Al lupo, pandemia
Gli allarmi dell’Oms sono sempre a fin di bene, ma qualche volta del tutto immotivati e irresponsabili. Come nel caso del morbillo
D’accordo, non si spara sul pianista, mai, anche se il pianista è un cane. Però, ammettiamolo, ci sono pianisti che ti fanno prudere le mani. Il pianista che più fa prudere le mani, tanto non azzecca gli accordi più importanti, è anche il più insospettabile: l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Eppure non per questo l’Oms è inutile o andrebbe chiusa, come azzarda qualcuno. Il compito dell’Oms, infatti, procedendo nel tempo, è venuto via via evolvendosi. Allertare e indirizzare rispetto agli attacchi epidemici, indubbiamente; dare la linea sulle grandi questioni sanitarie, d’accordo; coordinare gli interventi internazionali in campo medico-sanitario, pacifico anche questo. Ma quanto ad azzeccare le previsioni per mirare meglio linee e interventi, beh, in questo la mission dell’Oms ha indiscutibilmente subito un mutamento di rotta. Per dirla in soldoni: all’Oms importa allarmare bene assai più che non prevedere bene. Fare previsioni sbagliate anziché giuste? Non è il massimo della vita, ma si può capire con un paio di centinaia di paesi membri molti dei quali non hanno né sistemi sanitari né sistemi informativi ad essi collegati capaci di fornire dati e indicazioni attendibili; e a maggior ragione si può capire quando si è alle prese con agenti infettivi magari sconosciuti e, almeno all’apparenza, assai poco raccomandabili. Ma non dare un allarme che dovrebbe essere dato? O anche soltanto allarmare poco quando si dovrebbe allarmare molto? Ecco, sono questi gli errori che l’Oms non può permettersi di fare perché sono questi gli errori che, se li facesse, non verrebbero perdonati. In un mondo tanto affollato, e dunque più esposto e fragile proprio sotto il profilo della salute (anche se ne gode di una decisamente buona, la migliore di sempre), l’attendibilità delle previsioni passa in seconda linea rispetto alla tempestività nel riconoscere l’avanzare di rischi e pericoli regionali e, a maggior ragione, planetari, e nel mettere in campo tutte le azioni, i programmi, i provvedimenti per arginarli e batterli.
L'attendibilità
delle previsioni passa
in seconda linea rispetto alla tempestività
nel riconoscere l'avanzare di rischi
e pericoli
Insomma, se pure suona maluccio, il pianista ha un suo perché. Fa un gran chiasso, è vero, ma lo fa a fin di bene, per richiamare l’attenzione anche dei più distratti e di quelli che siedono ai tavoli più lontani. Dunque non mettiamo mano alle pistole, ci mancherebbe. E tuttavia non tutto si può perdonare al pianista Oms. A volte esagera in modo insopportabile, il chiasso è infernale e non si capisce più niente, lo spartito, anche il più grezzo, da banda di paese, va a farsi benedire. E questo non va bene neppure per la più importante agenzia sanitaria che esista e che ha un vero e proprio terrore di andare a schiantarsi, trascinando il mondo con sé nell’abisso, contro un iceberg che d’improvviso le si pari davanti quand’è troppo tardi per evitare l’impatto.
“Il mondo è all’inizio di una pandemia influenzale”. Era l’11 giugno 2009 quando, preceduta da queste secche parole pronunciate dalla sua direttrice generale Margaret Chan, l’Oms innalzò il livello d’allerta alla fase sei (su sei) decretando l’inizio della prima pandemia dopo 41 anni. Un anno dopo l’inizio di quella che secondo non pochi esperti, anche e proprio dell’Oms, avrebbe potuto essere un’influenza ancora più disastrosa della spagnola del 1918, che fece milioni di morti, il bilancio dell’influenza suina era tutt’altro che quello temuto: 18.156 decessi, un numero decisamente inferiore a quello della più blanda delle influenze stagionali.
Il comportamento tenuto dall’Oms nell’occasione fu tale da mettere a nudo ben più di un trattato tutta quanta la sua filosofia, quella appunto dell’allarme che non può essere dato che nella sua forma più decisa, urlata, esagerata, sopra le righe, per essere ascoltato; ma fu tale anche da mostrare il formidabile tallone di Achille di quella stessa filosofia. Se infatti l’allarme è eccessivo o addirittura sbagliato proprio la tempestività e le forme con cui viene lanciato capillarmente dall’Oms garantiscono che l’eccesso e l’errore si propagheranno al mondo intero con la diffusività e la velocità che la peggiore delle epidemie non si sogna neppure.
L'atto d'accusa
del British Medical Journal: la linea
sulla suina dettata
da consulenti legati anche alle case produttrici di vaccini
Subito dopo l’apparire dei primi casi di suina in Messico, nel maggio 2009 l’Oms cambia la definizione di pandemia. La nuova definizione, in vigore ancora oggi, si basa sulla capacità di diffusione di un “nuovo” virus influenzale, e non sulla severità delle sue conseguenze. Ma se pure è vero che il riferimento al “numero enorme” dei morti della precedente definizione fu cassato, la difesa dell’Oms su questo punto, cioè cheè “davvero possibile stabilire globalmente la severità e l’impatto generalesolo alla conclusione di una pandemia”, non è senza qualche ragione. E tuttavia una ricalibratura della definizione di pandemia che accennasse anche alla severità di quel che si profila sarebbe necessaria, per evitare almeno sopravvalutazioni clamorose, e dannose, come quella della suina.
L’atto di accusa più bruciante e autorevole fu quello messo nero su bianco dal British Medical Journal, la più importante rivista medica inglese. Tra le tante imputazioni mosse all’Oms c’era infatti quella di essersi fatta dettare la linea da consulenti pagati profumatamente ma a loro volta legati da ricche consulenze anche con le case produttrici di vaccini. Il British Medical Journal, del resto, ne aveva di motivi per lanciare le sue accuse: il 2 luglio del 2009 il ministro della Sanità inglese Andy Burnham non aveva esitato a dichiarare che la pandemia avrebbe provocato entro la fine di agosto 100 mila nuovi casi al giorno nella sola Inghilterra. Previsione catastrofica, e nemmeno lontanamente sfiorata, che spinse il governo inglese ad acquistare ben 120 milioni di dosi di vaccino, due dosi per ogni abitante. Quella delle due dosi per abitante fu anche la scelta di altri paesi, tra i quali la così, di solito, accorta Svizzera. L’Italia dimostrò più buon senso, e si fermò a 24 milioni di dosi, delle quali però il servizio sanitario riuscì a inocularne appena un milione, clamorosa dimostrazione del fossato tra proclami ministeriali pugnaci da un lato e medici nient’affatto convinti della bontà dell’operazione dall’altro.
L'epidemia di Ebola
del 2014 e l'ipotesi (azzardata) che il virus potesse trasmettersi
per via aerea
e approdare in Europa
Le responsabilità per la vera e propria psicosi che si scatenò nel mondo intero, e in modo particolarissimo proprio in quello occidentale più avanzato dal punto di vista medico-sanitario, furono ricostruite dalla Commissione sanità del Consiglio d’Europa – e anche ad altri livelli – che arrivò alla conclusione che furono “in primo luogo” le stesse autorità sanitarie, segnatamente internazionali (il riferimento all’Oms era tutt’altro che velato), a creare un clima psicologico da assedio. I grandi mezzi di comunicazione di massa svolsero un ruolo di propalatori e moltiplicatori di ogni allarme, ma solo conseguentemente a quello svolto dalle autorità sanitarie. L’Oms se la cavò, beninteso, tant’è che non un solo dirigente di grado elevato fu sollevato dal suo incarico, ma non senza aver passato quello che si dice un bruttissimo quarto d’ora. Che però non pare essere servito a molto. E qui, nel reiterarsi di errori sempre dello stesso tipo, si può meglio osservare, e capire, come proprio questi errori facciano parte della natura dell’organizzazione, ne rappresentino una componente insostituibile – anche se certamente potrebbe essere contenuta un po’ meglio di quanto non si riesca a fare.
Si prenda l’epidemia di Ebola. Così come l’influenza suina del 2009 aveva preso il via da mega allevamenti di suini delle multinazionali in Messico, ovverosia in contesti ecologici e ambientali gravemente deteriorati, l’epidemia di Ebola si sviluppò a partire dall’agosto del 2014 in ambienti umani segnati dalle condizioni di vita, in particolare quelle igienico-sanitarie, forse più scadenti e deficitarie del globo. La Sierra Leone è letteralmente l’ultimo paese del mondo per reddito pro-capite e speranza di vita. Liberia e Guinea, gli altri due paesi colpiti, stazionano in fondo alla graduatoria mondiale. Il virus Ebola era una vecchia conoscenza. Del suo alto livello di letalità si sapeva al punto che romanzi e film di qualche successo ne avevano ampliato la fama sinistra. Ma si sapeva anche della sua scarsissima capacità di diffusione. Ebola si trasmette per contatto, e contatto pesante, marcato, dei corpi, nient’affatto per trasmissione aerea. Tant’è che, nonostante i tanto conclamati rischi che il virus superasse le sponde del Mediterraneo per approdare in Europa, e segnatamente nei paesi mediterranei, dalla Spagna alla Grecia, con l’Italia proprio al centro, niente ci fu che facesse lontanamente temere che quello europeo sarebbe stato il punto di approdo dell’epidemia africana. Eppure, quando già l’epidemia mostrava di non sfondare – tant’è che avrebbe infettato a stento l’uno per mille degli abitanti dei tre paesi africani – Anthony Banbury, capo della missione in Africa occidentale, e dunque un esponente di primissimo piano nella lotta all’Ebola, dichiarava espressamente che “il virus Ebola potrebbe mutare e diffondersi per via aerea se l’epidemia non verrà tenuta sotto controllo velocemente”. La diffusione per via aerea moltiplica per cento quella per contatto diretto dei corpi, dunque l’allarme era serio. Ma totalmente immotivato; peggio, irresponsabile (quali e quante mutazioni, e in che arco di tempo, occorrono a un virus per cambiare totalmente la sua propria natura? E se Ebola fosse diventato aereo, avrebbe mantenuto la letalità dell’Ebola terragno? E’ un fatto che non si conoscono virus che hanno a un tempo un’alta diffusività e un’alta letalità). Che bisogno c’era d’un allarme del genere? Nessuno. Si trattò dell’ennesima dimostrazione del carattere in sé allarmistico e drammatizzante dell’Oms, che del resto non aveva risparmiato su Ebola alcuna previsione pessimistica. Il punto è, come si diceva, che proprio certe “sparate” sono quelle che tendono a influenzare di più i paesi membri. Una riprova? Mentre l’attenzione su Ebola cominciava a scemare, il ministero della Salute provvedeva ad attivare nel novembre del 2014 “il numero di pubblica utilità 1500 per rispondere ai quesiti dei cittadini sull’epidemia da virus Ebola” – quasi che il virus fosse in quei giorni in azione anche nel nostro paese o potesse sempre, e con facilità, arrivarci. Il numero pubblico sul quale furono dirottati cento tra operatori e professionisti sanitari riuscì a racimolare complessivamente la miseria di 150 telefonate, alla media di una telefonata a operatore ogni tre giorni di attività di quel numero, a riprova di una legge empirica che in quest’ambito non teme smentite: allarmismo e drammatizzazione debbono pur sempre nutrirsi di qualche “risultato”, in termini di casi e soprattutto di morti per una qualche malattia tanto strombazzata, altrimenti decadono a grande velocità e lo scetticismo che ne consegue si prolunga nel tempo andando a depositarsi anche sulle epidemie e le pandemie vere e presunte a venire.
Dunque nessuno nega che l’Oms debba mettere in allerta il mondo, quando si profila un qualche attacco virale o batterico sotto forma di epidemia o, peggio, di pandemia. Che l’Oms sia portata a esagerare la virulenza di un virus o la diffusione di un’epidemia, anche questo si può capire: i rischi della sottovalutazione sono rischi più pesanti e dalle conseguenze ben più gravi di quelli che può comportare la sopravvalutazione. Dei due-tre miliardi di vaccini contro la suina acquistati dai vari governi per una spesa totale, secondo il Rapporto della commissione sanità del Consiglio d’Europa del 2010 redatto a epidemia conclusa, di 18 miliardi di dollari si possono in fondo valutare gli sprechi, ma non contare i morti in più. I morti in più si contano quando un’epidemia non viene sollecitamente fronteggiata – e questo fa la differenza, non lieve, con gli sprechi, soprattutto in denaro, cui dà luogo una epidemia sopravvalutata.
Impossibile che si siano registrati nel 2015, come dice l'Oms, 195.762 casi di morbillo nel mondo
con 134.200 morti
Ma ci sarà pure, o almeno dovrebbe esserci, un limite all’eccesso, alla sparata, all’improvvisazione, alla grossolanità. Ed è questo limite che l’Oms dovrebbe meglio studiare e approfondire, per dotarsene in tutta la sua attività come ci si dota di una bussola per non rischiare di andare “troppo” fuori strada. Mentre l’Oms corre proprio questo rischio: di uscire troppo dalla carreggiata delle cose reali e del buon senso, volgendo il buon servizio che svolge non raramente se non proprio in un pessimo certo in un mediocre servizio. E si prenda, in chiusura, un argomento che sembra stare così a cuore a tanti italiani oggi: il morbillo. Ora, sul morbillo le valutazioni di letalità, date dal rapporto tra morti e ammalati di quella malattia, convergono da tempo attorno all’uno per mille: un morto ogni mille ammalati. Valutazione che non è mai stata aggiornata ma che appare, oggi, alquanto sovrastimata. In Italia non ci sono morti di morbillo da quindici anni e trentamila casi a questa parte, né ce ne sono in tutta l’Europa mediterranea, occidentale e del nord. Forse ci sono aree in cui il tasso di letalità può essere leggermente più alto dell’uno per mille, ma è sicuro che ci sono aree dove esso è, e non di poco, più basso. Cosicché alla luce di queste valutazioni appare più che improbabile del tutto impossibile che possano essersi registrati nel 2015, come dice l’Oms, 195.762 casi e 134.200 morti di morbillo nel mondo, per un tasso di letalità della malattia del 68,6 per cento. Se così fosse, di 10 casi di morbillo 7 avrebbero avuto un esito infausto. La peste nera del Trecento, tanto per fare un paragone autorevole, toccò a stento questo livello di letalità. Confesso una debolezza: non ho neppure letto il commento che porta a questa valutazione dei morti di morbillo, ho perso la pazienza prima. Non si dovrebbe arrivare a perdere la pazienza in certe occasioni, lo riconosco, ma anche il pianista non può pensare di strimpellare quel che gli passa per la testa e suonare coi piedi, a meno che non sia un nuovo Jerry Lee Lewis. Ma Jerry Lee Lewis aveva “great balls of fire”, come suggerisce il titolo del suo maggior successo, mentre al pianista, a strimpellare certe dissonanti scempiaggini, le great balls of fire gira e rigira gliele scaricano addosso. Nonostante tanto di cartelli ammoniscano di non sparare sul pianista.
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