La fine di un mondo, vista da Joseph Roth e Stefan Zweig
Ebrei erranti. L’amicizia e un destino comune dopo il crollo dell’impero, inseguendo le illusioni perdute
“Dietro a tutto c’è l’uomo. […] E’ lui la creatura più pericolosa,
assetata di sangue e risoluta del pianeta Terra”
(Ernst Jünger, “La battaglia come esperienza interiore”)
Ernst Jünger, con il suo formidabile Nelle tempeste d’acciaio, pubblicato nel 1920, ci ha lasciato una testimonianza esemplare della guerra in trincea negli anni della Grande Guerra; e poi ha sviluppato le sue riflessioni sul vissuto della guerra e sulla sua inumana insensatezza, ma anche sull’estrema dignità del combattente, in La battaglia come esperienza interiore, del 1922. Agghiacciante il confronto, vis-à-vis, tra due soldati nemici: “Vi era un paralizzante secondo di silenzio in cui gli occhi s’incrociavano. Poi si levava un grido acuto, selvaggio, rosso sangue, che marcava a fuoco i cervelli, ardente e incancellabile”. Jünger era un tenente tedesco, austro-ungarici Stefan Zweig e Joseph Roth. Ma, sia Zweig sia Roth erano ebrei e, nello stesso tempo, legati sentimentalmente e culturalmente alla propria patria austriaca. La guerra portò ambedue gli scrittori a sentirsi profondamente legati al destino tedesco. Scrisse Zweig nel 1914, agli esordi della guerra: “Mai l’Austria si è sentita così austriaca, mai però anche così tedesca. […] Ogni parola che pronunciamo, ogni parola che scriviamo testimonia che oggi il nostro sentimento per la Germania non conosce confini, che ogni palmo di terra alsaziana ci è caro quanto la nostra terra”.
Condividevano le sorti della patria austriaca e della cultura tedesca. Viennese Zweig, galiziano Roth, due ebraismi visti in modo diverso
I due ebrei condividevano le sorti della patria e della cultura tedesca. Sino alla fine. Il loro ebraismo, strettamente connaturato alla cultura mitteleuropea di lingua tedesca, alla tradizione stessa dell’impero absburgico e alla sua centralità nella cultura europea tra la fine dell’Ottocento e la Grande guerra, gli anni dell’“Austria felix”, appariva come definitivamente radicato in quella realtà, che i due scrittori ritenevano la vera, autentica casa dell’ebraismo europeo. Era l’età d’oro della sicurezza, anche per gli ebrei: “Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria – scrive Zweig in Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, pubblicato postumo nel 1942 – tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità”. In questa continuità la vita ebraica sembrava protetta e garantita, anche se la provenienza di Zweig e di Roth mostrava i segni di una diversità evidente. Viennese il primo, galiziano il secondo, il loro ebraismo portava il retaggio di condizioni differenti, per quanto la loro amicizia superasse gli steccati di vissuti diversi e di contesti sociali e culturali di provenienza distanti l’uno dall’altro. E, tuttavia, l’ottimismo pervadeva, in varia misura, anche il mondo ebraico dell’impero absburgico: “L’Ottocento – è sempre Zweig a scrivere ne Il mondo di ieri – con il suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta e infallibile verso ‘il migliore dei mondi possibili’. […] Tale fede in un ‘progresso’ ininterrotto e incoercibile ebbe per quell’età la forza di una religione […]”.
Roth era molto meno ottimista di Zweig, perché la sua provenienza, la Galizia, non garantiva agli ebrei quella libertà che la cosmopolita Vienna assicurava a tutti. Viceversa, la Galizia si distingueva ancora per un radicato antisemitismo e gli ebrei orientali provenienti da quelle regioni si distinguevano chiaramente dagli ebrei viennesi. Gli ebrei orientali, nella gran parte, vivevano a Vienna una vita grama: “E’ terribilmente duro essere un ebreo orientale: non esiste destino più duro di quello di un ebreo orientale straniero a Vienna”, scrive Roth in Ebrei erranti, del 1927. Tuttavia, Roth era pur sempre uno scrittore di fama internazionale e il suo essere un ebreo orientale non disturbava affatto la sua vita, per quanto egli sentisse, nonostante la sincera amicizia che lo legava a Zweig, ciò che lo differenziava dal viennese, uomo di mondo nella Vienna della Belle époque. Zweig era il protettore di Roth e Roth gli era sinceramente devoto: “Due persone che stanno per precipitare, ma che per un breve lasso di tempo trovano l’uno appiglio nell’altro”, scrive Volker Weidermann in L’estate dell’amicizia, splendido libro pubblicato da Neri Pozza nel 2015.
Lo scoppio della guerra fu salutato da Zweig come un evento senza eguali, portatore di un “futuro grandioso, di un mondo in movimento” (Weidermann), ma ben presto egli si renderà conto che stava per crollare l’intera civiltà europea. Dal canto suo, Roth si spostò a Vienna, certo che, come Zweig, l’impero absburgico, la “patria comune del cuore”, non sarebbe mai tramontato. L’impero era la patria comune degli ebrei mitteleuropei, nonostante il perdurante antisemitismo nelle sue regioni più orientali. Zweig era entusiasta delle vittorie tedesche. Weidermann scrive: “[Zweig] nel diario annotò: ‘Le vittorie tedesche sono magnifiche!’ Smaniava. Esultava. Scrisse: ‘Finalmente aria di libertà!’. E quanto invidiava a Berlino questi trionfi”. Zweig sentiva con orgoglio che il proprio ebraismo era non solo difeso, ma addirittura esaltato dalla cultura tedesca, dal suo essere austriaco e tedesco nello stesso tempo. Sempre nel suo diario: “Come mai prima, migliaia e centinaia di migliaia di persone provavano ciò che avrebbero dovuto provare in tempi di pace: un sentimento di appartenenza”. Zweig conosceva il sionismo, ma non lo considerava come la soluzione del problema ebraico, anzi; era l’Austria-Ungheria, e anche la Germania, la “patria comune del cuore” per gli ebrei. Leggeva con avidità i giornali austriaci e tedeschi e credeva in tutto ciò che v’era riportato. Scrive ne Il mondo di ieri: “Il piccolo impiegato postale avvezzo a smistar lettere da mattina a sera, dal lunedì al sabato, lo scrivano, il ciabattino, tutti vedevano d’un tratto una nuova possibilità romantica nella loro esistenza: ognuno poteva diventare eroe […]”. Tutti, compresi gli ebrei.
Nel 1936 Roth "è un uomo infelice, perspicace e incattivito. Cerca la salvezza nel passato". L'ultimo incontro a Ostenda
La situazione di Roth era diversa. Quando capì che sarebbe scoppiata una guerra, intuì che sarebbe stata combattuta contro l’odiata Russia e che la vittoria sulla Russia sarebbe stato un evento straordinario. Già la sconfitta russa contro il Giappone, quando egli era ancora bambino, lo aveva comunque riempito di gioia. Ma, dopo un primo momento di esaltazione, Roth si mostrò molto più cauto di fronte alla guerra e alle sorti dell’impero absburgico. La sua vita nel contesto galiziano, ai confini dell’impero, in una regione povera e spesso violenta, soprattutto nei confronti degli ebrei, lo portava a guardare con scetticismo al senso stesso della guerra e ai suoi esiti; e alla sorte degli ebrei austriaci e tedeschi in caso di sconfitta. Tuttavia, le sue emozioni erano contrastanti, anche a distanza di anni.
In una lettera a Zweig del 31 agosto 1933 scrisse: “Ho conosciuto la Prussia e l’Austria in guerra, quando facevo parte di una divisione prussiana. E’ da lì che data il mio patriottismo austriaco attivo”. E, subito dopo, un giudizio sferzante su Thomas Mann: “Detto tra noi, è capace di riconciliarsi con Hitler”. E, invece, la guerra fu persa e gli ebrei orientali, dopo il crollo della monarchia austriaca, dovettero riparare in occidente: “Rinunciarono a se stessi. Si smarrirono – scrive in Ebrei erranti –. La loro malinconica bellezza li abbandonò e sulle schiene ricurve si depositò, grigio strato di polvere, una mestizia senza senso e un cruccio meschino e privo di ogni tragicità. Il disprezzo gli rimase incollato addosso, mentre in passato erano stati presi solo a sassate”. La “patria comune del cuore” non esisteva più. In una lettera del 24 gennaio 1934, scrisse a Zweig: “La mia opinione è che – in futuro come già in passato – solo l’imperatore può salvare l’Austria”. S’illudeva che l’impero sarebbe risorto, mentre il nazismo ormai dominava. Gli ebrei sarebbero stati le prime vittime del nuovo mondo mitteleuropeo.
Il crollo della Germania e dell’impero absburgico fu per i due scrittori la fine del proprio mondo. Sia Roth, sia soprattutto Zweig, iniziarono una peregrinazione che si sarebbe conclusa con la morte. Anche loro divennero ebrei erranti. In uno scritto del 1917, quando ormai tutto era perso, Zweig rifletté autocriticamente sugli entusiasmi della prima ora: “Ed ecco, nel 1914, scoppiare improvvisamente la guerra, il nostro mondo scosso dalla folgore. Nelle strade esultarono le masse, e le guide intellettuali, gli scrittori, i professori, gli artisti – vergogna, eterna vergogna su di loro – esultarono con esse”. Dal canto suo, molti anni più tardi, in una lettera a Zweig del 24 luglio 1935, Roth si disse pronto a rinunciare alle proprie origini ebraiche e vagheggiò un esito impossibile, al limite della follia: “Credo in un impero cattolico di impronta tedesca e romana, e sono vicino al diventare un cattolico ortodosso, forse persino militante”. Il 14 agosto, Zweig così gli rispose: “E’ da circa due mesi che per tutto il mondo è evidente come solo il cattolicesimo combatta eroicamente contro il Terzo Reich; non so quanto questa idea sia fondata, ma sembra reggere”. I due scrittori stavano progressivamente perdendo il senso stesso degli avvenimenti.
"Due persone che stanno per precipitare, ma che per un breve lasso di tempo trovano l'uno appiglio nell'altro" (Volker Weidermann)
Il mondo senza sonno, racconto pubblicato da Zweig nel 1914, era divenuto per i due amici l’angosciosa realtà quotidiana dopo la fine della guerra. Quello che allora scrisse Zweig era ancor più vero per la loro attuale vita di esuli: “Ogni destino genera da sé un altro destino, piccoli cerchi che si allargano come onde nel mare del sentimento e si ingrandiscono, il legame straordinario e l’influenza sulla vita altrui fanno sì che nessuno, morendo, precipiti nel vuoto: ognuno trascina con sé qualcosa dell’altro”. L’ebraismo mitteleuropeo era destinato a scomparire e i due scrittori presagivano quel terribile esito. Il loro attaccamento alla patria era stato soltanto un’illusione che aveva portato a tragiche conseguenze, come mirabilmente ha scritto Élie Halévy in Perché scoppiò la prima guerra mondiale: “Il fanatismo nazionale è qualcosa di molto più formidabile del fanatismo di classe”. Eppure, ancora nel 1936, Roth restava legato al passato. Scrive Weidermann: “E’ un uomo infelice, perspicace e incattivito. Cerca la propria salvezza nel passato. Nella vecchia Austria e nella monarchia. […] Più lui invecchia e più il mondo si rabbuia, più intensa si fa la nostalgia del passato, più idealizza il mondo ormai perduto”. I due amici si ritrovarono a Ostenda nell’estate del 1936, come ai vecchi tempi, ma la loro allegria era falsa, le loro comuni amicizie ormai ripetitive, consunte. Sono mortalmente stanchi, ma si sforzano di essere in forma, per rinnovare la loro superiorità intellettuale nella compagnia: “Due persone che stanno per precipitare – scrive sempre Weidermann – ma per un breve lasso di tempo trovano l’uno appiglio nell’altro”.
Non era rimasta che la profonda amicizia fra i due. Errando per ogni parte d’Europa, si scrivevano sempre più angosciati, sempre più persi. Roth, dopo il suo viaggio in Russia nel 1926 – da cui aveva tratto un’impressione via via sempre più negativa – scrisse una lettera a Zweig, il 30 novembre 1933, in cui rivolse una violenta accusa verso l’“uomo nuovo” che i nazisti e i comunisti aveva imposto con la forza: “Se lei crede, veramente, che il ‘comunismo’ sia meglio del ‘nazionalsocialismo’, […] se lei realmente ritiene che i soviet sono giusti, allora dovrebbe dire anche che i nazionalsocialisti hanno ragione. […] Dove veniamo schiacciati, in Russia, Italia, Germania, è lì che c’è la latrina. E puzza. In nessun modo il comunismo ha ‘cambiato un’intera parte del mondo’. Un cazzo ha cambiato! Ha prodotto il fascismo e il nazionalsocialismo e l’odio contro la libertà dello spirito. Chi plaude alla Russia, plaude anche al Terzo Reich”.
Zweig e Roth reagivano in modo diverso all’orrore del loro tempo. Roth, sempre più arrabbiato, sempre più sradicato dal mondo che lo circondava, morì a Parigi nel 1939; Zweig si suicidò con la sua compagna Lotte a Persepolis, in Brasile, nel febbraio del 1942. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig, bellissimo romanzo di Laurent Seksik, pubblicato in Italia da Gremese, racconta la discesa sempre più angosciosa dello scrittore verso la morte. I due grandi scrittori ebrei avevano chiuso, a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, la loro storia.
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