Il lavoratore saccopelista è un animale mitologico che si porta appresso il suo carapace: ha bisogno di portarsi dietro tutto, computer, cavi e cavetti Apple e l’immancabile tappetino da yoga

I nuovissimi mostri

Michele Masneri

C’è lo startupparo malmostoso e quello bonazzo, l’uberista abbrutito e chi si piazza al caffè col Mac e il sacco a pelo. Fauna di Silicon Valley

San Francisco. Arriva l’estate, quindi un freddo bestiale nella Baia per chi ha sottovalutato l’antico e forse spurio detto di Mark Twain, “l’inverno più freddo della mia vita fu quell’estate a San Francisco”. Gli europei scaltri se ne vanno per tornare a fine agosto, e qui la mattina sale il nebbione come a Brescia negli anni Ottanta, e anche quando splende il sole (il tempo cambia almeno tre volte al giorno) dagli archi spigolosi delle casette vittoriane viene giù tremenda la bora californiana.

 

Per chi rimane, però, continua il vasto dispiegarsi di conferenze, incontri, meetup, con fauna concentrata d’inventori e di mitomani, che allignano nel famigerato momento del networking. Ai fondamentali incontri sull’intelligenza artificiale, blockchain, altre parole d’ordine per le masse informate, tutta una fauna umana e post-umana, di cui si sono selezionati personaggi minori e maggiori. Si noterà in particolare lo startupper che viene dal freddo: lo riconosci perché è vestito peggio dei locali, parla un inglese approssimativo con accento dell’est Europa e si esprime soprattutto a gesti, fa partire la presentazione sull’iPad della sua startup con sede a Cracovia che usa l’Ia per capire lo stato di salute delle vacche incrociandolo con molti preziosi dati conservati da ignari veterinari.

 

Vestito peggio dei locali, parla un inglese con accento dell'est Europa, la sua startup usa l'Ia per capire lo stato di salute delle vacche

Il networker aggressivo è invece l’opposto, è un nativo americano, forse proprio siliconvallico dunque a chilometri zero, e va fiero della sua mancanza di bon ton, non esce di casa dal 1996, ha una t-shirt nera col logo della sua startup, ti si avventa contro sperando che tu possa essere un cliente-sponsor-finanziatore, poi deluso dal tuo biglietto da visita si gira dall’altra parte e se ne va grugnendo (molte conversazioni da Bret Easton Ellis, sui biglietti da visita, peraltro: “E anche tu li hai fatti da Moo?” – cioè la app inglese che li stampa online, mentre i più scaltri o snob “ah, io sono andato paperless da un anno, naturalmente per risparmiare l’ambiente”. Su Moo si era poi pensato di fare dei biglietti finti con scritto “Trump Organization”, per fare degli scherzi tipo Amici Miei, quando lo si è raccontato tutti hanno detto “fallo quando non ci sono io”, molto seri. Si voleva andare anche a una rara manifestazione a Berkeley di un movimento pro-Trump, è finita nel sangue con diversi feriti (l’umorismo è sospeso fino a nuove elezioni).

 

Categoria rara ma peculiare è poi quella dello startupparo rustico. E’ qui da molti anni, ha fondato una startup di successo, non sa più parlare il suo idioma europeo ma non ha mai ben appreso l’idioma forestiero, soprattutto si è dimenticato qualsiasi creanza, dunque calza dei famigerati mocassini beige anticati, su tutto, soprattutto sui jeans. Sputazza anche per terra come i locali (nessuno ha mai sottolineato quanto i californiani sputazzino per terra, agli angolo delle strade, in passeggio sulla via, molto più dei vituperati cinesi). Lo startupparo malmostoso è felice della sua impresa, dà giudizi acuminati sulla sua terra d’origine e sui suoi connazionali, ha un blog. Nonostante i suoi miliardi vive in sordidi sobborghi, in villette milionarie in edificazioni tipo outlet, di cui va fierissimo: guardandolo si pensa immediatamente che non ne vale assolutamente la pena, è meglio esser farmacisti a Benevento o notai a Brescia.

 

Il founder saccopelista. La cultura del lavoro a Silicon Valley è una delle più misteriose, la Baia ha prodotto oltre al transistor e i suoi derivati una cultura dei bar come più che forse nella Trieste di Saba e Svevo o nella Parigi del Dopoguerra. Tutti lavorano nei bar, e qualcuno comincia a non mettere più il wi-fi per non avere questi sfaccendati intorno tutto il giorno. Nel prezzo del caffè, almeno 5 dollari, è compresa però l’elettricità, con pratica presa di corrente che non metta alla prova la banda corta del cavetto di ricarica Apple; e invece la banda larghissima per connessioni multiple (e una specie di tassa sul bivacco). Tutti concentrati, i lavoratori liquidi mangiano delle insalate di quinoa e dei pudding di semi di chia che saltano nelle tastiere dei computer tutti unti e si incastrano tra i tasti. Il lavoratore saccopelista è un animale mitologico che si porta appresso il suo carapace: non tenendo ufficio né talvolta casa, ha bisogno di portarsi dietro tutto, computer, cavi e cavetti Apple, l’immancabile tappetino da yoga, tre o quattro cambi di maglione e piumini per il tempo mutevole sanfranciscano. Riporrà il tutto in amplissimi zaini, che non hanno eguali in Europa per dimensioni e tecnica. Il lavoratore saccopelista predilige l’interno ma è equipaggiato per l’esterno, incrocia la passione americana dell’outdoor, del parco, frontiera, borraccia, Yellowstone, frigo da campeggio, anche se poi sta chiuso al bar (ecco dunque un interessantissimo indotto di zaini locale, con decine di negozi e manifatture. Anche importazioni da altri stati, come il fondamentale Topo Design, del Colorado).

 

Auto elettrica, seconda o terza moglie non rifatta e perfetta, finanzia Hillary, ha venduto il suo aereo privato e usa NetJets

La barista tatuata. Ti dice “ci sono delle regole, per l’espresso”, motivando i 25 minuti che impiega con aria molto professionale a farti un almond milk. O un espresso, appunto: a nulla vale spiegarle che si chiama così perché dev’essere veloce. “Come in Italia”, ti dice, mettendotici anche una fettina di limone “proprio come in Italia”. Mentre aspetti, la barista tatuata sale una scala, tira giù un vasone di grani di caffè con un nome tipo Arabica di Costarica Vegan, annata 2014, scende lentamente, lo macina, poi inizia l’ammuina della pesa e del conteggio, per ogni tazzina, con bilancino e con sveglietta. Si creano così file mostruose e artate, che però permettono un intrattenimento, il cliente-vittima può nel frattempo acquistare tutti i gadget (bilancino, filtri costosissimi giapponesi, t-shirt della catena di caffè), e assistere all’operazione. Che finirà col proprio nome però perfettamente pronunciato (non siamo mica da Starbucks).

 

Il Filini 2.0. E’ un manager d’alto livello che è stato selezionato per far fare le gite aziendali ai turisti. “Tu sei stato a Facebook?” è una domanda che viene spesso posta, con le varianti Google/Linkedin/Tesla, o il giro delle sette chiese. Devi fare check-in cioè registrarti, rito di passaggio fondamentale in Silicon Valley: si compila una scheda in un iPad, si sorride, viene stampata una tua foto su un adesivo che poi ti devi mettere in petto, e ti strapperà poi tutti i pelucchi (poi però lo conserverai o appenderai nella cameretta). Ti portano su all’ultimo piano per farti ammirare il panorama, selfarti con il logo gigante dell’azienda, famosa soprattutto per un bar e dei gelati, “ma oggi purtroppo è chiuso”. Nessuno protesta, tutti si filmano, giornalisti anche celebri in viaggio aziendale si fanno anche delle dirette video su Facebook. Filini 2.0 è spesso un manager plurilaureato e quindi molto depresso da questo ruolo turistico.

 

L’ufficio stampa paraculo. Dopo un po’ capisci che i serial entrepreneur più famosi sono soprattutto dei grandissimi comunicatori. Il più scaltro di tutti è Elon Musk: mentre semina il web di foto di razzi e missili sotterranei e treni nel deserto, tutto non visitabile, non riscontrabile, un po’ improbabile, ti chiede pure soldi per mandarti i comunicati stampa. Il materiale promozionale della Tesla e delle altre sue compagnie immaginifiche ti arriva nella casella di posta in versione “basic” gratuita, ma se vuoi più notizie c’è quella premium, a 30 dollari l’anno. Con link anche a pratico sito di e-commerce con magliette, spillette. Molto più in basso nella scala alimentare, qualunque startupper con un po’ di follower su twitter si sente in diritto di “clicca qui per scrivermi direttamente”, con collegato PayPal che ti addebita 100 dollari (che però vanno a una fondazione benefica).

 

L’inferior decorator. Il designer più in voga è Ken Fulke, che già dal nome sembra uscito da un personaggio di Arbasino, ma di cinquant’anni fa. Acquartierato nel quartiere di Soma già sgarrupato ora design district, con alci e giraffe impagliati e tigri e rinoceronti a grandezza naturale, che dissemina per le incolpevoli case di Silicon Valley. I siliconvallici sono normalmente analfabeti, non frequentano case d’aste né saloni del mobile, dunque sono prede perfette per arredatori e buyer che si recano negli atelier dei rari artisti e designer e dicono, bella ’sta giraffa, ne prendo 25, poi mandano i camion.

 

L’uberista imbruttito. Impoverito dalla concorrenza, ha appena acceso il mutuo per comprare la sua Prius, mentre l’ad di Uber, Travis Kalanick, continua ad abbassare le paghe. Così l’uberista imbruttito sta cominciando a vendicarsi sul cliente. Dà tre o quattro stelle a tutti, anche ai più gentili, col sottile sottotesto che per dartene 5 vuole la mancia. Nello specifico si sta affermando il drammatico modulo 5x5, cinque dollari per darti cinque stelle. Un consiglio: controllate ogni sera il vostro punteggio, se scende saprete chi è stato, potete ancora modificare a posteriori il suo rating. E’ chiaramente una guerra dei poveri, non se ne uscirà vivi. Torneranno presto di moda i tassisti, che hanno il vantaggio pazzesco di conoscere perfino le strade.

 

Lo startupparo tirchio. E’ famoso, è stato in copertina su Wired e diverse volte su Recode, ha uno zaino da 400 dollari (vedi), lo incontri in un caffè, si fa offrire, non parla d’altro che del costo dell’affitto e del riso basmati che compra a sacchi da cinque chili (meglio Trader Joe, più economico di Whole Foods). La sua azienda fattura 4,5 miliardi di dollari.

 

La tecnofemminista. E’ lì per ricordarti quanto la cultura machista della Silicon Valley sia tossica. La più prestigiosa rappresentante della categoria è Susan Fowler, nemica pubblica numero uno di Uber: ingegnere, sviluppatrice, è lei che ha scatenato il caso del sessismo in azienda (maltrattamenti e avance, con conseguenti licenziamenti e sdegno generale).

 

Oggi vive in una località segreta, ed è stata appena presa come direttrice di Increment Magazine, “il New Yorker dei nerd”, giornale online fighettissimo fondato dai trentenni miliardari fratelli Collison di Stripe (fondamentale azienda di pagamenti online).

 

Il rustico sputazza per terra come i locali, dà giudizi acuminati sul paese d'origine, nonostante i miliardi vive in sordidi sobborghi

Più di mondo sono naturalmente i Vc, cioè i venture capitalist. Ti dicono “vediamoci presto”, il giorno dopo la loro assistente ti scrive per prendere appuntamento fra tre mesi, alle sette di mattina, al loro club. Uno dei migliori che abbiamo incontrato, ispano-americano, ricciolone, un Guido Maria Brera de Silicon Valley, ci ha raccontato che a tempo perso fa l’attore, e che prende in affitto un teatro déco di San Francisco (tutto) per recitare una tragedia di Shakespeare, e ora (ecco quel libretto che gli spunta dal cappotto super sartoriale) è il “Macbeth”, e siccome si sa che non porta proprio buona fortuna, in questi giorni di prove a teatro gira solo in Uber e la Lamborghini l’ha lasciata in garage (dicono queste cose con la massima serietà, solo la serie tv “Silicon Valley”, li prende per il culo).

 

E’ un po’ la “Boris” di qui, e anche vale l’antico mantra borisiano, “l’unica cosa seria rimasta è la ristorazione”. Pochi hanno capito che qui è soprattutto un posto di ricconi ad alta capacità di spesa, dunque tra gli italiani Luxottica, Illy Caffè ma anche startupper sensuali che hanno fiutato l’aria. Negli ultimi tempi è sbarcata una pattuglia di startupper bonazzi: il bolognese Federico Spisani, ceo e founder di Tortellino.com, startup che produce pasta artigianale, fa soprattutto innamorare tutte le signore siliconvalliche, è un personaggio tra Pupi Avati e Gigi e Andrea, vestito bene, aria annoiata-chic, stragi di cuori. E Coletta gelato, il gelato più buono di San Francisco, fondato da Antonio e Henri, bocconiani e poi studenti alla Carpigiani Gelato University (sic), riscuotono grande successo coi loro gusti naturali ma soprattutto con gli occhioni dell’italo-svizzero Henri Waltenspühl.

 

C’è poi il pentito. Lavora nel settore più misterioso, quello dell’auto senza conducente. E’ stato appena preso da (inserire nome della startup più cool del settore), è un ex manager Fca, Ferrari, o Bentley, guadagna fantastilioni, ti prega “Non dire assolutamente a nessuno che mi conosci, non posso uscire, niente telefonate, solo sms”. Vive praticamente in regime di 41 bis, per paura che altre aziende lo assumano o gli rubino segreti industriali sulla frizione o sul pistone.

 

Niente a che vedere con i membri della Silicon Valley royalty. Chi ne fa parte è normalmente un siliconvallico di seconda generazione, ha fatto i soldi in qualche bolla del Ventesimo secolo, tipo coi modem, ha venduto ai massimi, siede nel cda di Ibm o Cisco, ha due o tre miliardi di dollari, te lo presentano a dei party, lo riconosci perché ha l’aria felice di chi non gliene frega nulla, arriva con una sua auto elettrica, e una seconda o terza moglie non rifatta e perfetta, è vestito tutto giusto, finanzia Hillary, ha delle figlie che lavorano con Roman (Coppola), ha venduto il suo aereo privato e “da quando ho preso NetJets non sai il relax, era diventato un incubo, si viveva solo per quello”, nonostante tutto mantiene spaventosi complessi di inferiorità, è intimidito in circostanze sociali minime, crolla sul dettaglio, scopri presto che la sua massima aspirazione è essere fatto baronetto dalla Regina Elisabetta.

 

Infine il ceo alfa. Il più vituperato, arrogante, il cattivo come in un film di James Bond, ma vestito male. E’ naturalmente Travis Kalanick, fondatore di Uber. Pare che nella ultima riunione sulle attività antifemministe, guidata dalla pasionaria Arianna Huffington, lui desolato abbia chiesto una pausa per “meditare”, e l’abbiano scortato nella stanza riservata all’allattamento delle mamme-uberiste. Kalanick, oltre a subire i bilanci perennemente in passivo della sua azienda, e i blocchi dei vari Tar globali, è entrato ultimamente in un alone di sfiga senza ritorno: il 26 maggio è morta pure sua mamma, in un incidente nautico in un lago californiano (ferito il papà, barca affondata). Kalanick è il più mostro di tutti, ma proprio per questo a noi in realtà sta simpatico.

 

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