In Italia è tempo di svendite
Cosa non si fa per la salvezza. Ricordate l’Ilva? Un patrimonio di 4,2 miliardi ceduto per meno della metà. Seguirà l’Alitalia
Le cifre sono nude, aspre, secche e, come le rocce del deserto per gli anacoreti, pavimentano il cammino verso la verità. Prendiamo i numeri dell’Ilva, ciottoli abbandonati sul greto rinsecchito di un wadi. L’Iri ha venduto il gruppo siderurgico nel 1995 alla famiglia Riva che ne ha mantenuto il controllo fino al 2012 quando è arrivato il sequestro degli impianti imposto dalla magistratura. Il patrimonio e’ passato da 961 milioni a 4,2 miliardi di euro nonostante un paio di recessioni; la grande crisi ha colpito gli utili a cominciare dal 2009, ma prima erano cresciuti nell’insieme di tre miliardi e cinquecento milioni di euro. Sono stati investiti in tutto sei miliardi, un miliardo dei quali per l’ambiente. La gestione commissariale ha accumulato tre miliardi di perdite, sia pure per colpa di un siderurgico dimezzato dalla chiusura degli altiforni più importanti. I Riva avevano pagato l’Ilva l’equivalente di un miliardo e mezzo di euro. La cordata Am Investco composta da ArcelorMittal e Marcegaglia (ha il 15 per cento) con il sostegno finanziario della banca Intesa Sanpaolo, ha proposto di sborsare 1,8 miliardi, sotto forma di un canone pari a 180 milioni l’anno. Canone? Sì, perché allo stato attuale non si tratta di una cessione in senso stretto, ma di un contratto di affitto degli impianti con possibilità di comprarli (è scritto “obbligo di acquisto”, tuttavia si prevedono clausole di salvaguardia nel caso non vada a buon fine).
Il governo si è liberata da un macigno, anche se non è ancora chiuso quel dossier rovente che nessuno avrebbe mai voluto aprire, a parte un complesso politico-mediatico-giudiziario con scarso seguito e un’enorme potere di fuoco. Depositata la fuffa, restano i fatti, aridi e pesanti come pietre del Negev, a prescindere dal giudizio sul vecchio Emilio Riva che ha costruito un impero partendo dai rottami (è morto nel 2014 a 88 anni), sulla sua gestione, sul tasso ecologico dell’azienda o sui quattrini parcheggiati nei paradisi fiscali. E i fatti dicono che l’Ilva è stata espropriata per mano giudiziaria, depauperata e messa sul mercato ben più debole di prima. Eppure è il pezzo più strategico tra le industrie italiane finite oltre confine. Quante, finora, hanno contributo ad aumentare le risorse e la ricchezza del paese?
Manifestazione davanti alla sede dell'Ilva di Cornigliano (foto LaPresse)
E’ stato scritto che si è aperta la fiera dei saldi per il made in Italy. Dal 2008, primo anno della Lunga Recessione, sarebbero un migliaio gli acquisti da parte di investitori esteri. In realtà, l’elenco dettagliato pubblicato da alcuni giornali mette insieme anche acquisti di piccoli pacchetti azionari o persino aziende già di fatto controllate da investitori stranieri, se non addirittura filiali gestite in joint venture con soci italiani. Dunque, sono dati grezzi da analizzare caso per caso. Non solo. Molte delle cessioni sono state decise da imprenditori italiani non perché in difficoltà, ma perché vogliosi di fare altro nella vita, industriali trasformatisi in redditieri, famiglie nelle quali il sacro fuoco dell’impresa si è consumato nel caminetto dello spreco, e lo spirito del capitalismo s’è dissolto nel fiume dell’ozio. Loro Piana è stata supervalutata dal colosso francese Lvmh (due miliardi di euro per un’azienda che fattura poco più di mezzo miliardo). E che dire di Bulgari che sempre lo stesso Bernard Arnault ha pagato ben 3,7 miliardi? In genere per i marchi italiani del lusso parlare di svendita è totalmente assurdo. E non tutti hanno mollato. Basti pensare alla parabola ascendente della Campari, alla Fincantieri che veniva data per morta e sepolta e invece ha acquisito uno dei principali gruppi francesi e oggi vuole competere con i godzilla orientali, o a Luxottica. E’ vero, la fusione dà alla Essilor già fortissima nelle lenti (si pensi a Varilux la prima lente progressiva al mondo) anche un primato negli occhiali, settore in grande espansione; inoltre la gestione passerà nelle mani dei francesi. Ma non si può in nessun modo parlare di svendita all’estero. E il Milan? Non è stato un affare per la Fininvest di Berlusconi anche se, forse, non per i tifosi? Lo stesso vale per l’Inter ceduta bon gré mal gré dai Moratti. Nel caso di Pirelli non è ancora chiaro se i cinesi, azionisti di riferimento, si trasformeranno in predatori: la Industrial che lavora per i mezzi pesanti (un miliardo di fatturato su sei miliardi complessivi) è stata ingoiata dalla ChemChina, quella che fa gli pneumatici premium e verrà quotata in Borsa l’anno prossimo. Proprio in questi giorni è sul mercato Coin, si parla di una operazione da 400 milioni per la quale sono in lizza grandi magazzini giapponesi. Parmalat è un affarone per Lactalis, non del tutto per gli stockholders italiani. Non è stata un buona scelta la cessione delle acciaierie di Terni ai Thyssen che se le vogliono rivendere. Tanto meno la Lucchini passata a Severstal dell’oligarca russo Alexei Mordashov, finendo in un ginepraio di banche e tribunali. La Indesit alla Whirlpool ha creato seri problemi sociali e anche finanziari: gli americani hanno pagato ai Merloni 758 milioni, ma ne hanno chiesto indietro 250. Insomma, attenti alle fregature, vigilare è d’obbligo, ma bando a ridicoli nazionalismi. Vendere l’Alitalia potrebbe essere un sollievo. Il governo dice che ci sono ben 33 manifestazioni d’interesse; tutti la chiedono, tutti la cercano, nessuno (finora) se la prende.
Più che ai sassi, le cifre della compagnia di bandiera assomigliano ai montaliani ossi di seppia. I tre commissari incaricati di collocarla dichiarano di avere in cassa 620 milioni di euro. Il prestito ponte di 600 milioni garantito dal governo ha erogato finora 240 milioni, metà dei quali depositati in garanzia. Secondo una impietosa quanto accurata stima di Mediobanca, la crisi della ex compagnia di bandiera è costata ai contribuenti che pagano le tasse ben 7,4 miliardi in quarant’anni: dal 1974 al 2007 l’onere è stato pari a 3,3 miliardi, quindi ben 4,1 miliardi sono andati in fumo nei sette anni successivi. L’azienda era stata quotata in borsa nel 1996 e aveva trovato un partner industriale in Air France. Ogni tentativo di accordo proprietario, però, è fallito. Nel 2008 la compagnia transalpina, che intanto aveva assorbito l’olandese Klm, ha presentato una proposta respinta dai sindacati e malvista dal governo Berlusconi, il quale ha fatto scendere in campo la cordata dei “patrioti”. Anche loro, però, si sono rivelati un disastro. Grazie ai buoni uffici di Luca Montezemolo, spuntano gli sceicchi di Abu Dhabi: i governi Letta e Renzi favoriscono un accordo con Etihad che prende il 49 per cento, ma non risolve nulla (ora gli emirati manifestano la loro delusione, però sta andando male anche Air Berlin, l’altra loro compagnia europea). A questo punto, non resta che dare la compagnia al miglior offerente.
Ma quanto vale l’Alitalia? Nel 2014 Etihad ha pagato 387 milioni, altri 60 sono stati spesi per rilevare cinque slot da Fiumicino su Londra Heathrow (ormai di proprietà del vettore arabo, poi affittati alla stessa compagnia italiana), mentre 112 milioni sono stati versati per il 75 per cento del programma di fidelizzazione Mille Miglia. Da allora a oggi, l’ Alitalia ha perso 199 milioni nel 2015 e ha chiuso il 2016 in rosso (tra i 400 e i 600 milioni), denari che vanno sottratti al valore iniziale di 790 milioni più i 37,5 per il 25 per cento di Mille Miglia. Dunque, restano poco più di 200 milioni. Un’azienda da buttare? No, ci sono gli slot, gli aerei, i piloti, le hostess, i lavoratori, c’è il marchio, c’è una domanda anche dall’estero (si pensi alle rotte transatlantiche), c’è il turismo come bacino potenziale. Ma Alitalia distrugge il suo valore per oltre un milione di euro ogni giorno che passa, ha dissolto i risparmi dei piccoli azionisti, ha messo nei guai le banche e pesa sulle spalle dei contribuenti che pagano le tasse. Qualcosa del genere è successo anche a Siena.
Cocci aguzzi di bottiglia sorgono in cima alla Rocca Salimbeni, quartier generale del Monte dei Paschi. Nel 2007 aveva comperato per 9 miliardi di euro l’Antonveneta rifilatagli dal Banco di Santander. La più antica banca d’Italia diventava così la numero tre dopo Intesa Sanpaolo e Unicredit Capitalia, da poco maritate. Ma la caduta comincia proprio con quell’errore fatale: un acquisto azzardato senza averne le risorse, pagato due miliardi di troppo (e nessuno ha ancora spiegato il perché), controlli della Vigilanza probabilmente non accurati (soprattutto sui contratti derivati dal nome ellenico, come Alexandria e Santorini), certo non ascoltati. Fatto sta che la Fondazione ha distrutto le risorse che prima avevano tenuto in vita l’universo senese (dal palio alla squadra di basket), i piccoli azionisti sono stati azzerati così come i sottoscrittori di obbligazioni, mentre 26 miliardi di prestiti sono considerati sofferenze, su un totale di 45 classificati come “non performanti”.
Non hanno perso solo pochi orrendi bankster, ma decine di migliaia di piccoli risparmiatori. Per non far fallire la banca provocando un effetto domino sull’intero sistema, è intervenuto il governo (alias i contribuenti) mettendo a disposizione 6,6 miliardi di euro che non ha, quindi aumentando il debito pubblico. Lo stesso capita per la Banca Popolare di Vicenza e la Veneto Banca (qui il governo dovrà sborsare poco meno di 5 miliardi sui 6,4 miliardi di aumento di capitale precauzionale, ma i conti sono ancora tutti da fare). E per le quattro popolari del Centro Italia (Etruria, Chieti, Ancona e Ferrara) vendute per un euro (le prime tre alla Ubi e l’altra alla Popolare dell’Emilia Romagna) hanno pagato i soci, i risparmiatori, le banche sane, la Banca d’Italia con il fondo nazionale di risoluzione: il tutto è costato 3,6 miliardi di euro . Nel caso del Montepaschi, sarebbe stato meglio offrirlo a un socio europeo (tra l’altro il gruppo assicurativo francese Axa è azionista di lungo corso), ma nessuno lo ha voluto.
Vendite benefiche, insomma, o svendite truffaldine? Quella dell’Ansaldo per 791 milioni di euro nel febbraio 2015 è stata molto contestata sul piano strategico (l’Italia è uscita da un settore di punta come le ferrovie) ed è finita addirittura in tribunale. La magistratura ha messo in discussione il prezzo e le procedure, un dubbio che s’è insinuato anche sul mercato, visto che è fallito il riacquisto totale da parte di Hitachi: gli azionisti di minoranza si sono sentiti traditi e molti di loro anche imbrogliati. L’Ansaldo Sts (tra i leader nel segnalamento ferroviario) non è una società in perdita, l’esercizio 2016 si è chiuso con ricavi per un miliardo e 327 milioni. E’ che Finmeccanica voleva concentrarsi nella difesa e ha ceduto il 40 per cento ai giapponesi di Hitachi, i quali si sono presi anche tutta la Breda (treni, in particolare, gli Etr) che da sola non ha la massa critica per competere con i giganti mondiali. Nel dicembre 2015 è partita una denuncia penale dalla società di consulenza londinese Bluebell Partners, la quale con il fondo Amber Capital ha presentato anche un esposto alla Consob. Secondo l’autorità di Borsa, a Finmeccanica sarebbero stati pagati 32 milioni di troppo per la Breda. Bluebell ha chiesto ai magistrati di verificare l’esistenza di un’ipotesi di aggiotaggio sia sulle azioni di Ansaldo Sts sia su quelle Finmeccanica, in quanto quest’ultima avrebbe dato a Hitachi garanzie valutate tra i 70 e i 120 milioni su Ansaldo Breda, senza comunicarle in occasione della cessione nel febbraio 2015. Lo hedge fund americano Elliot (che detiene il 30 per cento di Sts) ha messo in rete all’inizio di quest’anno dati e documenti per illustrare le “colpe” di Hitachi. Se vogliamo essere pignoli si potrebbe dire che Finmeccanica non ha svenduto, semmai ha fatto gli interessi dell’azionista Tesoro a scapito dei fondi e dei piccoli. Anche in questo caso, dunque, stiamo ai fatti. E torniamo a Taranto.
ArcelorMittal (più Marcegaglia e Intesa Sanpaolo) prende in affitto l’Ilva per 180 milioni l’anno. “E sono soldi da restituire alle banche”, tuona Michele Emiliano, governatore della Puglia. Lui avrebbe voluto una riconversione produttiva radicale (forni elettrici invece della colata continua) e in fondo avrebbe preferito la cordata con gli indiani di Jindal, Arvedi e la Cassa depositi e prestiti, per la quale hanno fatto il tifo i sindacati che mal ingoiano i tagli all’occupazione. I dipendenti oggi sono 14 mila, di qui a sette anni, secondo il piano industriale, scenderanno a diecimila. C’è l’impegno a investire 2,4 miliardi: 1,3 nella produzione, 1,1 nell’ambiente; 288 milioni per la bonifica verranno dal miliardo e 200 milioni che il governo italiano ha sequestrato e vuol far rientrare da Jersey. Verrà rimesso in funzione l’altoforno 5 che è stato il vero casus belli. Il ministro Carlo Calenda vuole “irrobustire le garanzie” modificando la legge Marzano sull’amministrazione straordinaria, poi ci sarà una consultazione pubblica durante l’estate e in autunno un decreto ad hoc.
Insomma, il casus belli, non è ancora rimosso. L’Ilva è stata messa in ginocchio dai capitalisti predatori venuti dal nord o da un complesso giudiziario-mediatico che si ritrova con un pugno di mosche in mano? Un referendum per chiudere il siderurgico di Taranto nel 2013 viene disertato. Alle ultime elezioni, il Movimento 5 stelle che vuole “riconvertire ecologicamente il territorio”, pensava di cavalcare l’indignazione popolare. Era sceso persino Beppe Grillo tuonando contro tutti tranne i piccoli inquisitori locali. Invece, ha preso un’altra sonora sberla. Mastica amaro Il Fatto Quotidiano: “Il fronte ambientalista sconfitto dai veleni (interni)”. Al ballottaggio vanno Stefania Baldassarri sostenuta dal centrodestra e Rinaldo Melucci del Partito democratico. Il dato più clamoroso è che l’ex procuratore Franco Sebastio, che ha coordinato l’inchiesta “Ambiente svenduto”, non ha trovato alleati. Il circo dei media e dei magistrati rotola su se stesso, intanto ha creato un effetto valanga. Il conto per l’Italia è salato. E adesso? “Accattatevillo” diceva Sophia Loren in uno spot pubblicitario di successo. Eh già, miseria e nobiltà. La miseria (anche culturale) è tanta, la nobiltà forse c’è, ma per ora non si fa vedere.
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