Antropologia di un adulterio
Dallo spirito alla carne e ritorno, un viaggio di scoperta dell’amore. L’ultimo romanzo di Tedoldi
Come riflesso in una sfera luccicante, simile all’effetto dello specchio convesso nel ritratto Arnolfini di van Eyck, un volto affiora: è una faccia singolare, di cui solo gli occhi e le labbra paiono vivi, il resto sembra agglutinato in una pasta bianca, un mastice o una schiuma solida, o forse una maschera. Impercettibilmente, una voce femminile bassa e monotona, uscita da quelle labbra smorte, invia un richiamo o un ordine, e qualcuno, una corporatura magra, la faccia tirata in cui a intermittenza si mostrano grandi occhi celesti e attenti, si avvicina con un vassoio di legno unto, una lampada di vetro dalla forma a campana e una pipa in legno e oro sopra. Il fumo dell’oppio offusca la visione; quelle sagome, non uomini, non Dei, quelle creature seminaturali – i protagonisti di Tabù, ultimo romanzo dello scrittore Giordano Tedoldi (dall’8 giugno in libreria per le edizioni Tunué, 361 pp., 14,90 euro) svaniscono.
Come statue scolpite
nel marmo, due figure siedono una di fronte all'altra. La postura
è ieratica, egizia;
i gesti anomali
Come statue scolpite nel marmo, due figure – provengono da un passato di pietra – siedono una di fronte all’altra. La postura è ieratica, egizia; i gesti anomali, antichi ma usano strumenti moderni: è la donna di poco fa, Emilia, e ha in una mano la mano di un uomo. Anche stavolta le sue labbra, labbra rosso scarlatto dipinte fresche di rossetto, si muovono: “Non ho mai usato quest’affare. È macabro”, dice. Si riferisce a un tagliaunghie col quale si appresta a spuntare le unghie a lui. E lui, che la vede intenta a manipolargli, accorta, con infinite sfumature di tocco le dita, trova il coraggio di confessarle: “Ti ho sempre amata. Da prima. Sono venuto prima io di Domenico”. Domenico è il marito di lei. Emilia scuote la testa. Comincia a usare quello strumento comune, che in questa scena diventa inedito scandaglio di sentimenti celati, le trema un po’ la mano, lo ferisce più di una volta. Il versamento del sangue, ora più innocuo, ora più cruento, è un tema conduttore, un segnale che annuncia l’aprirsi di nuove dimensioni. Lo prepara al sacrificio, “Vai avanti per favore, che il sacrificio si compia fino all’ultimo”, il sacrificio dell’amore. E se è vero che non esistono amori felici, come recita un verso di Aragon, che non esiste amore senza sofferenza, senza rinuncia, senza sangue, è anche vero che l’amore, nelle pagine di questo libro, è l’unica forma che dobbiamo dare a tutte le cose.
Come sempre accade in Tedoldi (nel precedente romanzo I segnalati la protagonista aveva fortuitamente infranto il quinto comandamento provocando la morte di un bambino di nove anni e l’intero libro si snoda come un percorso di espiazione che culmina in un finale in crescendo, accompagnato dal costante risuonare delle sinfonie di Mahler) anche in Tabù la trama, l’azione, è inscindibile da un movimento tellurico di trasformazione morale, in cui tutto il mondo interiore dei personaggi cangia e si destabilizza. L’incipit parte da un apparente stato di quiete, ed è quello di un romanzo borghese in una città che è un montaggio di varie capitali europee: una sera, a una festa, il protagonista, Piero, incontra dopo molti anni Emilia, moglie del suo migliore amico Domenico. In quella circostanza si accorge di averla sempre amata e di desiderarla. O forse così decide, per sfida, per avventura, servendosi delle circostanze favorevoli. Il giorno dopo, approfittando della prolungata assenza di Domenico, impegnato in un lungo viaggio per tenere alcune conferenze su un suo recente, acclamato saggio che lo stesso autore definisce “una autopsia del mondo”, Piero si presenta a casa di lei. Qui si svolge una scena di corteggiamento in cui Piero sembra esitante, trepidante come un adolescente, e, quando pranzano insieme, le dichiara di amarla quasi con freddezza, distrattamente. La sua seduzione appare inseguire un fine che va al di là della conquista di Emilia, oppure è la sua tattica, quella del suo cuore che è “un dittatore pazzo”, a farlo comportare così proprio con la donna che più lega il suo desiderio?
Come un sogno ricorrente, Emilia
non passa. Ha il potere di attraversare il varco che divide Piero da tutti gli altri uomini
Come un sogno ricorrente, Emilia non passa. Ha il potere di attraversare il varco che divide Piero da tutti gli altri uomini, il suo corpo resta incorrotto nella corruzione del misterioso male che, come caso, stigma di eccezionalità e peccato, la colpisce. Emilia è anche oltre la vecchiaia, oltre i segni del tempo, e lo azzera: “Non so nemmeno se è viva o morta, o se somiglia ancora minimamente a com’era quando siamo stati insieme. Ci ho provato a dimenticarla, perché era una storia che non poteva andare avanti, ma dopo un periodo di tranquillità, è tornata a perseguitarmi”, dice Piero. “E cosa fate, quando la sogni?” gli domanda un’amica. “Le bacio le ossa, che sono scoperte ma non fanno schifo. Bacio le labbra, da sole, non ha il naso e nemmeno gli occhi. Mi trovo nelle mani la bocca, e la bacio a lungo, dicendo il suo nome”. Emilia è dunque il potere magico, evocativo, assoluto di un nome, di una formula che fa esistere la bellezza qui e ora, nel momento stesso in cui la si è finita di pronunciare. Ma non è ricordo, non c’è il tema dell’amore lontano e nostalgico se non di sfuggita: la sua presenza, anche quando non fisicamente concreta, è sempre nella narrazione come fiamma di una torcia che, sia pure sullo sfondo, non si estingue mai. Emilia batte alla tempia orologio. Emilia è un suono attutito permanente, una pulsazione mai smorzata. “Ogni volta che ho tentato di descriverlo, mi è sembrato di falsificarlo. In rete ho ascoltato un campione vastissimo di battiti cardiaci, e nessuno suonava come io sentivo quello di Emilia nella mia testa... sembra un suono filtrato, ridotto in scala, come il fragore di una cascata udito da un sordo. Se libero la fantasia dietro quel suono lontano, mi scavo la via tra le membrane, il costato, viaggio nella vita nascosta di Emilia. Quello che per altri è il fungo psichedelico, per me è il battito di un cuore, mi allarga sotto gli occhi ferite, mi apre cavità buie, mi mostra fibre che si contraggono come artigli”.
Come in un tableau vivant, altri battiti risuonano. Quello di una bambina: è sul letto, abbracciata alla madre. Saldata in modo così stretto, da non poterle separare. Il lenzuolo è attorcigliato su di loro, completamente bagnato, il bianco del cotone è diventato grigio scuro. Eppure la finestra è chiusa, non può essere entrata la pioggia. Il materasso, tutto il letto è zuppo, e il liquido cola dai bordi per terra, sul tappeto, e dentro i mocassini della piccola. Si odono voci bisbigliare: “È il liquor filialis, che bello, che cosa magnifica, è la prima volta che lo vedo”. “Anche io, vorrei che venisse fuori sempre. Ne esce così tanto che le ha unite”. Madre e figlia sono diventati un gruppo plastico, il legame di sangue – altro tema ricorrente del romanzo – ha perso la sua astrazione per tornare a diventare filiazione concreta, maglia che contiene in un inestricabile bozzolo protettivo la sensibile debolezza carnale. Madre e figlia diventano come una turritella, la conchiglia affusolata che “semina amore nel cuore di chi l’ha meritato”. Sylvia Plath scriverà in una delle sue poesie più celebri: “Cullandomi mi chiusi / come una conchiglia”.
Come un Bestiario medievale i gabbiani di Tabù hanno ali di metallo. La natura, abbiamo detto, è in costante metamorfosi. La barriera tra minerale, vegetale e animale, tra mondo e uomo, è in magmatica fusione, in vitale scambio. Non abbiamo qui un “protagonista” che, come asta fissa di compasso, vede e riferisce: egli vive immerso in ciò che lo circonda. Piero è a cavallo, i gabbiani lo sorvolano e, “più che lanciare i loro versi inquieti, sembrano tintinnare metallici”; ce n’è uno che plana a scatti e, colpito dal sole, somiglia, con la sua sagoma affusolata e tagliente, a “un rottame d’oro”. Già in Io odio John Updike, opera prima di Tedoldi, era viva la contaminazione tra mondo umano e mondo animale, o meglio, l’appartenenza di entrambe le categorie a un mondo unico, un ordine cosmico eracliteo.
… è il battito di un cuore, mi allarga sotto gli occhi ferite, mi apre cavità buie, mi mostra fibre che si contraggono come artigli
Come un’onda la carcassa di un cavallo annegato, scaraventato dal mare si ferma su una spiaggia: ha pelle così dura da somigliare alla corteccia di un albero e, a poco a poco, si trasforma in scoglio conficcato nella sabbia. È la spiaggia di Xanadu, la comune dove Piero ha cercato l’oblio nei confronti di Emilia. In quel duomo di delizia ogni calcolo è detronizzato, si conosce e si ama attraverso i sensi: odori, sapori, tatto, olfatto. Leggendo questa sezione dionisiaca, si rammenta Auden: “Se un’attraente forma vedrai / dalle la caccia / E abbracciala, se puoi. / Sia una ragazza o un ragazzo / senza vergogna, sfrontato, immediato. / La vita è breve, così godi d’ogni contatto cha la tua carne / al momento muova. / Non c’è vita sessuale nella tomba.” Ma di nuovo il demone dell’instabilità afferra Piero: quando Eros diventa solo l’altra faccia di Thanatos, egli abbandona quel vano paradiso del piacere, e in sella al cavallo fidato torna a salire per il sentiero della sua acropoli, in cima alla quale è installata – vera o simulacro poco importa – Emilia.
Come in un’incisione rupestre, ma che anacronisticamente raffiguri scene di vita contemporanea, o un papiro che al Libro dei Morti affianchi illustrazioni quotidiane della nostra vita presente, le “scene” del romanzo sono simultaneamente testimonianze di antichi regni e odierne città; apparizioni di uomini arborei e di maliziose ragazze dal taglio corto alla moda. È come se nei dialoghi echeggiassero lontane conversazioni in lingue perdute, la cui sola musica lascia intuire il significato. “Noi cambiamo, ma solo apparentemente. Perdiamo i capelli, i nostri occhi si sprofondano in orbite sempre più rosse, subiamo deformazioni per niente piacevoli. Ma se abbiamo il dono della memoria, vuol dire che è nella nostra natura guardare a tutta la nostra esistenza come una simultaneità. Siamo strutturati per considerare il passato non meno dell’attimo presente”.
Come in un “luogo” di un teatro rinascimentale della memoria, è posto un sacerdote che depone una corona di legno bianco sul capo di un ammalato, è un gesto sciamanico: il miracolo si compirà. Altrove, una donna entra in un desolato santuario che, come la tomba di Chateaubriand a Saint-Malo, si trova su un isolotto dove, quando sale la marea, è sbarrato il passo. Qui, dalla statua lignea della Vergine che nessuno venera più, la corona viene strappata con violenza da una donna-amazzone che ha mani “uscite dallo scalpello di Rodin”. Le antiche figure sacre perdono i loro ornamenti e le loro insegne perché diventino ispirazione di nuova vita, altrove.
Come un richiamo, si distingue la voce di una preghiera, attraverso la fitta polifonia di orazioni e litanie della chiesa di Santa Maria in V**: nella cappella della Madonna del miracolo, una giovane inginocchiata – “fantasma che l’aria qui cristallizza trasparente”, come recita il sonetto di Mallarmé da Piero prediletto – piange non l’amante, ma la storia universale dell’amare umano. L’elemento sacro e religioso in Tabù non è mai letterale, né è impossibile trapianto di dimensioni mitiche nell’ordine civile e razionale. Dunque i luoghi di culto entrano in promiscua relazione con i templi del piacere, negli spazi di preghiera risuona sempre il tributo alla vegetazione e all’erotismo, da cui, tramite la generazione, nasce la creatura capace di parola, la sola che può mettersi a colloquio e impetrare la divinità.
Il tabù violato
non è solo
quello infranto da Piero ma quello ancora anteriore che
il matrimonio stesso
è destinato a violare
Se lo spazio è quello della fiaba, dal sapore ora crudele come quelle dei fratelli Grimm, ora esotico come quello delle Mille e una notte, il tempo che regola l’ultimo romanzo di Giordano Tedoldi è il tempo mitico della fondazione: il tempo della festa, il tempo in cui le regole della civiltà sono abolite o rovesciate, il tempo alterato in cui i colori accecano, siamo in balia degli elementi della natura e un nuovo ordine va stabilito. Il tabù violato non è esclusivamente quello infranto da Piero, l’aver desiderato, e posseduto la donna d’altri, ma quello ancora anteriore che il matrimonio stesso è destinato a violare. Il matrimonio, prima istituzione della civiltà, è in Tabù la conquista di un utile, un bene, un bello necessario per l’uomo, che però fa perdere il rapporto con un Tu primordiale, scambiandolo con la sua apparenza. Come nei versi di John Donne: “Se mai vidi bellezza / e la volli e la ebbi / non fu che sogno di te”. Se occorresse, in un guscio di noce, sintetizzare un romanzo tanto stratificato, potremmo dire che esso capovolge le ordinarie coordinate: la civiltà razionale qui rappresenta il fantasma della libertà, il velo dell’illusione; gli impulsi primaverili sono la verità. Tabù è un viaggio di scoperta e comprensione dell’amore che dallo spirito, passa alla carne, per ritornare – potenziato e più elevato – allo spirito. In un ritmo che non è quello delle tattiche drammaturgiche, inerti e strumentali delle narrazioni tradizionali, ma delle spinte e controspinte tra vita e pensiero, tutti gli esperimenti saranno compiuti, tutte le combinazioni e configurazioni del desiderio sono attuate e confutate, nemmeno la concezione platonica di un amore monade, di un amore ermafrodito in cui i sessi si annullano, sembra soddisfare l’autore. E allora il tempo diventa biblico, e il vento che spira su queste pagine quello di un nuovo Paradiso: “Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo” (Matteo 22:30). E se così è la profezia, su questa terra non ci resta che l’abbandono al canto, come nei versi di Purcell intonati in modo così angelico, appunto, da Alfred Deller: “O solitude my sweetest choice”, O solitudine, mia scelta dolcissima.
Il Foglio sportivo - in corpore sano