LeBron James e la sindrome di Achille
Come nasce una leggenda della pallacanestro? Studiare i dubbi intorno al giocatore dei Cavaliers per indagare qual è la stoffa del campione
Cosa serve per fare un campione di pallacanestro? Anzitutto, si parte dal fisico. Meglio essere alti, tanto, diciamo almeno due metri. Poi bisogna essere fortissimi e veloci al tempo stesso. Agilità, destrezza, esplosività (termine orribile, ma rende), elevazione. Non c’è dote fisica che sia di troppo a un giocatore di basket. Bisogna saper saltare più in alto di tutti, e un secondo dopo abbassare il baricentro a terra e scivolare con rapidità di piedi per marcare il proprio avversario. Il miglior giocatore di basket ha i muscoli di un felino e la possanza di un grande mammifero. La seconda caratteristica di un grande giocatore di basket è la vista. Serve di due tipi: periferica, per vedere negli angoli a cui gli altri non arrivano (è stato studiato: i campioni hanno un’apertura visiva molto più ampia di noi mortali) e predittiva, per vedere in anticipo quali saranno le prossime mosse del gioco.
La terza caratteristica è mentale. Qui si entra in un terreno scivoloso, perché è impossibile definire la stoffa di un campione. Ogni grande della storia dello sport, non solo del basket, ha la sua. Si chiama leadership, desiderio di competere, spirito del maschio alfa, attitudine vincente, e così via. A volte si dice: questo giocatore ha cuore, e tutti capiscono.
Nel 1965 John McPhee, scrittore e saggista americano vincitore del Pulitzer, scrisse un articolo monstre per il New Yorker che è un punto di riferimento per capire cos’è davvero la stoffa del campione. Negli anni Sessanta la pallacanestro, perfino in America, era praticamente un altro sport rispetto a quella che è oggi. A guardare i vecchi video sembra di vedere giocare dei bambini troppo alti, in buona parte bianchi, sgraziati e lenti. Per questo il pezzo del New Yorker, a più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, ha un qualcosa di seminale: una descrizione del moderno campione nel momento in cui si andava formando la moderna pallacanestro. Curiosamente, la persona su cui McPhee concentrò le sue attenzioni non si rivelò un vero campione. Quando il New Yorker scrisse di lui, Bill Bradley aveva 22 anni, era il miglior giocatore di college del mondo e aveva un futuro da stella. In realtà, una volta nell’Nba, si rivelò un grande cestista, degno di entrare nella Hall of Fame, ma non una leggenda assoluta. Oggi è ricordato per la sua carriera politica (è stato senatore democratico per quasi vent’anni) quasi quanto per quella da cestista.
Bill Bradley
Nonostante questo, McPhee dedica al giovane Bradley alcuni dei passaggi più belli mai scritti sullo sport della pallacanestro: “Ogni volta che un giocatore di pallacanestro fa un passo, un’intera e nuova geometria di azioni si crea intorno a lui. In dieci secondi, con o senza la palla in mano, un buon giocatore può immaginare centinaia di alternative e, a partire da queste, fare una mezza dozzina di scelte mentre si muove. Un grande giocatore vedrà ancora più alternative e farà ancora più scelte, e questa visione multiradiale delle cose può estendersi fuori dal campo da gioco e nella sua vita”. Questa è una buona definizione di cos’è un campione: qualcuno in grado di vedere più scelte degli altri davanti a sé e di fare più velocemente degli altri la scelta giusta. In un altro passaggio, McPhee descrive come uno degli elementi del campione è “il senso di dove sei”, locuzione che fornisce il titolo all’articolo. A un certo punto Bradley inizia a tirare a canestro senza guardare, fa sempre centro, e all’intervistatore stupito risponde: è facile, a un certo punto quando giochi a basket sviluppi un senso di dove sei, un senso della presenza così preciso da poter fare canestro anche senza guardare il ferro.
Ci sono pochi uomini al mondo che possiedono le caratteristiche del campione tutte insieme, o quasi. Di solito, ogni generazione ne ha uno. Nella nostra epoca, nella pallacanestro, il prescelto si chiama LeBron James, il giocatore più forte di questo millennio appena iniziato. Questa non è una novità per nessuno. LeBron James ha 32 anni, è alla sua quattordicesima stagione nell’Nba, ha vinto 3 campionati ed è stato nominato 4 volte come miglior giocatore dell’anno in Nba, dunque del mondo. Ha battuto una serie incredibile di record storici, l’ultimo dei quali una settimana fa (maggior numero di punti mai segnati nei playoff). Vittorie, talento e record lo collocano nell’Olimpo della storia del basket, alla pari con gli altri nomi che tutti conoscono, da Michael Jordan in giù. Ma c’è un problema. Al contrario degli altri dèi del basket, LeBron James, che è nella piena maturità della sua carriera, non ha ancora ricevuto l’incoronazione finale. Secondo molti, potrebbe non arrivare mai.
In questi giorni i Cleveland Cavaliers, la squadra di LeBron James, giocano le finali dei playoff Nba contro i Golden State Warriors per il terzo anno di fila, una specie di trilogia dello scontro tra le squadre più forti degli ultimi anni. La prima finale l’hanno vinta i Warriors, la seconda i Cavaliers, dopo una rimonta pazzesca, questo è l’anno dello spareggio. I Warriors sono spettacolari e talentuosi, da molti definiti il team del futuro. Hanno due stelle di prima grandezza come Steph Curry e Kevin Durant, altri due giocatori fortissimi come Draymond Green e Klay Thompson, più una squadra di gregari di talento da fare invidia. Sono i favoriti secondo tutti i pronostici. Cleveland è meno profonda, meno talentuosa (anche se ci sono due stelle, Kyrie Irving e Kevin Love) e dovrebbe partire svantaggiata, ma ha LeBron James, il giocatore più forte del millennio. Per lui potrebbe essere il momento dell’incoronazione, i commentatori dicono che in queste finali “c’è in ballo la sua legacy”. Ma appunto, non tutti sono convinti.
Partiamo dalle nozioni essenziali: per arrivare alle finali Nba, sia i Cleveland Cavaliers sia i Golden State Warriors hanno dovuto superare tre turni di playoff. Ciascun turno, finali comprese, si gioca alla meglio delle sette partite: passa la prima squadra che ne vince quattro. Questo significa che per arrivare a disputare la finale, i Cavaliers hanno giocato 13 partite di playoff, i Warriors 12 (Golden State ha vinto tre turni per 4-0, Cleveland ha perso una partita). La prima gara delle finali si è giocata giovedì notte, hanno vinto i Warriors 113 a 91. James ha giocato bene, ma la squadra di Golden State ha moltissimi giocatori di talento e lo ha dimostrato. L’eventuale gara sette si giocherà il 18 giugno: più di due settimane per decidere il vincitore ultimo.
Al contrario delle finali a partita secca di altri sport, i playoff Nba, e specie le finali, sono un processo lungo e spossante, spesso straziante, che non lascia spazio al colpo di fortuna o ai cali di forma, e mostra il nerbo di ciascuna squadra e di ciascun giocatore. Ora, secondo molti tifosi di pallacanestro in tutto il mondo, secondo molti esperti e molti ex giocatori trasformatisi in analisti, LeBron James, il giocatore più forte del millennio, è privo del nerbo che serve per diventare un vincente definitivo. LeBron ha già vinto, e molto, ma non abbastanza a parere dei suoi critici. Ha dimostrato di saper trascinare una squadra da solo sulle sue spalle, ma per molti questo non è sufficiente.
La questione LeBron è nota da tempo agli appassionati di pallacanestro, ed è uno degli argomenti più divisivi di tutto lo sport. Mai nessun giocatore ha avuto così tanto talento e suscitato così tanti dubbi al tempo stesso. Ogni grande dominatore dello sport a un certo punto della sua carriera ha ricevuto l’investitura di migliore. Negli anni Ottanta, il duo rivale formato da Larry Bird e Magic Johnson è stato considerato il migliore della sua epoca senza che nessuno facesse storie. A un certo punto degli anni Novanta Michael Jordan è stato acclamato il migliore di sempre punto-e-basta. Prima c’erano stati Bill Russell, Wilt Chamberlain, Oscar Robertson. LeBron gioca nella loro stessa lega, quella delle leggende dello sport, ma dopo 14 stagioni una sua incoronazione senza ombre sembra ancora lontana.
Sul Wall Street Journal la scorsa settimana Jason Gay se l’è chiesto esplicitamente: “Stiamo ancora dubitando di LeBron James?”. Gay faceva riferimento a una partita persa dai Cavaliers nel penultimo turno di playoff, disputato contro i Celtics di Boston. La partita si è giocata dieci giorni fa, è stata l’unica sconfitta dei Cavaliers in tutti i playoff, ma LeBron ha segnato appena undici punti, una miseria per i suoi standard, ed è apparso spento e imbambolato. Si è scatenato il putiferio, con analisti e tifosi immediatamente pronti a mettere in discussione la leadership e il cuore del campione. “Michael Jordan non ha mai segnato solo 11 punti in una partita di playoff”, è stata la critica più frequente. E’ vero, ma erano altre epoche, altri avversari, altri campioni. Jordan, soprattutto, non ha mai dovuto affrontare la quantità immane di scetticismo riversata su LeBron.
Fin da quando, quattordici anni fa, LeBron James è entrato in Nba con la fama del predestinato pronto a prendersi il trono di Michael Jordan come miglior cestista della storia, per lui non c’è stata tregua. Critici, hater, scettici: LeBron non ha mai avuto margine di errore. Una contesa famosa è quella con Charles Barkley, campione degli anni Novanta trasformatosi in commentatore televisivo. Da anni, Barkley critica LeBron in maniera spietata, accusandolo di non avere la stoffa del campione. “Inappropriato piagnone”, l’ha definito qualche mese fa in diretta tv (LeBron rispose: “Sei solo un hater”). Su Facebook, i gruppi critici di LeBron sono numerosi quanto i gruppi dei fan, se non di più. E ogni passo falso è atteso come il sintomo della caduta. Questa settimana, i muri della sua casa di Los Angeles sono stati imbrattati con un insulto a sfondo razziale. Non succedeva da anni a nessun altro giocatore Nba.
LeBron ci ha messo del suo, è vero. E’ diventato un professionista a diciotto anni con la fama di essere il migliore del mondo, e non ha mai nascosto di esserne consapevole. Ha fatto scelte controverse e contestate, come quella di abbandonare i suoi Cavaliers per andare a giocare al caldo a Miami (poi è tornato), ma la sua alla fine è la sindrome di Achille: a scuola, quando si studiano i poemi omerici, l’eroe acheo è così forte che tutti tifano per Ettore.
E’ questa sindrome di Achille che fa sì che un atleta grandioso, al pieno della sua maturità, già carico di vittorie e di record, sia ancora considerato come un neofita che ha tutto da dimostrare. Alla sua età, Michael Jordan era già una divinità vivente e molte leggende del passato si avviavano verso la fine di una carriera gloriosa e senza contestazioni.
LeBron James è antipatico, sa essere odioso, ha uno stile di gioco troppo muscolare che agli occhi dei tifosi appare poco aggraziato, ha commesso più errori sul campo da gioco di molte altre leggende del basket. Ma nessuna di queste condizioni è sufficiente per giustificare lo scetticismo che lo circonda. La ragione, semplicemente, è che è troppo forte, e sul campo esprime questa forza con così poca fatica da risultare quasi insopportabile. LeBron è colpito dalla sindrome di Achille anche quando la sua squadra non è la più forte in campo. Succede in queste finali: i Golden State Warriors sono un superteam. Erano fortissimi l’anno scorso, quando hanno fatto il record per il maggior numero di partite vinte in stagione regolare, e quest’anno hanno aggiunto un altro giocatore fortissimo, Kevin Durant. Sono loro i chiari favoriti per la vittoria del campionato più importante del mondo, e dunque le simpatie che spesso si accordano allo sfavorito che deve correre in salita dovrebbero andare ai Cavaliers e a LeBron. Niente affatto. Se Achille fosse stato un troiano, ugualmente nessuno l’avrebbe amato. E’ questa l’ultima caratteristica del campione: spesso è da solo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano