Prima del gulag
Alle isole Solovki l’inferno iniziale delle illusioni. Lo racconta Zachar Prilepin, lo scrittore patriota che ha combattuto in Cecenia e Ucraina
Zachar Prilepin, nato nel 1975 in un villaggio della regione di Rjazan, si arruola giovanissimo negli Omon e, con il reparto speciale della polizia russa, partecipa alla guerra in Cecenia. Un omone lui stesso (non alto ma forte), sia pur con il viso dai tratti delicati di un ragazzino, indossa volentieri anfibi e tuta mimetica, imbraccia kalashnikov e ama il turbo-rock, stile Serbia delle guerre dei Balcani. Vedo da internet che è in contatto con Kusturica, altro gigante scomodo per la nostra coscienza. Negli anni recenti è andato a fare il patriota oltreconfine, nell’Ucraina russofona del Donbas. “Non amo la guerra e non ho alcuna aspirazione a trascorrere tutta la vita in armi, semplicemente non mi piace quando le bombe colpiscono case d’abitazione e uccidono vecchi e bambini”. Militante del movimento nazional-bolscevico di Eduard Limonov (quel Limonov su cui Emmanuel Carrère ha scritto il romanzo omonimo), Zachar Prilepin è anche scrittore notevole, anzi notevolissimo, soprattutto per il romanzo uscito di recente presso Voland, Il monastero, un tomo da 800 pagine (25 euro) pluripremiato in patria, che si legge come si leggono i grandi romanzi russi, con godimento e interesse, per i frequenti cambi di registro linguistico, per la ricchezza documentale, per la molteplicità dei personaggi che popolano il lager delle Solovki negli anni Venti, dove è ambientato il racconto: contadini ignoranti e intellettuali leningradesi, poeti e preti, spie e prostitute, scienziati e gang di delinquenti organizzati.
Nel mio romanzo c'è
la storia della prima fase del sistema
penitenziario sovietico. C'era l'idea di forgiare l'uomo nuovo. È fallita
Il monastero è, a nostra conoscenza, il primo romanzo russo non memorialistico sull’universo concentrazionario sovietico. Zachar Prilepin, che era un adolescente quando l’Urss si è dissolta, non è né testimone né vittima del gulag, non lo sono nemmeno i genitori, il padre professore di storia, la mamma infermiera, middle class della Russia profonda, depositaria dei valori che la rivoluzione russa, e la sua evoluzione in stato, ha sedimentato nel suo breve secolo di storia: terra, nazione, eguaglianza, internazionalismo, resistenza, potenza, corsa agli armamenti, scienza, tecnica, sperimentazione sociale, uso della forza za nasci(in difesa dei nostri). Il tema dei lager è topico per la letteratura russa contemporanea, “preoccupata – scrive Nicoletta Marcialis nella postfazione – di fare i conti con il passato”. Qui, però, lo strappo narrativo è potente, per lo scavo nelle ragioni dei carcerieri. O dei carnefici. Non per caso, in Russia, è frequente il parallelo con Le benevole di Jonathan Littell.
Il tema dei lager è topico per la letteratura russa contemporanea, "preoccupata di fare i conti con il passato" (Nicoletta Marcialis)
Racconta Prilepin: “Pensavo di scrivere un racconto, al massimo un romanzo breve. Poi ho iniziato a documentarmi e ho scoperto una quantità straordinaria di storie incredibili, in cui cekisti e anticekisti, rivoluzionari e controrivoluzionari, russi, ortodossi, musulmani, caucasici, polacchi, entrano nelle più complicate e varie forme di interrelazione. Questo non è un libro sul gulag. Il gulag nasce dopo le Solovki. Ciò che hanno descritto Solgenitsin e Šalamov non sono le Solovki. Nel mio romanzo c’è la storia della prima fase del sistema penitenziario sovietico. C’era una qualche verità-non verità, c’era l’idea di forgiare l’uomo nuovo. E’ fallita. Hanno perso. Hanno prodotto solo una poltiglia sanguinolenta. Ma per me era importante capire dove fosse l’inizio, come tutto ciò succeda un passo dopo l’altro. Piena di illusioni la gente marcia verso l’inferno. E’ questo che trovo interessante”.
L’editore ci mette in contatto per e-mail, lo scrittore è in viaggio fra Mosca e Pietroburgo, intervistare via e-mail è complicato, mancano la mimica facciale e la voce a segnalare il cambiamento di tono, i passaggi dal serio al faceto. Ne nasce una conversazione urticante.
Forgiare l’uomo nuovo, è un aspetto che nel libro è molto importante, ha una sua grandiosità e, al tempo stesso, sfocia nella follia. Una follia trasportata, nell’ambientazione delle Solovki, dallo stridere ossessivo dei gabbiani che, onnipresenti, volano bassi, non più cacciatori del mare ma voraci spazzini di carogne. Zachar Prilepin ha soggiornato, prima di scrivere, alle Solovki, e una delle qualità del romanzo è la forza della luce e del paesaggio, la descrizione della fortezza e delle cupole rosse del monastero, delle foreste e degli animali che le popolano. Ha studiato i documenti, copiosi, sulle vicende del carcere.
Cosa rappresentano per lo scrittore questi lembi di terra disseminati nel Mar Bianco? Sono uno specchio della società russa, della sua storia, della sua violenza? “Le Solovki sono un monastero, una prigione, ma sono anche un luogo nel quale più tardi, alla fine degli anni Trenta, si formavano i ragazzi russi che combatterono nella Seconda guerra mondiale, per salvare il mondo dal nazismo. In questo senso (e solo in questo senso), le Solovki sono specchio della Russia, non nel senso che la Russia intera sia un’enorme carcere, come piace ad altri in occidente sostenere, deducendone che loro, invece, vivono e sono sempre vissuti nella libertà”.
Alle Solovki negli anni Venti si moriva di fatica, si fucilava, si corrompeva, c’erano i delatori e i reparti punitivi. C’erano anche il teatro e il giornale del penitenziario, la scuola e i laboratori scientifici, era stata istituita una riserva naturale, l’osservatorio biologico, l’estrazione dello iodio. Tutto questo si racconta nel romanzo, ripercorrendo, come in un mondo condensato, i tentativi di educazione e la propaganda per la costruzione del mondo nuovo, alimentati dall’utopia rivoluzionaria. Il direttore del penitenziario del romanzo, che è l’anima delle innovazioni introdotte nella colonia penale, Fedor Ejchmanis, è il calco di un personaggio storico realmente vissuto, Ejchmans, che fu effettivamente direttore del carcere e che finì fucilato nelle purghe del 1937. “Questo è un laboratorio”, dice il direttore Eichmanis. E, nel laboratorio sociale, tutti coloro che sapevano fare qualcosa e potevano contribuire alla costruzione della società nuova, venivano utilizzati ed erano trattati meglio: più razioni e varietà di dieta, paga e possibilità di acquistare allo spaccio. Si trattasse di reclusi controrivoluzionari o rivoluzionari, di monaci, scienziati, sportivi o poeti. I delinquenti comuni, invece, stavano male, erano il sottoproletariato dell’istituto di pena: fra loro la violenza era all’ordine del giorno, le gang si combattevano, la fatica dei lavori forzati era aggravata dall’arbitrio e dalla crudeltà dei capisquadra. I detenuti comuni, ignoranti e violenti, sono coro e controcanto del romanzo, ironizzano sui provvedimenti della direzione del carcere: “Da domani si va a scuola? Com’è possibile andare a scuola dopo aver trasportato tronchi per l’intera giornata?”.
“Alle Solovki il potere sovietico è diventato potere solovietico”, è la battuta di uno di questi personaggi irridenti, scanzonati, refrattari agli intenti educativi. Racconto a Prilepin una barzelletta di epoca sovietica, una vecchina chiede, a proposito dell’idea della rivoluzione come laboratorio sociale: “Io capisco l’importanza della sperimentazione, ma perché non farla prima in vitro?”. Sebbene sia una barzelletta, l’ho trovata sempre interessante, poiché segnala la distanza fra chi sta in alto e la vita vissuta della gente semplice. Prilepin, invece, si arrabbia: “Gli esperimenti sovietici vanno capiti nel contesto della storia mondiale e non in quello della barzelletta sulla vecchietta. Al momento della rivoluzione russa il Terzo mondo era sotto il dominio coloniale e anche nei vostri paesi del mondo bianco, proletari e contadini vivevano in pessime condizioni. I bolscevichi hanno capovolto il mondo, avevano piani enormi, hanno avuto enormi successi e fatto enormi errori. Io sono pronto a discutere solo su questa base della storia del mio paese”. E non si ferma: “Voi europei non vi trastullate, forse, con tutte le farisaiche storie di democrazia, tolleranza e diritti umani, mentre, sotto il monotono fruscìo di questi concetti, regimi scomodi si consumano, vengono uccise centinaia di migliaia di persone, si muore di fame e di malattie? E milioni fuggono dai loro paesi bombardati. In sostanza non capisco come vi viene in mente di raccontarmi una barzelletta sulla sperimentazione, quando tutta l’Europa, proprio adesso, è nel mezzo di un enorme esperimento”.
Stabilita con nettezza la demarcazione del “noi” e “loro” (la Russia, il Terzo mondo, da una parte, l’Europa, l’occidente dall’altra), veniamo al punto. Il suo è un romanzo storico che si distanzia dalla memorialistica dei lager del XX secolo, lei è giovane, non è né testimone né vittima. Quale punto di vista ha assunto?”. “Mi sono dato, per il mio lavoro, un compito semplice: a differenza di Aleksandr Solgenitsin, io ho avuto il vantaggio di poter lavorare sui documenti dei gulag, senza forzatamente basarmi solo sul racconto dei reclusi, non sempre confermati, anzi molto spesso smentiti dai documenti. A me interessava mostrare il gulag con gli occhi del recluso ma anche con quelli del carceriere, del čcekista”.
"A me interessava mostrare il lager
con gli occhi del recluso ma anche con quelli
del carceriere". L'odore del revisionismo
Prilepin è scrittore migliore di quanto non sia polemista, l’odore di revisionismo sui lager sovietici che si sente nella sua risposta, nel romanzo si dirada grazie alla collocazione della storia nei primi anni post rivoluzionari. Le isole Solovki, d’altra parte, erano già fortezza e prigione in epoca zarista, i monaci che lì si erano ritirati per vivere da stiliti, avevano imparato a gestire l’amministrazione carceraria. Uno degli aspetti più curiosi e interessanti del romanzo è proprio il ruolo dei monaci. Nel penitenziario sovietico sono reclusi, ma conducono la stessa esistenza di prima della rivoluzione, pregano e amministrano il carcere. Corsi e ricorsi della storia russa, come racconta uno dei personaggi: “Il čcekista che per primo issò la bandiera rossa sul monastero delle Solovki, poi l’hanno rinchiuso qui dentro… Li rinchiuderanno qui tutti quanti. E ce li seppelliranno pure. Qui Dio è vicino. Dio non lascia allontanare da sé i figli che si sono smarriti. E questo monastero anche, non li lascia andar via! Mai! Nel 1666 ci fu una rivolta, la represse Ivan Mešcerinov, gli strelizzi ai suoi ordini uccisero i monaci a colpi di pietra, fecero una strage e non seppellirono i cadaveri. Pochi anni dopo Ivan Mešcerinov tornò qui da prigioniero!”.
Il personaggio principale del romanzo è un ragazzo scapestrato, un recluso di nome Artëm. Le sue avventure, i suoi pensieri ingenui, le sue insofferenze e ribellioni fanno da filo conduttore nell’opera corale, dentro la quale ciascun protagonista ha diritto a un proprio assolo. Non sempre ciò che accade ad Artëm è verosimile, guidato com’è da uccellini, dal cervo Miška, dal cane Black, da voci interiori, dalla voglia di mangiare che gli riempie la bocca di acquolina, dal desiderio per la bella e pericolosa cekista Galja, con la quale intreccia una relazione come in un Portiere di notte a ruoli capovolti. Ma, come nelle illustrazioni terrifiche e favolose di Ivan Bilibin, il suo passo lieve organizza i quadri, gli episodi del lungo racconto.
Il suo romanzo è ricco di riferimenti letterari, a partire dall’incipit in francese, omaggio a Guerra e pace. Ma nella scansione in episodi, in ciascuno dei quali il focus è su un personaggio diverso, sembra esserci un’allusione alla serialità delle fiction televisive. Il dialogo, inoltre, come nel linguaggio filmico, è prevalente. Quanto deve al linguaggio del cinema, della televisione e di internet?
“Leggo la letteratura italiana contemporanea e non ci vedo particolari caratteri del XXI secolo, né colgo qualcosa del genere in Pamuk, in Franzen, in Houellebecq, in Littell. Una lingua visiva, seriale – Dio mio – la trovo senza problemi in Anna Karenina di Tolstoj e nell’Idiota di Dostoevskij. Solo che all’epoca non si conoscevano queste parole”.
Jonathan Franzen, Michel Houellebecq, Jonathan Littell. Una rete di riferimenti nella quale la scrittura di Prilepin si collaca bene, a mosaico, nel panorama del politicamente scorretto delle letterature.
Prilepin ha raccontato la guerra cecena, vissuta direttamente, nel romanzo Patologie (Voland, 2011). Fra gli scrittori di guerra lei cita volentieri Lev Tostoj e Ernest Hemingway. Per quel che riguarda la Russia, io aggiungerei Vasilij Grossman. Quale rapporto stabilisce fra letteratura e guerra?
“Qui Grossman mi pare non c’entri proprio nulla. Non c’è un rapporto generale fra scrittura e guerra, ogni autore la vive a modo proprio. Tolstoj e Hemingway sono consapevolmente andati a cercare i luoghi di conflitto, come il poeta Nikolaj Gumilëv (si arruolò volontario nella Prima guerra mondiale, fu fucilato come controrivoluzionario nel 1921, ndr). Vasilij Grossman è molto popolare in occidente e per questo spesso ci si riferisce a lui, ma c’è un sostanzioso numero di forti scrittori russi che hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale e che, per qualche motivo, non corrispondono ai parametri degli editori occidentali: un romanzo in cui ci sono comunisti ma non c’è il tema ebraico ha due volte meno probabilità di essere pubblicato. Juryj Bondarev, ad esempio, combatté e ha scritto dei romanzi capolavoro sulla guerra ma non viene tradotto da almeno 25 anni. Ci sono troppi bravi sovietici nei suoi libri. Avrebbero dovuto essere un poco peggiori”.
La ricchezza
dei riferimenti letterari
e della lingua.
La scansione a episodi che allude alle fiction tv. Il ruolo della visività
Torniamo al conflitto in Ucraina, molti intellettuali e scrittori ucraini, anche russofoni, hanno partecipato al Maidan, alla rivolta, di Kiev. Come si pone in relazione con loro? “Gli intellettuali di Kiev sono temporaneamente usciti di senno, visto che hanno deciso di liberarsi di un governo corrotto in compagnia di gruppi apertamente fascisti, ottenendo, per altro, di sostituire un governo corrotto con uno ancora più corrotto. Io non posso far altro che dolermene”.
Il nazionalismo russo-bolscevico 4.0 è servito.
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