Chi è Jens Weidmann, il guardiano tedesco
Teorie e propositi del capo della Bundesbank che potrebbe succedere a Draghi
C’era il tempo del fuoco e dell’acqua, ora arriva il tempo della terra, quello di seminare e raccogliere. Filosofeggia il funzionario della cancelleria tedesca, spiluccando un po’ da Hegel un po’ da Qoelet. E spiega: “Mario Draghi è stato un eccellente pompiere, adesso ci vuole un costruttore. Con le sue innovazioni, ha contribuito a spegnere le fiamme della crisi, ha salvato l’euro, ha gettato i semi della crescita, è arrivato il momento di consolidare lo sviluppo, rafforzare la valuta, risanare le economie dei paesi indietro, tra i quali innanzitutto l’Italia. Per questo, la moneta deve tornare ancella della economia reale”. Inutile chiedere chi sarebbe il muratore del nuovo edificio economico europeo, perché la risposta è già dialetticamente implicita nella domanda: Jens Weidmann, il capo della Bundesbank, chiamata familiarmente Buba. Non è una questione di scuole di pensiero, non è l’austro-germanico Hayek contro l’inglese Keynes o contro l’italo-americano Modigliani scettico come si sa sulla tenuta di una “moneta senza sovrano”. No, è che le situazioni cambiano e con esse debbono cambiare anche gli uomini.
Secondo il settimanale Der Spiegel, sia la cancelliera Angela Merkel sia il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble hanno deciso di candidare Weidmann per la poltrona di Draghi e lui ha accettato. Lo hanno ripreso e rilanciato tutti gli altri giornali a cominciare dalla Frankfurter Allegemeine Zeitung, considerata la voce della Buba. In una intrervista a Die Zeit lo stesso candidato ha messo le mani avanti. E’ troppo presto, la scadenza è per l’ottobre del 2019, quindi è una scorrettezza mettere in mora Draghi e di tutto si può accusare Weidmann tranne di non essere leale. Ha votato quasi sempre no quando Draghi ha deciso di pompare denaro nella economia e riempire le casse di buoni del Tesoro, anche italiani. Ma il banchiere centrale tedesco ha difeso l’indipendenza della Bce e del suo presidente dagli attacchi della Cancelleria e dello stesso Schäuble. Weidmann non ha bisogno di sotterfugi, le sue idee le ha sempre dette in modo esplicito. Lo ha fatto anche in Italia un anno fa quando su invito dell’ambasciatrice tedesca a Roma, Susanne Wasum-Reiner, ha pronunciato un discorso di razionale chiarezza citando Tommaso Padoa-Schioppa e Stefano Rodotà, ricorrendo a metafore e parabole anziché a formule astratte per spiegare il suo pensiero.
A Matteo Renzi, allora capo del governo, ha rimproverato di non aver approfittato della bonanza monetaria, con tassi d’interesse persino sotto zero, per ridurre l’enorme debito pubblico accumulato. Ha apprezzato riforme come il Jobs Act, ma non una politica di bilancio a suo avviso sostanzialmente lassista. Con il ministro italiano dell’Economia il dissenso è sui fondamentali. Pier Carlo Padoan ritiene che “la condivisione dei rischi e delle responsabilità rappresentino forti incentivi a rispettare le regole e a prevenire comportamenti opportunistici”. Weidmann risponde con l’esempio dell’assicurazione per una bicicletta. “Sostenendo la spesa dell’assicurazione si dovrebbe essere maggiormente indotti a parcheggiare la bicicletta sempre in cantina per prevenirne il furto – ha spiegato – Di conseguenza diminuirebbero i furti di biciclette e i premi diverrebbero sempre meno alti. Invece avviene il contrario. Quando ultimamente mi sono recato presso il mio rivenditore di fiducia mi sono spaventato. Perché per una assicurazione che permetta la possibilità di parcheggiare la bicicletta la sera davanti alla porta di casa viene richiesto un premio così alto da potersi permettere ogni tre anni una bici nuova di zecca”.
Angela Merkel e il ministro delle Finanze Schäuble hanno deciso di candidarlo per la poltrona di Draghi e lui ha accettato
La pesca, o meglio l’almènda, “la tragedia dei beni comuni”, è la metafora per capire l’architettura dell’euro. “Il sovrasfruttamento delle risorse ittiche da parte di un singolo pescatore riduce la disponibilità di pesci per gli altri e minaccia nel lungo periodo le stesse risorse. Dal punto di vista del singolo pescatore è tuttavia allettante realizzare una pesca il più possibile cospicua senza riguardo per altri pescatori o per le generazioni future. Un fenomeno simile accade in relazione ai debiti sovrani in una unione monetaria. Un elevato indebitamento pubblico a livello nazionale può risultare allettante agli occhi del singolo Paese, tuttavia è nocivo per l’area dell’euro nel suo complesso”. Uno sviluppista potrebbe obiettare che ciò è vero quando le risorse sono limitate, ma la crescita del prodotto lordo rende più facile rimborsare il debito e allontana lo spettro di un fallimento: quel che conta non è lo stock accumulato, bensì la capacità di pagarne i costi. Per questo il Giappone non fa default. Ma non ne caverebbe un ragno dal buco.
Sono discorsi ascoltati più volte nel grattacielo della Bce. I 25 membri del consiglio sono disposti in rigoroso ordine alfabetico. Accade così che si trovino l’uno accanto all’altro i tre azionisti principali, cioè i governatori della Bundesbank, della Banca di Francia e della Banca d’Italia, Weidmann, Villeroy e Visco, un democristiano, un socialista e un liberal. Il rapporto tra loro è cordiale, improntato a stima reciproca e condivisione delle scelte di fondo. Visco ammette, ridacchiando di fronte alla sorpresa del suo interlocutore, che in realtà il più delle volte sono d’accordo. In verità Weidmann è quasi sempre all’opposizione. Villeroy de Galhau è il classico enarca francese che ha trascorso parte della sua vita nelle istituzioni pubbliche e nei gabinetti dei ministri, in particolare era il capo dello staff di Strauss-Kahn. Quando il suo mentore ha lasciato, invece di seguirlo al Fmi è salito al vertice della Bnp, una delle maggiori banche francesi. Funzionario pubblico e banchiere privato (in Francia si fa così), Villeroy vanta origini aristocratiche, ma è sempre stato un compagno di strada dei socialisti. Visco è nato a Napoli ed è sempre stato un public officer, è entrato giovane in Banca d’Italia che per molti versi è il nostro equivalente dell’Ena, l’alta scuola di pubblica amministrazione francese. Allievo di Federico Caffè, come anche Draghi, fuori da Palazzo Koch ha lavorato solo in istituzioni internazionali: l’Ocse, niente Goldman Sachs né banche private italiane. Grande esperto di macroeconomia, post-keynesiano come impostazione, non ha mai svolto ruoli da consigliere del principe. Nel complesso e sofisticato dibattito interno alla Bce, sia Visco sia Villeroy hanno sostenuto Draghi e contribuito in modo determinante a mettere in minoranza Weidmann. Il presidente della Bundesbank non solo non se l’è mai presa, ma non ha mai smesso di condurre per sette lunghi anni di vacche magre la sua battaglia solitaria. Ogni volta che lo chiamano “Herr Nein”, sale il suo prestigio in Germania. Se c’è uno che può essere definito profeta in patria è proprio lui anche se la destra radicale e quelli di Alternative fuer Deutschland sono arrivati ad accusarlo di essere troppo tenero con Draghi.
Un riformista trasversale. Quando arriva la grande crisi, è un protagonista nel salvataggio del sistema creditizio tedesco
I frutti della sua resistenza stanno per arrivare? Se Angela Merkel il 24 settembre vince per la quarta volta, battendo anche il record di Bismarck, dimostra che la Germania è la solida àncora del Vecchio continente e lei che l’ha guidata in mezzo alla più grave tempesta economica del Dopoguerra, di fronte alla nuova minaccia della Russia e al terremoto politico interno provocato dall’ondata migratoria, è la rassicurate madrina e timoniera. E’ troppo presto per sapere se sarà proprio così, ma le manovre sono in corso. Non è escluso che la candidatura di Weidmann sia un ballon d’essai e alla fine il presidente della Buba venga tenuto in serbo per un posto al governo, magari come ministro delle Finanze. Del resto, è sì un tecnico, ma non un professore né un banchiere, potremmo dire che è competente e politico allo stesso tempo. In una intervista al quotidiano austriaco Der Standard, Weidmann ha chiesto che non ci siano veti, tanto meno verso un tedesco. La scelta deve essere professionale non nazionale. Eppure uno degli argomenti usati da Berlino ricalca una sorta di manuale Cencelli su scala continentale: alla guida della Bce ci sono stati un olandese, un francese e un italiano, dunque è il momento di un tedesco. Ma se deve contare il merito e la qualità, replicano i francesi, allora il candidato perfetto è proprio Villeroy. Finora Macron non si è espresso ed è probabile che metta anche la successione a Draghi sul tavolo del complesso negoziato per rilanciare l’Unione europea e rinfrescare l’appassita coppia renana. E’ arrivato il momento di abbandonare i vecchi dogmi, un banchiere centrale è come il gatto (e qui la metafora risale a Deng Xiaoping), non conta se sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi. Il presidente della Bce viene nominato da una maggioranza qualificata del Consiglio dell’Unione europea, cioè con il 55 per cento dei paesi membri pari ad almeno il 65 per cento della popolazione, quindi senza il consenso dei paesi del sud non c’è nessuna possibilità di far passare il candidato tedesco considerato come un cerbero messo a difesa dell’austerità. Non solo. Secondo una convinzione diventata ormai senso comune a Francoforte non si muove foglia che Berlino non voglia. In realtà, fin dalla gestione Trichet la Germania è rimasta isolata. Nel 2011 se ne andò sbattendo la porta Juergen Stark, numero due della Bce, perché stanco di mettersi inutilmente di traverso all’acquisto di titoli di stato sul mercato secondario.
Ma è poi vero che Weidmann sia il guardiano della ortodossia e abbia fatto del tutto per distruggere l’euro come ha scritto Paul Krugman? E merita sul serio l’attributo di bestia nera dell’Italia? Nato nel 1968 (il 26 aprile a Solingen) è l’esponente di una generazione che del Sessantotto non ha assorbito nemmeno il mito. Con la sua aria da secchione brillante, gli occhialini rettangolari di gran moda quindici anni fa, le camicie dal collo alla francese, le cravatte sempre appropriate e le giacche custom fit, non assomiglia al burocrate fagottone dell’era Kohl e tanto meno allo stereotipo del tedesco in calzini e Birckenstock. Incarna piuttosto l’élite della nuova Germania, formatasi su entrambe le sponde del Reno. Il giovane Jens studia all’Università di Bonn e a quella di Parigi, svolge un internato alla Banca di Francia e riceve il suo dottorato in Politica monetaria da Manfred Neumann (morto un anno fa) acceso sostenitore della Grecia fuori dall’euro. Dopo aver lavato i panni nel Potomac con un biennio al Fondo monetario internazionale, torna in patria e si distingue come ispiratore delle riforme che verranno realizzate da Gerhard Schroeder, l’Agenda 2010. Weidmann non è socialdemocratico, semmai è vicino alla Cdu, ma gli piace considerarsi un riformista trasversale, finché Angela Merkel nel 2006 lo chiama accanto a sé alla Cancelleria come principale consigliere economico. Quando arriva la grande crisi, è lui protagonista di primo piano nel salvare il sistema creditizio tedesco. Oggi proclama che anche le banche (come gli stati) possono e debbono fallire. Allora ha impedito il fallimento della Hypo Real Estate, della Dresdner, della Commerzbank. Nel 2011 scoppia uno scontro tra la Kanzlerin e Axel Weber, il presidente della Bundesbank che la Merkel avrebbe voluto candidare alla Bce per sostituire Jean-Claude Trichet. Proprio quel conflitto apre la strada a Draghi, mentre il vuoto alla Buba viene riempito da Weidmann, che sceglie una linea di continuità con la tradizionale ortodossia: inflazione zero, politica monetaria orientata alla stabilità, nessuna avventura in territori inesplorati. Con la Grecia si mostra inflessibile, ma a differenza dal suo vecchio professore non spingerà per una rottura. Lo stesso vale per l’Italia alla quale non offre scappatoie sulla politica fiscale e sul rispetto dei parametri, senza spingerla fuori dalla porta.
Ha apprezzato riforme come il Jobs Act, ma non una politica di bilancio a suo avviso lassista. Il dissenso con Padoan
L’Italia e la Germania sono oggi ai poli opposti, ed entrambe un problema per la Ue come ha scritto Lorenzo Bini Smaghi nel suo libro intitolato “La tentazione di andarsene”. Weidmann ha ragione a mettere sotto accusa le occasioni sprecate dall’Italia per risanare la sua economia pubblica. Ma Padoan a sua volta non ha torto quando sottolinea che la Buba avrebbe dovuto spingere con la sua moral suasion il governo tedesco a cambiare la politica neomercantilista che spinge a risparmiare troppo e a investire troppo poco, frenando la crescita in tutta Europa. La Merkel ha detto che riscrivere i trattati non è un tabù, quindi è ora di mettere sul tavolo proposte concrete. Secondo Weidmann “è giunto il momento di decidere se il passo finale possa essere quello di osare un salto di qualità verso una maggiore integrazione oppure se debba essere rafforzato il principio della responsabilità sancito dal quadro di Maastricht. Sicuramente una integrazione politica più forte sarebbe una soluzione per rendere l’Unione monetaria più robusta. Tuttavia, già un’unione fiscale europea comporterebbe modifiche ai Trattati europei e referendum negli Stati membri. Un effettivo trasferimento della sovranità di bilancio in capo a una struttura europea sarebbe altrimenti irrealizzabile”.
Mercoledì Ignazio Visco leggerà le considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia le ultime del suo mandato, ma forse non le ultime in assoluto se è vero che si va verso una sua riconferma alla scadenza del prossimo novembre. L’anno scorso il governatore ha rilanciato l’esigenza di andare avanti verso l’unione politica e condivide con Weidmann l’idea di creare un bilancio comune gestito da un ministro europeo. Probabile che ne riparli, così come c’è da attendersi che sostenga anche lui la necessità di un ritorno alla normalità nella politica monetaria magari in tempi e modi meno bruschi rispetto a quelli auspicati dalla Bundesbank. “Aspettiamoci di qui alle elezioni altre critiche a Draghi – ha scritto Leonid Bershidsky su Bloomberg – e ancora più speculazioni sulla Merkel che pretende il suo uomo alla Bce”. In questo do ut des, Roma ha la sua parte da giocare.
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