La villa dei talenti
Ecco la casa più bella di Silicon Valley. L’ha disegnata Ettore Sottsass, ci abita David Kelley, l’inventore del mouse Apple
Che bella moda americana l’open-house: cioè il voyeurismo legalizzato immobiliare, la visita alle case che non ti puoi permettere. Però un giorno fascinosi amici ci imbucano a un party nella casa più bella di Silicon Valley, e subito vengono i lacrimoni perché, una volta tolte le scarpe a questo party pomeridiano, ci si accorge subito che non è una casa ma un monumento al genio scanzonato-acrilico d’Ettore Sottsass.
Un boschetto di armadi solitari che porta
al living, librerie
come sfingi.
E colonnine, capitelli, metacrilato, radica,
tubi di acciaio inox
A Woodside, in mezzo ai boschi e agli Zip o Cap più cari del mondo, tra villette simil-chalet e simil-vittoriano e tetti aguzzi, alle ricchezze operose e celate di questa Lubecca 2.0 degli startuppari tristi, c’è una villa giocosa e farneticante disegnata dall’esimio fondatore di Memphis. È l’unica sua casa californiana, e visto che siamo in zona anniversari (nel 2017 cent’anni dalla nascita, dieci dalla morte), quale migliore occasione, come dicono le persone molto fini. La casa è un’astronave di laminato Carlton atterrata tra le Tesla, altro che i missili di Elon Musk. Un sentiero nel bosco, e poi una stretta pensilina bianca, da motel, e poi un primo ingresso in un corpo di mattoncini rossi, e un atrio con tanti corpi di fabbrica che si inseguono, di tanti materiali diversi, tondi e quadrati e verticali e orizzontali. Stanze dello scirocco, dammusi squadrati e sghembi e interni colorati sciropposi con le maniglie tonde come lollypop dappertutto, ossessive, anche nei bagni meravigliosi di marmo nero dove, con feticismo, apriamo un cassetto e saltano fuori ancora dei disegni originali. Sulle pareti una grigliatura bassa raccoglie e nasconde riscaldamenti e raffreddamenti, una porta di una radica color miele struggente immette in un atrio-serra che porta direttamente nella cucina e al boschetto di armadi solitari che porta al living. Colonnine, capitelli, metacrilato, radica, tubi di acciaio inox, librerie come sfingi o robot cubisti, insomma il repertorio pazzerello che scrisse una dichiarazione di guerra al funzionalismo italiano con un Uniposca. Anche dei paddock per una grande collezione d’auto, e uno studio-cupola a capanno Quonset alto sei metri.
È lo studio di David Kelley, proprietario qui e direttore alla Scuola di design dell’università di Stanford, fondatore di Ideo, uno degli studi di design più importanti d’America. È un delizioso leggendario signore che con massimo understatement ha inventato alcuni oggetti marginali come il primo mouse da computer (ma anche una versione corta del Boeing 747, un telefono Palm, il lettore cd da parete di Muji, forse lo Swiffer, ma non sa bene, deve controllare). La sua compagnia, Ideo, ha uffici da Palo Alto a Shanghai e impiega 700 persone.
Nel tempo libero ha messo su un fondo di investimento, scritto un manuale di design bestseller, inventato una moderna tecnica per gli effetti speciali usata in vari kolossal. E commissionato al maestro di Memphis questa casa immaginifica. Nel suo studio di Stanford, trivelle, eliche, modellini, barattoli, una lavagna dove ribadisce col suo pennarello in mano tutto ciò che ci diciamo, zac, disegna e poi cancella e ridisegna.
"Nel 1981 a Milano
la prima volta che
ho incontrato Sottsass". Un telefono l'unico prodotto della loro Enorme Corporation.
“La prima volta che ho incontrato Sottsass è stato nel 1981 e venni apposta a Milano; mi fece prendere un albergo, la locanda Solferino. ‘Stai lì che ti chiamerò alle dieci’, mi disse. Io ero in questa locanda, e il mattino sento il telefono suonare nella hall e nessuno risponde, continua a suonare, allora io vado giù e rispondo, e non so una parola in italiano, dico solo ‘pronto’, e qualcuno comincia a parlarmi velocissimo, e io non capisco, e quello mi dice ‘scusi, ma allora perché ha risposto, ma chi è’. Alla fine arriva Sottsass. A farci incontrare era stato Johnny Pigozzi, che ogni anno faceva una grande festa per il compleanno di Sottsass che era il 14 settembre, nella sua villa nella Francia del sud. ‘Tu sei un architetto, lui è un architetto, vi dovete conoscere!’, mi disse”. Pigozzi, figlio dell’ex fondatore della Simca automobili, collezionista, fotografo, barche e débauche, è uno dei pochi esemplari rimasti di jet set internazionale agnelliano.
“Dal 1982 poi cominciai a venire a Milano per il Salone del mobile. Conobbi e divenni amico di Marco Zanini, Matteo Thun e Aldo Cibic” cioè tutti i soci giovani dello studio Sottsass – il talento di Sottsass era esploso a settant’anni, quando invece che andare in pensione fondò Memphis e fece entrare in crisi il funzionalismo italiano e nel suo studio quelli che sono oggi i signori del design italiano. Anche fondatore di startup. “Nel 1984 decidemmo di fare una società insieme, la chiamammo Enorme, guarda, girati” mi dice Kelley, e in una scansia con modellini di registratori di cassa e dentifrici, c’è anche una sagoma di un lottatore di sumo, ed “è il logo che Ettore scelse per questa nostra azienda. L’idea era un grande marchio perché eravamo una piccola compagnia. L’unico prodotto della Enorme Corporation (si legge sul retro della busta) fu un telefono”. Un telefono fisso bellissimo nero, giallo e rosso, monumentale-simpatico come tutte le opere di Sottsass. “Fu un fiasco tremendo” dice Kelley. “È in tutti i musei di design, ma commercialmente un fiasco, forse era troppo caro, non so. Pigozzi aveva messo i soldi e faceva il manager, io la parte ingegneristica, Ettore il design”. Sottsass e Kelly li ritroviamo insieme poi nell’Interaction Design Institute Ivrea, l’accademia voluta da Roberto Colaninno e realizzata da Franco e Barbara Debenedetti per la riprogettazione degli interni della storica palazzina di Vittoria, già sede del Centro ricerche Olivetti.
Una noiosa degenza
allo Stanford Hospital per Sottsass nei primi anni Sessanta.
La moglie, Fernanda Pivano, intanto
andava in libreria
Nel tempo diventammo molto amici, andavamo sempre a pranzo alla Torre di Pisa a Milano, il suo ristorante preferito, io ero esaltato dal cibo, e Ettore mi chiedeva, che cosa mangi tu normalmente per pranzo? Io risposi che mangiavo un tuna melt, e lui non sapeva cos’era”. Non lo so neanche io. “È quel sandwich col tonno, e sopra il formaggio: lui ne fu stravolto. ‘Il formaggio sul pesce!’. A quel tempo si comunicava via fax, e quando cominciammo i lavori della casa ci scrivemmo un milione di fax , e lui cominciava sempre con ‘Dear Tuna Melt’, così mi chiamava, li ho ancora da qualche parte”.
“Venne qui, visitammo il terreno insieme, e lui conosceva Palo Alto benissimo perché c’era stato negli anni Sessanta” dice Kelley, e qui parte una storia meravigliosa. “Ettore era stato a lungo in ospedale qui a Stanford: in India nel 1961 in un lungo viaggio con la moglie Fernanda Pivano si era infatti preso la nefrite, e grazie a Roberto Olivetti per cui Sottsass lavorava, e che a Palo Alto aveva un avamposto, lo fece ricoverare allo Stanford Hospital”. Nelle lunghe degenze si annoiavano, e dopo aver inventato la fondamentale rivista Room 128 (dal nome della stanza) Sottsass scriveva la sua autobiografia e Pivano si allungava in città da Burroughs e Ginsberg e Ferlinghetti e tutti i Beat attorno alla libreria City Lights. Così i reni di Sottsass contribuirono al successo italiano di On the Road e L’urlo.
Quarant’anni dopo, il sogno di una casa. “Io avevo fatto questo quaderno, molto lungo ed elaborato, con foto, disegni, schizzi, di come volevo che fosse la casa, ne ero molto fiero” dice Kelley. “Lui lo prese, gli dette un’occhiata e lo gettò via. ‘Questa è una casa del passato’ disse. ‘Io voglio fare una casa del presente’”. “Tutti hanno scritto che è stata una collaborazione ma non è vero, è una casa cento per cento di Ettore” dice Kelley. Ma come si vive in delirio sottsassiano? “Sembra un cliché ma io ho adorato vivere lì, per vent’anni ogni giorno scoprivo un dettaglio. Tutti gli arredi sono stati disegnati e prodotti in Italia e poi spediti via nave a San Francisco e rimontati da Antonio Zago, il suo ebanista veneziano”. “C’è una nicchia per la biancheria sporca in una delle camere” (Kelley comincia a disegnare sulla lavagna) “rosso e nera, così, ecco, perfettamente illuminata, con un sistema per cui tu la appendi e la biancheria scompare autenticamente nel suo cesto. Lui celebrava la biancheria sporca, capisci? Se uno celebra la biancheria sporca celebra la vita stessa”.
Avrà odiato qualcosa. “Odiato no, però abbiamo lottato. Io volevo un loft, una casa newyorchese, lui era contrario, ‘è una cosa disumana’, diceva, allora arrivammo a un compromesso, un grande spazio ma delimitato da una foresta di armadi”, un boschetto di armadi singoli, che infesta e occupa quella che doveva essere “la rappresentanza”, in un manifesto anti-signorile. “Lui era molto interessato al Giappone e alla passione giapponese per le scatole”, e questo boschetto è ancora lì, un mobile è il bar, con una bottiglia di Campari dentro, rosso come i pomelli ossessivi e giocosi della cucina.
“Un’altra cosa che assolutamente non voleva era che mettessi la mia moto nell’ingresso, lì io volevo mettere la mia Harley Davidson, e lui non conosceva o fingeva di non conoscere questa marca e dunque la chiamava Steven Harley, e ogni volta discutevamo, ‘non metterai qui la tua Steven Harley’, diceva, e alla fine l’ha vinta lui, adesso al posto della Steven Harley c’è la consolle Tartar”, dice Kelley (la Tartar è un grande classico della produzione sottsassiana, un gioco di laminati e radiche e piani spezzati tra Superstudio e un sogno di De Chirico).
“Ogni anno quando andavo in Italia gli portavo qualcosa di molto americano, una volta una maglia da bowling con una grande scritta Ettore, un’altra un Jiffy Pop”, e si mette a disegnare questo strumento cuoci-popcorn che è una specie di padella pre-sigillata da un foglio di alluminio sopra che la ricopre, si compra con dentro già i popcorn e va messa in forno così. “Lui ne fu entusiasta, la appese nella sua casa di Milano come un’opera d’arte, ma dentro c’era l’olio di cottura, e l’olio scese su tutta la parete e sul pavimento a via Pontaccio e lui ne fu imbestialito”.
Nello studio di Kelley, invece, tanto ready made e modelli di aerei. “Ah, sì, ho disegnato gli interni del 747, una versione ristretta sviluppata dalla Twa insieme a Iran Air negli anni Settanta, che permetteva di coprire il New York-Teheran senza scalo, all’epoca era la rotta più lunga del mondo”. E il mouse Apple? “Eccolo lì dietro, prendilo”, e con un po’ di emozione si prende in mano questo quadrato di plastica ingiallita con una palletta e un tastone in mezzo. “Era il 1980 e Apple ci chiese di fare un mouse per il loro nuovo computer, il Liza”. Siamo in piena leggenda siliconvallica. Liza, come la figlia di Jobs (il computerone Liza è accatastato anche lui alle nostre spalle). “Ma, sai, è normale, se stavi a Milano disegnavi poltrone e lampade, a noi che lavoravamo qua in Silicon Valley ci chiedevano di disegnare cose per la nascente industria informatica. Era molto eccitante inventare qualcosa che nessuno ha mai disegnato prima, molto diverso dal disegnare una sedia. Così Apple ci chiese un sistema di puntamento per il loro nuovo computer, doveva costare un decimo rispetto ai sistemi esistenti”. È vero che l’ispirazione venne dal roll-on del deodorante? “Sì, dalla pallina del deodorante ma soprattutto da un prototipo sviluppato da Xerox Parc, un centro di ricerca dell’omonimo gruppo che praticamente ha inventato tutto quello che c’è nei computer, loro poi non sfruttavano commercialmente le loro invenzioni, ma hanno inventato tutto loro, dalla stampante laser al mouse, al cavo ethernet, al sistema a finestre. Molte delle cose che poi Apple ha brevettato venivano da lì”.
C’erano problemi tecnici e logici. “Quello Xerox aveva una rotellina dentro, noi abbiamo provato a metterci dentro questa sfera ma non era facile perché doveva essere libera di ruotare ma al tempo stesso ancorata a una ghiera. E con un meccanismo che permettesse di premere sulla sfera e fare clic. Ma il punto era come trasformare il movimento in impulsi elettronici, e la distanza doveva essere esatta. Devi essere molto accurato. A un certo punto ci venne l’idea che in realtà il cursore non deve coprire la distanza reale, ma simbolica, perché il cervello umano ha un sistema di puntamento incorporato. Il cervello e gli occhi avrebbero fatto tutto il lavoro di accuratezza”. Così il mouse è potuto essere un oggetto non accurato, ed economico come un deodorante o quasi.
"Volevo un loft, lui era contrario: è una cosa disumana, diceva". "C'era più design nella Olivetti di allora che nella Apple di oggi"
Sulle mensole, un Palm V, “era una specie di precursore dell’iPhone, aveva dentro una fotocamera e una calcolatrice”. E lo Swiffer? “Ah sì, abbiamo disegnato un sacco di cose per Procter and Gamble, guarda un po’ su, ecco, sì, la confezione di dentifricio Crest rigida, e poi ah, cos’è questo? Ah, degli occhiali per Nike”. E poi una calcolatrice bellissima da tavolo. “Sì, questa l’ho disegnata io”. Sembra lo studio di Achille Castiglioni. “Oh, sì, adoro Castiglioni, una volta avevo qui la sua sedia, Mezzadro, adesso è nell’altro ufficio. Mi ricordo all’ottantesimo compleanno di Sottsass a Milano c’era lui, e poi Magistretti, Mari, i miei miti di quando ero uno studente”. Milano è ancora il centro del design mondiale? “No”.
Com’era disegnare per Steve Jobs? “Ci teneva molto al design, però il nuovo edificio l’ha fatto progettare da Norman Foster. In realtà c’era più design nella Olivetti di allora che nella Apple di oggi. Nell’azienda di Ivrea c’erano questi manuali di design aziendale che stabilivano tutto, la grafica, i prodotti, gli edifici. Pensa che avevano due studi di progettazione interni e due esterni, uno gestito da Mario Bellini e uno da Sottsass. Oggi nessuno ti farebbe fare una cosa del genere”. E Jobs? Era così cattivo? “La parola d’ordine era soddisfarlo, pleasing, pleasing him, pleasing him. Quando dopo un centinaio di no arrivava un sì eravamo tutti contenti. Alla fine siamo diventati amici, è lui che mi ha presentato mia moglie, e negli ultimi anni era diventato quasi tenero. E poi eravamo entrambi malati, io avevo pure il cancro, e quando mi è stato diagnosticato lui è stato molto carino, era il 2007 e il primo iPhone era uscito da una settimana, lui mi portò uno dei primi esemplari, e poi disse a quelli dello Stanford Hospital che dovevano trattarmi bene perché ero amico suo”.
Kelley che sembra il professore buono di un classico film di universitari americani, il genio modesto e affabile, adesso deve vendere la villa per dei motivi suoi; prenderà una casetta all’interno di Stanford (“me la danno come professore, è un po’ una schifezza, ma sono vicino allo studio, mi aiuterà a disegnarla Johanna Grawunder, collaboratrice di Sottsass”). Così la casa in mezzo alla foresta è in vendita, viene quindici milioni di dollari, con tutto l’arredamento e più che altro il terreno, “sono dieci acri, qui la terra costa due milioni ad acro”, sospira Kelley. Il rischio è che qualche siliconvallico compri la cubatura e butti giù tutto per farsi il villone coi nanetti o i droni. Sarebbe bello invece se qualche unicorno di qui la capisse (magari Joe Gebbia, padrone di Airbnb appassionato di design milanese). O addirittura qualche italiano pubblico o privato: c’è tanto spazio, son 750 metri quadri più le dépendance. Sarebbe un incubatore e acceleratore perfetto e spazioso. Anche una rivincita non male per il genio italico, in mezzo a tante casette e fabbrichette di siliconvallici molto liquidi, ma con fondati complessi culturali.
Il Foglio sportivo - in corpore sano