“Prima o poi da qualche parte mi vedrete”, annuncia Fabio Fazio (qui con Belén a “Che tempo che fa”) al culmine delle sue esternazioni sul tetto-stipendi. Alla fine, lo vedremo su RaiUno (foto LaPress

Il tetto Rai non scotta più

Andrea Minuz

Stipendio senza vincoli se sei artista di stato. E la stagione degli addii è già diventata quella dei ritorni

La ricorderemo come la tormentata stagione degli addii immaginari alla Rai. La stagione della trattativa stato-Fazio. Tra pizzini a forma di tweet, arrovellamenti esistenziali, dubbi iperbolici, palinsesti appesi a un filo, lettere di Bruno Vespa a Dagospia e pareri dell’avvocatura di stato. Siamo artisti o giornalisti? Siamo la casta o l’anticasta? Siamo il servizio pubblico o il mercato? Mi si nota di più se vado a “Discovery” o se resto? “A La7! A La7!”, dicevano a un certo punto i nostri eroi. Ma si era già sconfinati dalle parti di Molière più che in preda alle disperate lamentazioni di ČCechov. Più cechoviano di tutti però è stato Fazio. Un po’ amareggiato, un po’ immalinconito, un po’ “passive-aggressive”, ha sfoderato tutti i suoi registri migliori. La carta della nostalgia, la Rai di “quando avevo diciannove anni”, le “cose belle fatte insieme”, il “pubblico con la P maiuscola”, il “cavallo unico punto fermo di Viale Mazzini”, l’“ingerenza della politica mai vista prima” e via così, fino al coup de théâtre da sferrare in piedi nella penombra della stanza guardando verso la finestra mentre fuori nevica: “Ormai per me è più difficile restare che partire”. Sipario. Applausi.

 

Ma la stagione degli addii è già diventata quella dei ritorni. Torna Paola Perego “ferita da due donne”, come spiega nell’intervista al settimanale Oggi. E’ tornato “Sarabanda” di Enrico Papi che mancava dal ‘97. Il calciomercato è quello che è, così ci si appassiona al destino dei conduttori televisivi. Chissà se il pubblico di Fazio e Giletti tirerà falsi dollari ai conduttori come hanno fatto i tifosi con Donnarumma. Vedremo. Resta agli atti che la vicenda del “tetto-stipendi”, o meglio il mirabolante psicodramma del “tetto-stipendi”, s’impone come un racconto esemplare dell’italianità. Una delle tante parabole del nostro imperscrutabile rapporto con le regole, giuste o sbagliate che siano. Un segno dei tempi, un famigerato “specchio del paese”. Perché quando ci si appassiona solo alle regole del gioco, vuol dire che il gioco se la passa male. Succede con lo sfibrante dibattito sulla legge elettorale – bellissimo, giustissimo, per carità, salvo che poi tutti ci dimentichiamo cosa bisognerebbe fare una volta al governo. Succede con la tv di stato. Se prima il servizio pubblico doveva inseguire le tv private e i partiti, ora deve inseguire le tv private, i partiti, il populismo, il mercato, Lucio Presta, Caschetto e Ballandi.

 

E' tornato "Sarabanda" di Enrico Papi, che mancava dal '97. Torna Paola Perego, "ferita da due donne", dice in un'intervista

Ma andiamo con ordine. Torniamo all’impennata moralizzatrice dello scorso settembre. Quando il Senato, a larghissima maggioranza, dà il via libera alla proposta avanzata dal Pd, ovvero attenersi a un “limite massimo retributivo di 240.000 euro”, come recitava l’emendamento, relativamente “agli amministratori, al personale dipendente e ai consulenti del soggetto affidatario della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale”, insomma un po’ tutti. Di critiche in quei giorni se ne sentono poche. Anzi. Esulta Calderoli che parla di “fine del Bengodi”, esulta il Pd che parla di “salto di qualità” della tv di stato, di “gesto di grande responsabilità”, di “ritrovata autorevolezza e credibilità” della Rai. Esulta più di tutti il M5s che lo rivendica come “un nostro successo”. Praticamente, un Comitato di liberazione nazionale. Si astiene solo Giovanni Endrizzi dei Cinque stelle che con un guizzo beffardo vuole “lasciare al Pd tutto il merito di passare la paletta dove il M5s ha indicato di pulire” (un po’ come a Roma con la mondezza). Bisognerà “limitare le retribuzioni tenendo conto dei tetti ma preservando il valore e la capacità dell’azienda”, chiosa su tutti Campo Dall’Orto. “Dire che non si possa mai avere un manager con uno stipendio sopra i 240 mila euro è molto pericoloso”, ricorda invece Monica Maggioni. Poi, subito la strada si mette in salita. A novembre, il Cda fa sapere in una nota che “per i contratti di natura artistica, verrà chiesta un’interpretazione puntuale del testo di legge all’azionista ministero dell’Economia e finanze e al ministero dello Sviluppo economico”. Ci sono i dubbi dell’Avvocatura di stato sui compensi degli “artisti”. Ci sono le preoccupazioni degli agenti delle “star”. Ci sono le perplessità di Massimo Giletti che invita tutti a “vedere costi e ricavi dei top player”.

 

“Artisti”, “star”, “top player”. Le parole sono importanti. Quelle che circolano dentro il dibattito sul tetto-stipendi rivelano la fragilità di tutto l’impianto. Quantomeno, la confusione di una Rai che storicamente ha sempre privilegiato il giornalismo e l’informazione rispetto all’entertainment e ora deve appellarsi all’arte. Rispetto agli altri paesi europei, l’investimento italiano in intrattenimento prende solo il 3,9 per cento del valore dell’interno mercato televisivo. Nella gran parte dei casi parliamo di format acquistati all’estero e adattati per il nostro paese. Secondo un pregiudizio che da noi è duro a morire, lo spettacolo è “frivolo” oppure è roba della concorrenza, mentre l’informazione, la fiction civile e la serata “Falcone e Borsellino” sono il segno dell’indubitabile supremazia morale della tv di stato. Quando si cita, quasi sempre a sproposito, il modello Bbc ci si dimentica dei suoi precisi obblighi di produzione indipendente nell’area dell’intrattenimento. Una produzione che si prende un miliardo e mezzo di euro, circa il 9 per cento dell’intero mercato televisivo.

 

Il doppio tavolo delle trattative. Su uno strizzo l'occhio alla indignazione, sull'altro invoco i "top player", il mercato, la qualità

Ecco che in una Rai cucita sui partiti, sulla supremazia dell’informazione e sulle rovine della missione pedagogica improvvisamente si fa largo e si erge su tutto e tutti l’“artista”. Il termine, lo si intuisce, evoca in questo caso personalità molto diverse: da Van Gogh a Antonella Clerici, da Mozart a Amadeus, da Klimt a Carlo Conti. All’Avvocatura di stato il compito di fare chiarezza. Così, come in ogni recita che si rispetti, ecco al secondo atto del dramma l’arrivo puntuale della lettera. La scrive il ministero dello Sviluppo economico e riporta il parere dell’Avvocatura di stato: “I contratti di prestazione artistica non sono inclusi nel perimetro di applicazione del limite ai compensi Rai previsto dalla legge”. L’arte non si spiega, il conduttore non si piega. Si sa, i manager rubano tutti ma gli artisti svettano sopra il tetto come i Beatles sul palazzo della Apple. Va bene. Ma chi sono gli artisti della Rai? Qui le cose si ingarbugliano un po’. A scioglierle ci pensa Bruno Vespa. “Caro Roberto”, scrive in una lettera aperta a Dagospia, “forse ti interesserà sapere che dal 2001 ho un contratto per prestazioni artistiche”. Ovvero, dal 2001 non sono più un giornalista ma un artista come Carlo Conti e Flavio Insinna. Come le 95 tesi di Lutero inchiodate sulla porta della Chiesa di Wittenberg, la lettera in cinque punti di Vespa affissa sul sito di Dagospia diventa l’emblema dello scisma. Mentre tutti guardano il dito dell’Avvocatura di stato, Vespa indica la luna: “Tra un Fabio Fazio che si occupa di Falcone e un Bruno Vespa che fa un programma su ‘Ballando con le stelle’, chi è l’artista e chi il giornalista?”. La faccenda signori è tutta qui. Facciamo televisione, pardon, “arte televisiva” o facciamo giornalismo? Non se ne esce. Come scrive Vespa, e lo scrive in modo davvero limpido, “riconoscere carattere esclusivamente giornalistico a trasmissioni come ‘Porta a porta’ o altre comporterebbe ovviamente la mutazione in giornalistici di tutti i contratti in essere per chi vi collabora”. Chapeau. Nonostante le furibonde sfuriate civili sulla piaga dei vitalizi, anche “L’Arena” di Massimo Giletti è puro spettacolo (francamente l’avevamo intuito). Appena pochi mesi dopo gli applausi unanimi del Senato, la Rai riscopre dunque la necessità di stare dentro il mercato e la concorrenza.

 

Dalla vicenda Donnarumma al tetto-stipendi siamo paralizzati dalla pulsione pauperista, anzi ossessionati dallo stipendio degli altri, come ha scritto Salvatore Merlo sulle pagine di questo giornale. Solo che invece di legittimare il mercato ci attacchiamo alla fede nella maglia o alla potenza misterica dell’arte e dei “contratti a prestazione artistica”. Non siamo riusciti a trattenere “Zoro” ma se non volete che Alberto Angela finisca a Sky o Discovery, basta chiamarlo artista. Prima o poi tornerà. E poi c’è Fabio Fazio. Qui la faccenda è più complessa. Perché Fazio è giornalista, ma ha chiesto la cancellazione dall’Albo (per via dello spot in cui scrutava il mare, passeggiava sui monti, spiegava “l’apertura celestiale della mente” e lanciava la banda larga della Tim). Fazio è artista, su questo non c’è dubbio, ma fa anche la televisione civile con la fascia tricolore, Saviano e l’inno di Mameli. Fazio è tutto. Alla fine viene naturale optare per la trinità: giornalista, artista e “produttore di me stesso”, così “prima o poi da qualche parte mi vedrete”, annuncia al culmine delle sue esternazioni sul tetto-stipendi. Alla fine, lo vedremo su RaiUno. Quantomeno vuol dire che ne è valsa la pena. Agitare lo spettro indignato della lottizzazione, esaltare le virtù del mercato, strizzare l’occhio alla concorrenza passando da una prova generale con Falcone e Borsellino prima di accomiatarsi dal pubblico come un vecchio crooner alla sua ultima esibizione, infine preparare la rinascita con una nuova stagione di “Che tempo che fa” sul primo canale. Addio tetto-stipendi, addio forza di gravità. Che il limite di duecentoquarantamila euro fosse una scemenza lo sapevamo tutti (“è una scemenza” fu il commento di Montanelli all’approvazione del Senato di un tetto-stipendi ai giornalisti di aziende pubbliche nel lontano 1995). Aveva ragione Monica Maggioni quando parlava di “deriva populista che rischia di minare il servizio pubblico”. Ma non bisognerebbe sottovalutare la funzione catartica del gioco del tetto-stipendi. Anzitutto quella di tenere in piedi un doppio tavolo delle trattative. Su uno me ne vado, sull’altro passo al rialzo. Su uno strizzo l’occhio all’indignazione e alle responsabilità del servizio pubblico, sull’altro invoco i “top player”, la concorrenza, il mercato, la qualità, Von Hayek, la scuola austriaca e i “Chicago boys”.

 

Prima il servizio pubblico doveva inseguire le tv private e i partiti, ora anche il populismo, il mercato, Presta, Caschetto e Ballandi

E’ un gioco che viene da lontano. Anzi, non si capisce granché della vicenda tetto-stipendi se non la si inserisce nella lunga, accecante operazione trasparenza che inizia a prendere forma negli anni Novanta, all’ombra del Garante per la privacy Stefano Rodotà. Quando contro gli “stipendi d’oro” della Rai si scagliano l’Osservatore Romano, la Cei, Liliana Cavani e Francesco Storace, all’epoca presidente della Commissione di vigilanza. A ridosso di Tangentopoli fioccano sui giornali le tabelle coi nomi dei manager, le cifre a caratteri cubitali e l’immancabile box con intervista a Rodotà dove si spiega il valore supremo della trasparenza nello stato. Quanto fosse labile il confine tra la ricerca di un’amministrazione pubblica efficiente e la deriva populista l’avremmo capito meglio anni dopo. Allora eravamo troppo presi a inseguire l’ideale democratico degli stipendi on-line. Poi, nel 2010, un colpo di genio. Un emendamento della commissione di vigilanza prevede la pubblicazione nei titoli di coda dei programmi di tutti i compensi e i costi della trasmissione, inclusa la retribuzione degli opinionisti. Scriveva Francesco Merlo su Repubblica: “Quando la proposta verrà accolta il titolo di coda diventerà il momento più atteso, il più seguito, quello dello sfogo, del godimento malsano, della rivincita contro la televisione che ti esclude, contro il divo che non vale niente, perché ogni poltrona è un tribunale e c’è gente che guarda la televisione e straparla con la televisione, insulta, irride e spesso, tra le quattro mura di casa, dà il peggio di sé, con l’accusa, generica ma sempre pronta, di avere fatto dell’Italia una mangiatoia”, e così via.

 

In seguito alla proposta degli stipendi nei titoli di coda, l’Antitrust inviò una lettera al Mise in cui chiedeva di evitare di rendere pubblici i compensi poiché, tralasciando l’effetto-gogna, questo regime di pubblicità avrebbe creato una “evidente asimmetria nel settore televisivo”, avvantaggiando le emittenti private. Poco tempo dopo, il Fatto lanciava l’idea di una “tenda della trasparenza” da piazzare davanti a Viale Mazzini. Peccato non abbia preso piede. Si può ritentare adesso con l’appoggio della giunta Raggi. Magari ci scappa un bel “campeggio della legalità” sotto Monte Mario. Così alla fine il tetto-stipendi si inabissa di nuovo. Per un po’ non ne sentiremo parlare. Ma tornerà a trovarci ogni volta che dovremo nascondere sotto il tappeto del populismo e della dittatura della trasparenza i problemi reali del servizio pubblico, a cominciare da quello più profondo, ovvero il suo deficit di legittimità. Nel frattempo, godiamoci i nostri artisti di stato che volteggiano sopra i tetti degli stipendi.

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