Il professore oppressore
Non c’è spazio per la predica del neonazista, né per la sua presenza in palestra. Le patologie del “free speech”
Il mese scorso Richard Spencer stava sollevando pesi in una palestra di Alexandria, in Virginia, il sobborgo di Washington dove vive. Spencer è il giovane leader della alt-right, gruppo che si definisce “identitario” e che si è definitivamente imposto all’attenzione del pubblico quando ha organizzato un evento per festeggiare l’elezione di Trump. I saluti romani e i cori “Hail Trump” non sono passati inosservati, anche se la frangia estremista si nasconde dietro a un dito spiegando che i suoi membri dicono “hail” in inglese, non “heil” in tedesco. Abbracciando il motto trumpiano “la cattiva pubblicità non esiste”, nell’ultimo anno Spencer si è fatto intervistare da qualunque pubblicazione e network televisivo, e il suo viso con il taglio di capelli “fashy”, lo stile della gioventù hitleriana, è diventato facilmente riconoscibile anche per il pubblico che non ha confidenza con la lista dei gruppi della supremazia bianca del Southern Poverty Law Center. Periodicamente Spencer viene invitato e boicottato nelle università, dove fra cori di protesta e lanci di oggetti illustra la sua visione nazistoide di una “pulizia etnica pacifica” per riportare l’America alla sua originaria purezza bianca. Una volta si è preso un pugno in faccia mentre rilasciava un’intervista durante una manifestazione anti Trump a cui si era provocatoriamente unito.
Che c’entra tutto questo con il sollevamento pesi? Il fatto è che mentre faceva esercizio con il suo volto riconoscibile, Spencer è stato avvicinato da una signora imbufalita che gli ha spiegato che la sua presenza nella stessa palestra che frequenta lei è “inaccettabile”. Sulle prime Spencer ha negato di essere lui, ha finto uno scambio di persona, ma invece di placare l’ira, l’ha acuita, prendendosi pure del “nazista codardo”. L’alterco è presto degenerato in una lite. Un’altra donna, che non aveva immediatamente riconosciuto Spencer, è intervenuta in sua difesa, con la signora che tentava invano di spiegarle che stava inconsapevolmente “aiutando un nazista”, e una volta che avesse cercato su Google chi era l’uomo che stava difendendo le avrebbe dovuto rivolgere delle scuse. Un dipendente della palestra ha sedato il litigio e allontanato la responsabile dell’incidente dall’edificio. Spencer è tornato a sollevare i pesi.
La persona in questione è Christine Fair, una professoressa di Georgetown e membro del Council on Foreign Relations che non ha mai fatto mistero del suo colorito attivismo in difesa delle minoranze minacciate, e con fervore conduce una battaglia di resistenza al “figlio di puttana” che governa la “Home of the Pussy Grabber”. Il giorno dopo l’incidente con Spencer ha offerto ai suoi lettori su Tumblr un vivace racconto dell’accaduto, dove il leader della alt-right è qualificato come “aborto umano”, “flaccido vigliacco”, “pusillanime pezzo di merda” che dovrebbe essere “fottuto con un gigantesco vibratore, senza lubrificante”; l’avventrice che è accorsa in sua difesa è una inconsapevole collaborazionista; il manager della palestra un “cumulo di letame” che avrebbe “il diritto di cacciare via le persone” come Spencer, che “creano un ambiente ostile”, e invece butta fuori quelli che denunciano pubblicamente i nazisti. Una versione edulcorata della storia è apparsa sul Washington Post, anche questa firmata da Fair. Ricostruita la vicenda, la compagnia che gestisce la palestra si è scusata con la professoressa e ha ritirato la tessera di Spencer, che non potrà più accedere a quell’esercizio né ai servizi collegati. In una nota, l’azienda ha comunicato all’interessato che la sua affiliazione veniva terminata con effetto immediato, ma non ha fornito una motivazione per la decisione.
Fair ha esultato: “La resistenza non violenta funziona”. L’università di Georgetown ha tacitamente approvato la condotta della docente. I litiganti hanno offerto versioni leggermente discordanti di quello che è accaduto quella mattina, ma la sostanza del diverbio non è in discussione. La rissa verbale fra una professoressa e un neonazista in una palestra della Virginia ha sfondato una nuova barriera nella già surreale disputa americana sulla libertà di espressione, un groviglio di paradossi in cui Berkeley, l’università dove è nato il movimento per il free speech, è diventata il teatro di lanci di molotov da parte dei “liberi” per impedire a qualche invitato indesiderato di parlare. Siamo tragicamente abituati agli studenti che aggrediscono i professori con i quali non sono d’accordo, ma i professori che chiedono e ottengono la cacciata da un esercizio commerciale di suprematisti bianchi che sollevano pesi non era ancora capitata.
La questione sollevata da Fair è molto più profonda di quella, contestabile ma comprensibile, di chi non vuole che un provocatore di destra come Milo Yiannopolous articoli le sue posizioni, qualificate come “hate speech” o incitamento alla violenza. Lei sostiene invece che la presenza di Spencer in un ambiente, per giunta un ambiente popolato per lo più da donne e minoranze etniche, è in sé oppressiva. Lui si è difeso dicendo che stava soltanto sollevando pesi, non ha aperto bocca, non ha fatto comizi né proseliti, non ha mancato di rispetto a nessuno, tanto che gli altri avventori, che non conoscendone l’identità lo giudicavano soltanto in base al suo comportamento, ne hanno preso le difese. “Sono un cliente modello”, ha protestato. Questa linea difensiva non coglie tuttavia la questione sollevata da Fair. Per lei il problema non è ciò che Spencer dice o fa, ma ciò che è. Lui ha già chiarito le sue posizioni in anni di articoli, post, tweet, comizi, manifestazioni, ha spiegato eloquentemente da che parte sta marciando con le fiaccole accese nella notte della North Carolina per protestare contro la rimozione di una statua del generale Lee, non ha bisogno di ridefinire ulteriormente il suo credo politico. Fair ne ha concluso che tutte queste prove sono più che sufficienti a condannarlo all’esilio dalla società civile. Un’azienda privata ha confermato il verdetto. Un’università gesuita ha dato il suo implicito assenso.
Occorre chiedersi cosa sarebbe successo se una pasticceria si fosse rifiutata di offrire i suoi servizi al banchetto nuziale di una coppia omosessuale. L’obiezione naturale è: questa analogia è fasulla e ingannevole, perché mette capziosamente sullo stesso piano neonazisti e omosessuali. Certamente è ingannevole, ma il fatto rilevante qui è che il primo emendamento alla Costituzione non fa alcuna distinzione. La sua forza sta proprio nel fatto di essere generale e slegato dai contenuti dell’espressione che protegge, la sua peculiarità è quella di offrire protezione alle minoranze etniche e oppresse e ai nazisti dell’Illinois, senza distinzioni. Secondo la docente, però, le circostanze sono tali da richiedere una fondamentale ridiscussione del principio stesso. L’America, dice, è nella stessa situazione della Germania degli anni Trenta, e in un contesto del genere non c’è posto per i diritti di tutti. In un articolo ha messo in contrasto Spencer con Richard Collins, un afroamericano ucciso da un uomo che su Facebook era affiliato a un gruppo che postava propaganda suprematista: “Questo è il nostro dicembre 1932. Abbiamo una scelta. I buoni possono cedere alle richieste della società perbene e accettare che il diritto di Spencer di sollevare pesi in pace sia più importante del diritto di Collins di vivere una vita piena e produttiva, che essere un suprematista bianco non è un lavoro full time, e che finché non porta le sue fiaccole dentro un edificio pubblico, Spencer e i suoi devono essere trattati come ogni altra persona civilizzata. Oppure possiamo rifiutare di trattare questa ideologia odiosa e pericolosa come un modo qualsiasi di essere, e la combattiamo in ogni posto che occupiamo”.
Per dirla con i termini della neolingua universitaria, Fair sta lavorando per trasformare ogni luogo in un “safe space”, un cortile ideologico recintato dove i cattivi non possono entrare e i buoni possono dire ciò che vogliono. Nel “safe space” anche la violenza è consentita, come sa chi ricorda quella professoressa del Missouri che ha chiesto ai suoi studenti di rimuovere con la forza un giornalista che aveva invaso lo spazio sicuro.
Fair è un caso limite, come sanno i molti che sono finiti sotto la pioggia incandescente delle sue polemiche. Asra Nomani, collega di Fair ed ex giornalista del Wall Street Journal di origini afgane, per 31 giorni ha subito il martellamento via Twitter dell’attivista dopo che ha dichiarato pubblicamente che lei, donna e musulmana, avrebbe votato per Trump. “Idiota” “pagliaccio”, “assetata di pubblicità” sono le qualifiche più gentili offerte da Fair, che ha minacciato la querela quando Nomani ha chiesto l’intervento dell’università: “Il tuo tentativo di mettere a tacere la mia opinione o di costringermi al dialogo mettendo in mezzo il mio datore di lavoro è inaccettabile, e ogni altro tentativo di coinvolgere Georgetown sarà accolto da un’azione legale. I tuoi appelli via email e social media al mio datore di lavoro con l’intento di danneggiare il mio posto sono una forma di cyber bullismo che non sarà tollerata”. Il primo emendamento di Fair vale più di quello degli altri. Robert Spencer, islamologo e vociante critico dell’islam politico (senza parentele con l’altro Spencer) è stato definito “un folle” dalla professoressa, che lo ha paragonato a Charles Manson. Non si sa cos’ha pensato Fair quando, dopo un discorso in Islanda, un attivista locale è riuscito a intrufolarsi nel ristorante in cui Spencer cenava e come in un thriller gli ha messo nel bicchiere una combinazione di ecstasy e metilfenidato. Lo studioso è stato ricoverato d’urgenza. E’ molto chiaro, invece, cos’ha pensato la vittima dell’aggressione: “Dipingendo me e altri che sollevano obiezioni legittime sul jihad e la sharia come razzisti e fanatici islamofobi senza concederci una replica, ci disegnano sulla schiena un enorme bersaglio”.
La professoressa che si sente oppressa e aggredisce gli oppressori in modo seriale, si diceva, è un caso limite, una caricatura del conformismo ideologico del campus, ma se le tecniche estreme di guerriglia politica che impiega con inusitata pervicacia sono appannaggio di pochi, i ragionamenti che srotola in modo esplicito sono sempre più utilizzati in molte università americane. La negazione del diritto di parola nello spazio pubblico, già ampiamente praticata, apre la porta alla negazione del diritto di stare in silenzio, del diritto di sollevare pesi, del diritto di mostrarsi in circolazione. La sola presenza del neonazista della Virginia nello stesso spazio di Fair è un sopruso, e non è difficile vedere dove un’interpretazione del genere del primo emendamento può portare se applicata sistematicamente. Può portare, ad esempio, alle minacce di morte a un professore di biologia che ha detto che il diritto di parola non può essere legato al colore della pelle. Un’ovvietà, no? Non all’Evergreen college, nello stato di Washington, dove da settimane va avanti un’occupazione che qualche giorno fa s’è trasformata in un assalto agli uffici dell’amministrazione con mazze e bastoni.
Tutto è cominciato dal “day of absence”, la tradizionale giornata in cui agli studenti delle minoranze è concesso di saltare le attività accademiche per discutere di questioni razziali. Alcuni gruppi di “sjw”, i social justice warriors, hanno proposto di modificare l’usanza: invece di uscire per trovare spazi di libertà, sarebbero stati gli studenti bianchi a lasciare il campus per un giorno. Il professor Bret Weinstein si è opposto a una linea che non è lontana da quella esibita da Fair: la sola presenza di studenti bianchi in università è un fattore oppressivo, trasuda superiorità e sopraffazione. Quando il rettore ha preso le difese di Weinstein e si è opposto a chi voleva cacciarlo per il “day of absence” si è passati dalle parole alle barricate. Weinstein è stato costretto a lasciare l’università a causa delle minacce, e ha smentito di essere tornato dopo che, qualche settimana più tardi, le acque si erano calmate. Le acque non si sono calmate affatto, e ora il professore dice che non ci sono per lui le condizioni di sicurezza per rimettere piede in università. E’ la logica conclusione del metodo Fair.
Il Foglio sportivo - in corpore sano