Il conflitto domato
Lutero, lo scisma, la riconciliazione. Cosa è rimasto dello scontro che ha spaccato la cristianità per mezzo millennio. Un libro
Sassonia, 31 ottobre 1517: Martin Lutero affigge sul portale della chiesa del castello di Wittenberg le novantacinque tesi sulle indulgenze. Per convenzione storica, è l’inizio della Riforma protestante. Svezia, 31 ottobre 2016: Papa Francesco partecipa alle cerimonie che avviano la celebrazione del cinquecentesimo anniversario dello scisma. Insieme al vescovo Munib Yunan, presidente della Lutheran World Federation, illustra nella cattedrale di Lund una Dichiarazione congiunta il cui passo finale recita: “Facciamo appello a tutte le parrocchie e comunità luterane e cattoliche, perché siano coraggiose e creative […]. Piuttosto che i conflitti del passato, il dono divino dell’unità tra di noi guiderà la collaborazione e approfondirà la nostra solidarietà […]”. Il lungo cammino di riavvicinamento tra le due confessioni si conclude con la piena riabilitazione dell’eresiarca. Nel 2011 Benedetto XVI entra nell’ex convento di Erfurt, lì dove – secondo le parole dello stesso Joseph Ratzinger – il monaco agostiniano aveva maturato “le sue ineludibili domande su Dio, quelle che in forma nuova dovrebbero diventare anche le nostre di oggi”. Nel 2013 la Commissione di dialogo luterana-cattolica elabora un documento che, in vista della commemorazione comune, riassume le intese raggiunte nel campo della giustificazione, dell’Eucaristia e della tradizione biblica. Due anni dopo, Jorge Bergoglio riconosce a Lutero il merito di aver messo la Scrittura “nelle mani del popolo”. Jürgen Moltmann, il fondatore riformato della “teologia della speranza”, in un dialogo con il cardinale Walter Kasper può quindi auspicare l’avvento di “un ministero petrino rinnovato e comune alla luce del Vangelo” (Vita e Pensiero, n. 4, 2016).
Tirando le somme, lo scontro che ha spaccato la cristianità per mezzo millennio sembra sepolto. Ma una vera unità fra tutti i cristiani può essere ripristinata diplomatizzando il dialogo ecumenico, senza volgere con coraggio lo sguardo sulla conflittualità del passato? Questo interrogativo è al centro della riflessione di Volker Reinhardt (Lutero l’eretico. La Riforma protestante vista da Roma, Marsilio, 2017). Chiaramente, il principio della giustificazione “sola gratia” e la dottrina della predestinazione sono ormai fuori discussione. Per i cristiani di oggi, infatti, la controversa idea che l’uomo sia predestinato dall’Altissimo alla salvezza o alla dannazione fin dalla nascita è inammissibile. Pertanto, non figura più come una questione dottrinale se non in una forma rovesciata: chiunque può andare in Paradiso, purché ci metta tutta la sua buona volontà. Il processo di democratizzazione degli ultimi due secoli ha investito anche l’Aldilà, rendendolo uguale per tutti. Una prospettiva difficile da accettare per Lutero. In una memorabile disputa con Erasmo da Rotterdam, il figlio di Hans, un umile “metallicus” (minatore), chiarì cosa pensava di questo Dio fin troppo amorevole, ritratto come educatore gentile e benevolo: si trattava di una melensa rappresentazione originata dalla superbia, dal rifiuto dell’uomo di vedersi per ciò che è veramente, una creatura vanitosa e incline al peccato. Un pessimismo antropologico che nel luteranesimo contemporaneo, almeno in ambito europeo, si è gradualmente trasformato in attivismo sociale e politico. In questo modo, esso – osserva Reinhardt – spesso senza saperlo si è tacitamente accostato al principio cattolico della forza redentrice delle opere e della cooperazione dell’individuo con la grazia divina, finendo quasi per annullare la distanza tra le due confessioni.
Tra le due confessioni un lungo cammino di riavvicinamento che si è concluso a Lund con la piena riabilitazione dell'eresiarca
Non rimane che un ostacolo: il primato di Roma. In verità anche il nazionalismo, fenomeno che risale proprio al Cinquecento, complica la riunificazione ecclesiastico-religiosa. Del resto, con la crisi dell’Unione europea è di nuovo evidente che cosa tedeschi e italiani pensino gli uni degli altri, ossia poco di buono. Gli stereotipi nazionali di moda su entrambi i versanti delle Alpi sono ancora in larga misura debitori del repertorio degli umanisti e della Riforma: l’idea dei subdoli italiani che finanziano i propri sprechi, e dunque la propria immoralità, attingendo dalle casse tedesche, era già abbondantemente presente nei “Gravamina Nationis Germanicae”, cioè le accuse rivolte alla Curia fin dalla metà del Quattrocento di soffocare con le imposte ecclesiasistiche l’economia nazionale. Così come quella dei tedeschi avidi, barbari, ignoranti e privi di qualsiasi sensibilità per la bellezza e i piaceri della vita, si rifletteva già nei dispacci dei nunzi romani. Francesco Guicciardini apprezzava invece Lutero, perché “gliel’aveva fatta pagare alla gentaglia del clero”. Ma il fiorentino non poteva certo augurarsi il trionfo del luteranesimo, essendo egli strettamente vincolato per ragioni familiari alle sorti del papato.
Friedrich Nietzsche, al contrario, odiava Lutero, poiché lo riteneva responsabile della restaurazione della religione cristiana che i papi rinascimentali, in particolare Alessandro VI e suo figlio Cesare Borgia, avevano affossato. Questa religione era stata riportata in auge, insieme alla “morale degli schiavi”, dagli istinti più bassi di un monanaco oscurantista. Thomas Mann era della stessa opinione. Apprezzava il contributo di Lutero alla formazione della lingua tedesca e la sensibilità democratica del sacerdozio universale. Nonostante ciò, rifiutava il suo pensiero e la sua opera: “Non lo amo, e lo ammetto apertamente. Qualsiasi tedesco sostenitore della purezza culturale della Germania […] mi sconcerta e mi spaventa, anche quando si presenta come paladino della libertà evangelica e dell’autonomia intellettuale; e in particolare suscita la mia istintiva avversione il Lutero collerico e senza scrupoli, lo zotico irascibile che impreca, sputa e inveisce, l’uomo che accompagna a una grande profondità d’animo una rozza superstizione nei confronti di demoni, incubi e mostri. Non avrei mai potuto essere ospite alla tavola di Lutero: probabilmente presso di lui mi sarei sentito come nella casa di un orco e sono convinto che sarei andato più d’accordo con Leone X, Giovanni de’ Medici, l’umanista gentile che Lutero chiamava la puttana del diavolo” (La Germania e i tedeschi, Manifestolibri, 1995).
Lutero non incontrò mai il predecessore del Papa mediceo. Quando, su incarico dell’ordine degli eremiti di sant’Agostino, arrivò a Roma nel 1511, Giulio II (1503-1513) si trovava altrove. Stava infatti guidando le sue truppe contro i signori ribelli dello Stato pontificio, perseguendo nello stesso tempo l’obiettivo di cacciare i francesi dall’Italia. Il Riformatore nei suoi Discorsi a tavola, raccolti da Johannes Mathesius tra il 1540 e il 1541, gli avrebbe rimproverato questo sanguinoso bellicismo. Il nipote di Sisto IV aveva celebrato la Pasqua con una carneficina, presso Ravenna, che era costata la vita a migliaia di cristiani. Ecco come l’Anticristo romano aveva festeggiato la risurrezione del Signore! Dietro una polemica asperrima si celava anche una profonda delusione personale: era stato nella città santa e poteva raccontare per esperienza diretta quanto fosse triste attraversare quella nuova Babilonia sul Tevere, ma non era riuscito a guardare negli occhi la perfida caricatura di Cristo. Anche molti anni dopo il suo viaggio, quell’assenza condizionò i suoi anatemi contro l’antico nemico: il papa di Roma, che si chiamasse Leone X (1513-1521), Clemente VII (1523-1534) o Paolo III (1534-1549). Sulla falsariga del boemo Jan Hus, sia come oratore sia come autore di pamphlet, non cessò mai di fustigare i delitti raccapriccianti dei pontefici: dal rapporto incestuoso tra Alessandro VI (1492-1503) e sua figlia Lucrezia, alle gesta di Leone X, che al Concilio Lateranense aveva offerto ai cardinali cinque ragazzi di bell’aspetto. Queste invettive si sarebbero trasformate in cliché in grado di influenzare fortemente l’immaginario collettivo luterano.
D’altro canto, agli occhi della Curia romana Lutero si presentava come il prototipo del teutone odioso: un beone irascibile, grossolano, arrogante, scurrile, che con i suoi folli anatemi contro il magistero della chiesa mirava semplicemente a ingraziarsi la potente Germania, per acquisire fama e fortuna. E’ significativo che il prelato piemontese Silvestro Mazzolini da Prierio (o Prierias), il primo ad essere incaricato di confutare le novantacinque tesi, avesse redatto in appena tre giorni una replica sbrigativa e superficiale, non ritenendole degne di un serio esame. Il confronto, insomma, si ridusse presto a uno scambio di insulti. Sostiene Reinhardt che chi ne cercasse una spiegazione nelle canoniche rappresentazioni della Riforma dovrebbe fare i conti sempre con la stessa risposta: Roma è sorda, trama, minaccia e perde. Nella maggior parte degli studi di matrice protestante la corte papale viene descritta secondo schemi frusti: centro di splendore culturale e artistico, ma impregnato di crassa mondanità e di lassismo morale, oltre che concentrato esclusivamente nella contabilità delle opere pie e incline alle sottigliezze scolastiche. Tutti stereotipi che riecheggiano le violente critiche al papato come ricettacolo di ogni vizio mosse da Ulrich von Hutten, il letterato che aveva tradotto in tedesco proprio nel 1517 il celebre discorso di Lorenzo Valla sulla falsa donazione di Costantino.
Agli occhi della Curia romana Lutero si presentava come il prototipo del teutone odioso che mirava a ingraziarsi la Germania
In un quadro simile, alla chiesa non rimase che il ruolo ingrato della maestra boriosa che pretendeva di insegnare, ma condannata dalla storia a imparare. Una chiesa che decise di passare all’offensiva solo nel 1545, come recita la vulgata storiografica, con il Concilio di Trento e la “Controriforma”. L’infondatezza di tale interpretazione è stata dimostrata da tempo, sebbene continui a essere prevalente. Che le posizioni della chiesa romana siano grottescamente sottovalutate lo si deduce anche dal fatto che, in recenti e importanti studi, il cardinale Girolamo Aleandro, principale antagonista di Lutero, sia descritto come un un meschino e intrigante burattinaio delle cospirazioni della Santa Sede. Nella lettura dominante, Lutero resta il fautore di un ritorno alle autentiche radici del cristianesimo. Quanto essa sia arbitraria emerge nettamente proprio dalla corrispondenza del nunzio apostolico Aleandro relativa al drammatico interrogatorio di Lutero alla Dieta di Worms (1521), dove era stato invitato a ritrattare le sue tesi (più precisamente, i suoi quarantuno errori). Né è stato dato il giusto peso a molte altre fonti documentarie, come le bolle papali e le istruzioni impartite ai legati pontifici delle sedi apostoliche. Una mole di informazioni impressionante, che analizzata con scrupolo – afferma Reinhardt – getterebbe un fascio di luce diversa su quel processo di rottura e demonizzazione i cui effetti si avvertono ancora oggi. Nella controversia tra Lutero e Roma erano in gioco questioni di fede, concernenti differenti esegesi dei testi sacri, sulle quali non si poteva né si può formulare alcun giudizio oggettivo. Si tratta allora di riconoscere come concezioni della salvezza eterna, retroterra politici e sociali, sistemi giuridici portassero ciascuno dei due contendenti a credere di essere nel giusto.
Chiunque, con la buona volontà, può andare in Paradiso. Il processo di democratizzazione degli ultimi due secoli ha investito anche l'Aldilà
Beninteso, l’esplosione del conflitto è ascrivibile non soltanto a principi teologici inconciliabili, ma a concretissime questioni di potere. Dettagliate ricerche effettuate in occasione del quinto centenario della Riforma hanno confermato che la Germania, a differenza della Spagna e della Francia, non beneficiò mai del meccanismo di distribuzione di favori e prebende papali. A sentirsi penalizzate, all’inizio del Sedicesimo secolo, erano soprattutto le regioni settentrionali e orientali. Da qui le accuse di saccheggio, in virtù di una tassazione esorbitante, rivolte al papato da influenti intellettuali come il citato von Hutten. Accuse che fecero breccia nel ceto dei cavalieri, piccoli feudatari desiderosi di riscatto, a cui si unirono l’aristocrazia urbana più marginale e diversi gruppi della borghesia mercantile e rurale. Non fortuitamente la Dieta di Worms fu convocata da Carlo V d’Asburgo (1500-1558) per deliberare, con i principi elettori e le libere città, su cruciali nodi fiscali (a partire dal finanziamento degli eserciti imperiali). La “causa Lutheri” non era contemplata nella sua agenda iniziale. Solo l’enorme interesse pubblico da essa suscitato e il timore di disordini consigliò di affrontarla, fino all’emanazione dell’Editto che dichiarava il monaco un fuorilegge e vietava la lettura o il possesso dei suoi scritti.
Lutero morì il 18 febbraio 1546 nella cittadina in cui era nato nel 1483, Eisleben. I suoi antenati di linea maschile si chiamavano Luder, che può significare “carogna”, e ancora adesso non suona molto bene. Martin cambiò più tardi il suo cognome in Luther: così i suoi contemporanei vi associarono il significato di “onesto, puro” (“lauter”). Se la lotta contro il papato era stata la ragione della sua vita, anche la sua morte avrebbe dovuto costituire un atto di esemplare valore probativo. Il commiato del Riformatore fu quindi documentato in un resoconto certosino dai suoi discepoli, da cui risultava che il moribondo aveva ostinatamente ribadito il suo credo fino all’esalazione dell’ultimo respiro. Pochi mesi dopo la sua scomparsa, ebbe inizio la guerra progettata da Paolo III e Carlo V contro i principi protestanti che avevano aderito alla Lega di Smalcalda. Le ostilità durarono meno di un anno e videro la schiacciante vittoria dell’imperatore, che nella battaglia di Mühlberg (1547) fece prigioniero Federico di Sassonia (detto “il Saggio”), grande protettore di Lutero. Ma il protestantesimo di stampo luterano si sarebbe rivelato tutt’altro che sconfitto. Dopo un secolo di lotte sanguinose, la pace di Westfalia (1648) modificò il principio del “cuius regio, eius religio” (l’obbligo per i sudditi di conformarsi alla religione del sovrano), garantendo la libertà di culto ai cattolici, ai luterani e ai calvinisti.
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