I quattro cantoni di Padoan
Quirinale e Palazzo Chigi chiedono al ministro di resistere. Pd ed Europa vogliono un cambiamento. E lui?
Le banche, il debito, la crescita, la manovra di bilancio: Pier Carlo Padoan oscilla tra quattro cantoni. Ciascuno di essi è presidiato a sua volta da quattro forze che esercitano spinte opposte, due attraggono e due respingono. Il Quirinale e Palazzo Chigi chiedono al ministro dell’economia di resistere, tirare avanti per la sua strada, fare bene i compiti a casa e attendere fiducioso i risultati. Il capo del Partito democratico e l’Unione europea, anche se da punti di vista opposti, vogliono un cambiamento. Da Bruxelles invitano a impostare subito una manovra robusta e a non gettare altri quattrini nelle banche sull’orlo del crac, senza lasciare ad altri l’ingrato compito di risanare il bilancio pubblico. Matteo Renzi invece, chiede ciò che allo stato attuale sembra impossibile: evitare il bail-in salvando non solo il Monte dei Paschi di Siena, ma la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca; ridurre le tasse e impostare un bilancio 2018 basato sulla crescita anche a costo di aumentare il disavanzo e sfidare la Ue. Sottoposto a tali e così diverse pressioni, tra annunci e abbandoni, tra speranze e minacce, tra cose fatte e misure ancora da prendere, il pendolo di Padoan rischia di fermarsi del tutto.
Le ultime scosse sono venute con la festa della Repubblica. Il 31 maggio, Ignazio Visco aveva annunciato che le cose si stanno mettendo in movimento. E l’Istat il giorno dopo ha confermato che il pil cresce più del previsto; ancora poco, certo, ma con una progressione del tutto incoraggiante. L’economia italiana ha imboccato il sentiero giusto, ha spiegato con l’ottimismo della volontà il governatore all’assemblea annuale della Banca d’Italia. Ma guai a innestare la retromarcia. Lo ha ripetuto più volte, ha invitato a fare “scelte coraggiose” e ha buttato là un numerino che fa da faro alla rotta della politica economica: la somma tra entrate e uscite della pubblica amministrazione, al netto delle spese per gli interessi sul debito pubblico, deve restare positiva per i prossimi anni, con un attivo pari a quattro punti in rapporto al prodotto lordo. In questo modo, a condizione che la crescita del pil in termini reali sia dell’uno per cento e l’inflazione salga al due per cento, la Banca d’Italia prevede che il debito pubblico scenda al 100 per cento del pil in dieci anni. La retromarcia, però, è una tentazione forte, soprattutto in clima elettorale. Lo era prima del referendum, lo è adesso in vista del voto politico. Se le urne si apriranno a settembre l’onere cadrà sulla prossima legislatura (un parlamento e un governo nuovi di zecca), altrimenti l’amaro cocktail dovrà essere confezionato da Padoan con l’avallo di Paolo Gentiloni. Inutile aggiungere proiezioni sull’impatto elettorale per il Partito democratico.
Le banche, il debito, la crescita, la manovra di bilancio: è su questi fronti delicati che deve muoversi il ministro dell'Economia
Il giorno prima delle considerazioni di Visco, era partita dal fortilizio di palazzo Sella in via XX Settembre, una lettera indirizzata a Pierre Moscovici, commissario per gli Affari economici, e al vicepresidente della commissione Valdis Dombrovskis, nella quale Padoan chiede uno sconto sull’aggiustamento strutturale: dallo 0,8 allo 0,3 per cento del pil, insomma una replica della manovrina di metà anno. In questo modo il disavanzo primario che tanto sta a cuore a Visco, non potrà arrivare al 2,5 per cento del pil l’anno prossimo (per quest’anno è previsto all’1,7 per cento). Lontana è la mitica quota quattro per cento e, a forza di retromarce, s’allontana sempre più.
Sabato 3 giugno appare sul Sole 24 Ore una intervista a Renzi nella quale il capo del Pd invita a “non sprecare la legge di bilancio” e presenta una vera e propria politica economica alternativa: tagliare le tasse, stop agli aumenti dell’Iva previsti dalle clausole di salvaguardia, una soluzione per le banche venete che scongiuri il bail-in, nessuna svendita dei crediti deteriorati, confronto con l’Unione europea sulla applicazione delle norme e dei criteri per i salvataggi in modo da avere più tempo per gestire le crisi e collocare i non performing loans, un patto con Bruxelles sui nuovi spazi al disavanzo pubblico per alleggerire il fisco e aumentare la crescita, una gestione attiva del debito, utilizzando la Cassa depositi e prestiti e mettendo sul mercato gli immobili posseduti dallo stato centrale e dagli enti locali (su questo annuncia una iniziativa specifica che trova consenso anche tra alcuni banchieri, come vedremo). E scusate se è poco.
“Sprecare la manovra? L’ultima cosa che vuole fare un ministro dell’Economia è sprecarla”: letta l’intervista, Padoan non può trattenersi e risponde per le rime, dal palco dell’annuale Festival dell’economia che si svolge a Trento. Si sente punto sul vivo e questa volta non tace come ha fatto a lungo nei mille giorni che ha condiviso al governo con Renzi. Gli osservatori non possono non sottolineare che la tensione covata per lungo tempo, a questo punto emerge alla luce del sole. La Banca d’Italia frena e vuole una politica di rigore, Renzi spinge fino al punto da rinegoziare nuova flessibilità con la Ue, Padoan chiede uno sconticino, ma sa bene che non potrà bastare; la prossima campagna elettorale rischia di essere giocata proprio contro di lui e non solo come è ovvio da Forza Italia, dalla Lega, dal Movimento 5 stelle, ma dal Partito democratico. Ce n’è abbastanza per fermare il pendolo e consumare il lungo addio. Le forze della resistenza che muovono dal Quirinale e la pressione di Gentiloni inducono a non mollare, Ma fino a quando?
Per Siena pagano i contribuenti, lo stesso accadrà con le banche venete. In Spagna, al contrario, pagano i 302 mila soci
I tempi del voto sono determinanti, però contano anche i contenuti, cominciando dalle tasse. Gli alleggerimenti progressivi, cioè la strategia delineata da Padoan, non bastano, i contribuenti non li percepiscono e l’impatto sulla ripresa è minimo, perché alla fine della fiera la pressione fiscale resta sempre tra le più alte d’Europa. Dunque, sarebbe saggio concentrare le risorse, per quanto limitate, su scelte dall’impatto più efficace sul piano economico e su quello politico. Meglio una misura chiara che tanti piccoli provvedimenti. Qui si gioca anche il rapporto con alcuni gruppi di pressione che hanno il loro corollario politico, per esempio la Confindustria e i sindacati i quali spingono per tagliare il cuneo fiscale riducendo gli oneri che appesantiscono il costo del lavoro. Il Pd, invece, preferisce che si agisca direttamente sui redditi. E anche questa scelta si presenta non facile. Non parliamo della nuova offensiva nei confronti della Ue.
Padoan è stato indicato tre anni fa da Giorgio Napolitano per affinità politico-culturali e per la sua esperienza internazionale (al Fondo monetario e all’Ocse) che lo rendeva affidabile agli occhi della Ue e della Bce. Anche se viene sempre inserito nel totonomine per la Banca d’Italia, molti ritengono che, esaurita l’esperienza da ministro, voglia tornare all’estero, all’Ocse dove scade il segretario generale, il portoghese Angel Gurría o alla Ue per rimpiazzare magari proprio Moscovici (ipotesi non facile perché avrebbe contro la Germania a meno che non ottenga in anticipo l’impegno di collocare Jens Weidmann al posto di Mario Draghi nel 2019). Prima con Renzi e poi con Gentiloni ha fatto la spola tra Roma, Bruxelles e Francoforte, esercitando soprattutto un ruolo da mediatore. Ebbene, ragioni culturali, politiche, accademiche e persino personali non spingono certo Padoan a diventare il campione dello scontro con la Ue. Se è questo che Renzi vuole in campagna elettorale, ebbene il ministro dell’economia non sembra proprio l’uomo giusto.
L’impegnativa manovra per ridurre lo stock di debito pubblico annunciata dal capo del Pd va anch’essa fuori dalla linea delineata da Padoan il quale non ha mai credito (e lo ha detto spesso) nella efficacia di operazioni straordinarie. Le privatizzazioni sì (e anche su questo ha perso la sua battaglia), ma mettere mano al patrimonio immobiliare non lo convince. Sulla stessa linea anche il governatore Visco e lo ha detto nelle sue considerazioni finali. Eppure l’ipotesi si fa strada anche nel mondo della finanza. Ci crede, per esempio, un banchiere di punta come Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. Alla fine dell’assemblea della Banca d’Italia, sollecitato dal Foglio, ha spiegato che “occorre fare degli sforzi per valorizzare il più possibile gli attivi immobiliari”. E ha aggiunto: “L’Italia è un paese che ha tanti debiti, ma ha anche tanti attivi. Questo è un mestiere diverso dal mio, ma ragionando da esperto di bilancio, forse è il caso di lavorare sugli attivi e poi accelerare gli investimenti per favorire la crescita”.
Scongiurare l’aumento dell’Iva è una priorità anche secondo Messina. Guai a far scattare la clausola di salvaguardia. “Già abbiamo visto che manovre che impattano sulla tassazione delle case determinano effetti recessivi. Quando tocchi uno dei suoi punti di forza che sono le famiglie e, attraverso l’aumento dell’Iva, scoraggi i consumi, il paese può avere delle crisi significative”. Dunque, mettere in sicurezza i conti pubblici è essenziale, tanto più in vista delle elezioni.
La pressione, insomma, è forte. Non c’è tempo da perdere e ciò vale ancor più quando si tratta di banche. Per le venete, “lavoriamo come per Mps”, ha risposto Padoan a Renzi. La formula è quella della “ricapitalizzazione precauzionale”, ma i 6,4 miliardi messi a disposizione dal governo non bastano. La Ue chiede che ci sia un contributo privato di un miliardo e 250 milioni per coprire “perdite passate o probabili”. Atlante ha già impiegato 3,5 miliardi e i suoi grandi azionisti sono in difficoltà. “Stiamo lavorando – spiega Padoan – all’interno di regole molto complicate che richiedono l’accordo della direzione generale sulla concorrenza e del meccanismo sorveglianza unico Bce. In aggiunta a un “piano di ristrutturazione convincente” e di “riconosciuta sostenibilità”, occorre che non ci siano “aiuti di stato illegali e che ci sia sufficiente dotazione di capitale”, ha sottolineato il ministro.
Nel frattempo, il salvataggio del Banco Popular ha riacceso una vecchia polemica: perché in Spagna sì e in Italia no? La banca iberica impiombata da mutui deteriorati per 37 miliardi di euro è stata acquistata per un euro dal Banco di Santander che staccherà un assegno di 7 miliardi per aumentare il capitale, un bail-out che prevede un burden sharing (per usare il gergo della Bce) cioè l’onere ricade su chi detiene azioni e obbligazioni junior (quelle non coperte e più rischiose). Non si tratta propriamente di bail-in perché non sono toccate le obbligazioni senior e non c’è salvataggio pubblico. Il tutto è avvenuto in una notte dopo che è comincitata una corsa agli sportelli e la vigilanza della Bce ha dichiarato che il Popular stava per fallire, prendendo lei in mano la situazione. A quel punto il governo spagnolo ha fatto appello alle grandi banche chiedendo loro di risolvere il problema. E’ il primo esempio di salvataggio pilotato tra Francoforte e le autorità nazionali. A Madrid è prevalsa una logica di sistema che a Roma manca. I potentissimi banchieri spagnoli hanno risposto e i banchieri italiani? Padoan li ha chiamati e richiamati, Messina ha mostrato una certa disponibilità; ha detto “sì, ma”: agire in splendida solitudine è un passo azzardato per la Intesa Sanpaolo, anche se lo stato apre l’ombrello. Alla fine anche Jean-Pierre Mustier, il “patron” di Unicredit ha ceduto. C’è voluto un faccia a faccia con Padoan e Gentiloni e, in ogni caso, il costo dovrà essere spalmato pro quota tra tutti gli istituti che aderiscono al fondo interbancario.
Renzi chiede ciò che al momento sembra impossibile: evitare il bail-in salvando non solo Mps, ma anche Popolare Vicenza e Veneto Banca
Per Siena pagano i contribuenti, lo stesso accadrà in un modo o nell’altro con le banche venete. In Spagna, al contrario, pagano i 302 mila soci. Ci saranno azioni giudiziarie, certamente, però non esistono Tar pronti a sfornare sentenze anti-sistema. L’intervento lampo senza denari pubblici, applicando alla lettera la direttiva europea, è destinato a diventare un paradigma che si ritorce contro i salvataggi italiani, in ballo da almeno un anno e mezzo, costati già, prima di essere condotti in porto, oltre 50 miliardi (sono i calcoli dell’agenzia Bloomberg), 20 dei quali messi a disposizione dal governo aumentando il debito. Si farà certamente più forte la sollecitazione affinché Padoan difenda a Bruxelles le buone ragioni italiane e nello stesso tempo faccia valere la propria autorevolezza sul sistema creditizio nel suo complesso. E’ una doppia prova del nove: con la Ue si gioca la reputazione di euro-riformista, partner leale anche se vuole riformare le regole del gioco; con i banchieri è in ballo non solo la sua posizione di ministro attento a combinare le esigenze del mercato con l’interesse generale, ma l’autorità stessa del governo. E il dirigismo spagnolo salutato dalla Bce e benedetto dalla Ue, manda in soffitta le remore italiane. Due pesi e due misure: quando Renzi protesta non ha poi tutti i torti.
A suo favore, Padoan può vantare che dopo due ricadute e tante false partenze, l’economia si è messa finalmente in moto; questo dovrà avere un impatto positivo anche sullo stato di salute delle banche spingendole ad aprire i cordoni della borsa. Nel primo trimestre dell’anno il pil è cresciuto dello 0,4 per cento invece che dello 0,3 per cento previsto. Il prossimo potrebbe far segnare addirittura lo 0,6 per cento, un decimale in più della media europea. Addirittura. Renzi apprezza, ma non è contento. Punta il dito sulla disoccupazione che resta ancora oltre l’11 per cento. E a chi da sinistra accusa il fallimento del Jobs act (compresa la segretario della Cgil Susanna Camusso), ribatte che è colpa della crescita troppo bassa. L’articolo 18 decade solo per i nuovi assunti, e se l’economia ristagna non si creano posti di lavoro. Lo “sforzo eccezionale” che Visco chiede per il risanamento dei conti come premessa per il rilancio dell’economia, Renzi lo sollecita per rilanciare la domanda interna, ma è da Padoan forzare le tappe?
Il pendolo di Léon Foucault appeso alla cupola del Panthéon, a Parigi, sta lì a dimostrare che la terra si muove e ruota attorno al proprio asse. Il pendolo di Padoan rischia di mostrare che, nonostante le apparenze e a dispetto di tanti piccoli moti vorticosi, l’Italia è ferma su se stessa, paralizzata dalle spinte contrastanti che bloccano ogni forza innovatrice. Ci vorrebbe un altro Umberto Eco e un altro romanzo, essoterico questa volta, non esoterico.
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