non lo fa può chiudere baracca e burattini. È quel che sta accadendo, del resto, alle banche che non sono in grado di tenere il passo. Sono passate da oltre mille a 650 negli ultimi vent’anni e sono ancora troppe. L’Italia si colloca al terzo posto in Europa: prima la Germania con oltre 1.775, poi l’Austria con 682, la Francia è scesa a 471. Se prendiamo il rapporto con gli abitanti, il rapporto si fa più equilibrato: l’Italia è grosso modo uno a dieci, la Francia uno a sette, la Germania uno a 21, l’Austria addirittura uno a 79. I paesi della Ue con i settori bancari più importanti in termini assoluti sono la Francia e la Germania (con oltre settemila miliardi di euro ciascuno in asset totali); l’Italia, con circa 2.700 miliardi, è al quarto posto, superata anche dalla Spagna. Ma il paese con il sistema bancario più efficiente è senza dubbio il Regno Unito: ha appena 201 banche e asset che sfiorano gli ottomila miliardi (in euro non in sterline).

 

Le isole britanniche indicano anche il futuro per l’intero continente? Non in modo deterministico, ma la direzione è quella. È la strada che la Bce raccomanda ai paesi della zona euro e in particolare all’Italia. La trasformazione delle banche popolari in società per azioni e l’accorpamento delle 371 Banche di credito cooperativo (sei milioni di clienti, un milione e 230 mila soci e 37 mila dipendenti) mostrano che il processo è avviato anche con scelte politiche. La crisi ha fatto il resto, provocando il crollo del vecchio modello relazionale, se non puramente clientelare, sul quale si sono basate le banche, a cominciare da quelle locali o quelle pubbliche. È il modello Siena, il modello Vicenza o il modello Arezzo, tanto per citare chi fa notizia, ma viene replicato ovunque, dal Piemonte alla Sicilia. I primi a chiudere sono gli sportelli. L’Italia ne ha 50 ogni 100 mila abitanti e si colloca nella fascia alta, dopo la Spagna, il Portogallo, la Francia. Invece, la Germania nonostante la pletorica platea di casse locali che ha cercato di proteggere lasciandole fuori dalla unione bancaria europea, ha meno sportelli. Ciò vuol dire che è più avanti nell’utilizzo delle nuove tecnologie. Tutti questi dati confermano che nulla sarà come prima. Resteranno meno banche, più automatizzate, con un modello di business diverso.

 

Le banche che non sono in grado di tenere
il passo sono diminuite negli ultimi vent'anni
da oltre mille a 650,
e sono ancora troppe

La concentrazione a passo forzato lascia aperti nuovi spazi. Intanto già da tempo si sono diffuse quelle che vengono chiamate banche non banche (dai produttori di automobili ai grandi magazzini per non parlare delle poste, tutti ormai si fanno la loro), poi ci sono i sistemi di pagamento via internet, c’è PayPal e tutti altri concorrenti. Ma non solo. Stanno nascendo piccole aziende specializzate che occupano nicchie professionali interessanti là dove esiste un continuo flusso di cassa (i tabaccai o i farmacisti tanto per fare degli esempi), ma il futuro si chiama Fintech o tecno-finanza, in altri termini si tratta di fornire i più disparati servizi (pagamenti, prestiti, investimenti) attraverso l’uso delle tecnologie informatiche. Emerso una decina di anni fa, questo settore non è stata colpito dalla crisi, al contrario. Oggi ci sono almeno quattromila imprese con un giro d’affari pari a una ventina di miliardi di dollari. E questa volta l’Italia non ha perso il treno. Il sito americano “Let’s talk payments” uno dei più importanti in questo settore ha selezionato 27 pionieri italiani considerati tra i più bravi e influenti. Molti di loro sono giovani appena usciti dalle università, altri hanno accumulato esperienze in banche tradizionali e si sono lanciati in questo campo tutto da arare. Sono nicchie di eccellenza come quelle in cui si sono collocate le aziende manifatturiere italiane. Metteranno radici oppure saranno vittime anche loro della distruzione creatrice? Moriranno cammin facendo, si fonderanno per creare aziende più grandi o saranno fagocitate dai mastodonti della finanza come teme Malvezzi? Non possiamo saperlo, naturalmente. Oggi sappiamo solo che non è finita. Al contrario, è l’inizio di un’altra storia.