Il tetto Rai non scotta più
Stipendio senza vincoli se sei artista di stato. E la stagione degli addii è già diventata quella dei ritorni
La ricorderemo come la tormentata stagione degli addii immaginari alla Rai. La stagione della trattativa stato-Fazio. Tra pizzini a forma di tweet, arrovellamenti esistenziali, dubbi iperbolici, palinsesti appesi a un filo, lettere di Bruno Vespa a Dagospia e pareri dell’avvocatura di stato. Siamo artisti o giornalisti? Siamo la casta o l’anticasta? Siamo il servizio pubblico o il mercato? Mi si nota di più se vado a “Discovery” o se resto? “A La7! A La7!”, dicevano a un certo punto i nostri eroi. Ma si era già sconfinati dalle parti di Molière più che in preda alle disperate lamentazioni di ČCechov. Più cechoviano di tutti però è stato Fazio. Un po’ amareggiato, un po’ immalinconito, un po’ “passive-aggressive”, ha sfoderato tutti i suoi registri migliori. La carta della nostalgia, la Rai di “quando avevo diciannove anni”, le “cose belle fatte insieme”, il “pubblico con la P maiuscola”, il “cavallo unico punto fermo di Viale Mazzini”, l’“ingerenza della politica mai vista prima” e via così, fino al coup de théâtre da sferrare in piedi nella penombra della stanza guardando verso la finestra mentre fuori nevica: “Ormai per me è più difficile restare che partire”. Sipario. Applausi.
Ma la stagione degli addii è già diventata quella dei ritorni. Torna Paola Perego “ferita da due donne”, come spiega nell’intervista al settimanale Oggi. E’ tornato “Sarabanda” di Enrico Papi che mancava dal ‘97. Il calciomercato è quello che è, così ci si appassiona al destino dei conduttori televisivi. Chissà se il pubblico di Fazio e Giletti tirerà falsi dollari ai conduttori come hanno fatto i tifosi con Donnarumma. Vedremo. Resta agli atti che la vicenda del “tetto-stipendi”, o meglio il mirabolante psicodramma del “tetto-stipendi”, s’impone come un racconto esemplare dell’italianità. Una delle tante parabole del nostro imperscrutabile rapporto con le regole, giuste o sbagliate che siano. Un segno dei tempi, un famigerato “specchio del paese”. Perché quando ci si appassiona solo alle regole del gioco, vuol dire che il gioco se la passa male. Succede con lo sfibrante dibattito sulla legge elettorale – bellissimo, giustissimo, per carità, salvo che poi tutti ci dimentichiamo cosa bisognerebbe fare una volta al governo. Succede con la tv di stato. Se prima il servizio pubblico doveva inseguire le tv private e i partiti, ora deve inseguire le tv private, i partiti, il populismo, il mercato, Lucio Presta, Caschetto e Ballandi.
E' tornato "Sarabanda" di Enrico Papi, che mancava dal '97. Torna Paola Perego, "ferita da due donne", dice in un'intervista
“Artisti”, “star”, “top player”. Le parole sono importanti. Quelle che circolano dentro il dibattito sul tetto-stipendi rivelano la fragilità di tutto l’impianto. Quantomeno, la confusione di una Rai che storicamente ha sempre privilegiato il giornalismo e l’informazione rispetto all’entertainment e ora deve appellarsi all’arte. Rispetto agli altri paesi europei, l’investimento italiano in intrattenimento prende solo il 3,9 per cento del valore dell’interno mercato televisivo. Nella gran parte dei casi parliamo di format acquistati all’estero e adattati per il nostro paese. Secondo un pregiudizio che da noi è duro a morire, lo spettacolo è “frivolo” oppure è roba della concorrenza, mentre l’informazione, la fiction civile e la serata “Falcone e Borsellino” sono il segno dell’indubitabile supremazia morale della tv di stato. Quando si cita, quasi sempre a sproposito, il modello Bbc ci si dimentica dei suoi precisi obblighi di produzione indipendente nell’area dell’intrattenimento. Una produzione che si prende un miliardo e mezzo di euro, circa il 9 per cento dell’intero mercato televisivo.
Il doppio tavolo delle trattative. Su uno strizzo l'occhio alla indignazione, sull'altro invoco i "top player", il mercato, la qualità
Dalla vicenda Donnarumma al tetto-stipendi siamo paralizzati dalla pulsione pauperista, anzi ossessionati dallo stipendio degli altri, come ha scritto Salvatore Merlo sulle pagine di questo giornale. Solo che invece di legittimare il mercato ci attacchiamo alla fede nella maglia o alla potenza misterica dell’arte e dei “contratti a prestazione artistica”. Non siamo riusciti a trattenere “Zoro” ma se non volete che Alberto Angela finisca a Sky o Discovery, basta chiamarlo artista. Prima o poi tornerà. E poi c’è Fabio Fazio. Qui la faccenda è più complessa. Perché Fazio è giornalista, ma ha chiesto la cancellazione dall’Albo (per via dello spot in cui scrutava il mare, passeggiava sui monti, spiegava “l’apertura celestiale della mente” e lanciava la banda larga della Tim). Fazio è artista, su questo non c’è dubbio, ma fa anche la televisione civile con la fascia tricolore, Saviano e l’inno di Mameli. Fazio è tutto. Alla fine viene naturale optare per la trinità: giornalista, artista e “produttore di me stesso”, così “prima o poi da qualche parte mi vedrete”, annuncia al culmine delle sue esternazioni sul tetto-stipendi. Alla fine, lo vedremo su RaiUno. Quantomeno vuol dire che ne è valsa la pena. Agitare lo spettro indignato della lottizzazione, esaltare le virtù del mercato, strizzare l’occhio alla concorrenza passando da una prova generale con Falcone e Borsellino prima di accomiatarsi dal pubblico come un vecchio crooner alla sua ultima esibizione, infine preparare la rinascita con una nuova stagione di “Che tempo che fa” sul primo canale. Addio tetto-stipendi, addio forza di gravità. Che il limite di duecentoquarantamila euro fosse una scemenza lo sapevamo tutti (“è una scemenza” fu il commento di Montanelli all’approvazione del Senato di un tetto-stipendi ai giornalisti di aziende pubbliche nel lontano 1995). Aveva ragione Monica Maggioni quando parlava di “deriva populista che rischia di minare il servizio pubblico”. Ma non bisognerebbe sottovalutare la funzione catartica del gioco del tetto-stipendi. Anzitutto quella di tenere in piedi un doppio tavolo delle trattative. Su uno me ne vado, sull’altro passo al rialzo. Su uno strizzo l’occhio all’indignazione e alle responsabilità del servizio pubblico, sull’altro invoco i “top player”, la concorrenza, il mercato, la qualità, Von Hayek, la scuola austriaca e i “Chicago boys”.
Prima il servizio pubblico doveva inseguire le tv private e i partiti, ora anche il populismo, il mercato, Presta, Caschetto e Ballandi
E’ un gioco che viene da lontano. Anzi, non si capisce granché della vicenda tetto-stipendi se non la si inserisce nella lunga, accecante operazione trasparenza che inizia a prendere forma negli anni Novanta, all’ombra del Garante per la privacy Stefano Rodotà. Quando contro gli “stipendi d’oro” della Rai si scagliano l’Osservatore Romano, la Cei, Liliana Cavani e Francesco Storace, all’epoca presidente della Commissione di vigilanza. A ridosso di Tangentopoli fioccano sui giornali le tabelle coi nomi dei manager, le cifre a caratteri cubitali e l’immancabile box con intervista a Rodotà dove si spiega il valore supremo della trasparenza nello stato. Quanto fosse labile il confine tra la ricerca di un’amministrazione pubblica efficiente e la deriva populista l’avremmo capito meglio anni dopo. Allora eravamo troppo presi a inseguire l’ideale democratico degli stipendi on-line. Poi, nel 2010, un colpo di genio. Un emendamento della commissione di vigilanza prevede la pubblicazione nei titoli di coda dei programmi di tutti i compensi e i costi della trasmissione, inclusa la retribuzione degli opinionisti. Scriveva Francesco Merlo su Repubblica: “Quando la proposta verrà accolta il titolo di coda diventerà il momento più atteso, il più seguito, quello dello sfogo, del godimento malsano, della rivincita contro la televisione che ti esclude, contro il divo che non vale niente, perché ogni poltrona è un tribunale e c’è gente che guarda la televisione e straparla con la televisione, insulta, irride e spesso, tra le quattro mura di casa, dà il peggio di sé, con l’accusa, generica ma sempre pronta, di avere fatto dell’Italia una mangiatoia”, e così via.
In seguito alla proposta degli stipendi nei titoli di coda, l’Antitrust inviò una lettera al Mise in cui chiedeva di evitare di rendere pubblici i compensi poiché, tralasciando l’effetto-gogna, questo regime di pubblicità avrebbe creato una “evidente asimmetria nel settore televisivo”, avvantaggiando le emittenti private. Poco tempo dopo, il Fatto lanciava l’idea di una “tenda della trasparenza” da piazzare davanti a Viale Mazzini. Peccato non abbia preso piede. Si può ritentare adesso con l’appoggio della giunta Raggi. Magari ci scappa un bel “campeggio della legalità” sotto Monte Mario. Così alla fine il tetto-stipendi si inabissa di nuovo. Per un po’ non ne sentiremo parlare. Ma tornerà a trovarci ogni volta che dovremo nascondere sotto il tappeto del populismo e della dittatura della trasparenza i problemi reali del servizio pubblico, a cominciare da quello più profondo, ovvero il suo deficit di legittimità. Nel frattempo, godiamoci i nostri artisti di stato che volteggiano sopra i tetti degli stipendi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano