Un momento della sfilata Fendi Collezione Haute Fourrure autunno/inverno 2017-’18, “Flowers from Another World”, presso il Théatre des Champs-Elysées, a Parigi

Prêt-à-porter, il bluff di Parigi

Fabiana Giacomotti

Le magliette stampate? Meglio altrove. Un fallimento il tentativo di inserire gli abiti di serie nel sacro calendario dell’alta moda

Sarti contro bouticcari, come sessant’anni fa. Parigi avrebbe voluto celebrare il proprio trionfo, rischia di raccogliere i cocci di un disastro. Giorgio Armani, che vi fa sfilare la collezione Privé dal suo debutto, dodici anni fa, ha lasciato intendere di ritenere la capitale francese sempre fascinosa, ma dopotutto non indispensabile perché interessato a un “confronto alto”, e che se dunque il perimetro dovesse spostarsi in via definitiva sulle magliette stampate potrebbe anche restare a Milano dove ha appena riaperto per le clienti delle couture i saloni del suo palazzo di via Borgonuovo affrescati dall’Appiani, e tante grazie. Pierpaolo Piccioli ha mandato in passerella la collezione Valentino couture più moderna e sofisticata di sempre precisando però che “chi fa moda deve saper creare il desiderio”, perché se “copre delle esigenze” sta invece “facendo del marketing” e dunque in buona sostanza un mestiere diverso dal suo, e chi di dovere facesse un po’ di attenzione. Fendi ha posto l’accento sull’eccellenza culturale e sartoriale romana da cui prende origine senza aggiungere altro, anche perché una pelliccia realizzata con duemila micropaillettes in visone rasato e colorato che creano il dipinto di un giardino non hanno bisogno di altri commenti e Karl Lagerfeld, chiamato tre volte sul palco del Théatre des Champs Elysées dall’intera sala in piedi a battere le mani, sorride dietro gli occhiali scuri senza più rilasciare dichiarazioni. Anche Bertrand Guyon di Schiaparelli non ha detto niente, ma forse perché il suo patron Diego Della Valle sa che il pezzo forte del suo atelier è ancora nell’affaccio su place Vendome e che dunque prendere le distanze dalla città non avrebbe molto senso. Insomma, il tentativo di innesto del pret-à-porter di matrice americana nel calendario finora sacro dell’alta moda approvato in fretta e furia dalla Fédération de la haute couture et de la Mode, la vecchia Chambre Syndicale de la Couture che ha cambiato nome e strategia nell’obiettivo di riportare nella capitale i buyer e le clienti d’oltreoceano, intimoriti dal rischio di attentati e in generale in calo del 26 per cento, quasi un milione e mezzo di ospiti paganti in meno, è stato un fallimento su tutta la linea.

 

La vecchia Chambre Syndicale de la Couture ha cambiato nome e strategia con l'obiettivo di far tornare i buyer e le clienti d'oltreoceano

Imbarazzati i francesi, che sulla grandeur hanno fondato il paese; furenti gli italiani, che non di rado hanno dovuto penare anni per farsi accogliere nell’empireo dell’alta moda; forse un po’ sotto choc perfino i nuovi venuti, forse davvero e ingenuamente convinti che una gonna con lo strascico cucita in una stoffa luccicante qualsiasi siano haute couture mentre moda di strada sono le tute e le felpone che tutti i loro clienti portano, appunto, per strada. E dire che le premesse, portare un po’ di linfa nuova in un calendario ancora e sempre asfittico, sembravano ottime.

 

Nella settimana dell’alta moda parigina avrebbero dovuto sfilare non solo sartorie francesi come Dior e Chanel, non solo le sofisticate sartorie italiane di Armani e Valentino, non solo i (relativamente, ormai) giovani Antonio Grimaldi e Giambattista Valli, che da qualche settimana è riuscito a conquistare il cuore e il portafoglio di François-Henri Pinault trasformandolo in socio al 20 per cento e in nuovo innamorato delle sue jeunes filles en fleur per le quali ha rispolverato perfino la tinta prediletta dalla sarta di Maria Antonietta Rose Bertin, il delicato rosa “coscia di ninfa”, ma anche i nuovi nomi della scena inglese e newyorkese, a sua volta sempre più spoglia e in crisi di identità perché la moda sportiva si è trasferita in massa a Los Angeles. Chi punta a vestire le dive hollywoodiane sui red carpet, che è quanto serve per farsi pubblicità gratuita sui social e costringere i giornali a fare altrettanto senza spendere un euro in pubblicità, anzi spingendoli sempre di più verso la canna del gas, deve infatti venire a mostrare gli abiti in Europa. Tutti sembravano molto eccitati per questo cambio di rotta della West Coast e della 7th Avenue, patria dell’abbigliamento in serie e dello styling di fantasia dai tempi del cinema muto. Anzi, già ci si domandava se non fosse stata la presidenza Trump, così sfacciatamente esibizionista, a indurre questo piccolo sbarco di massa fra la giornata di domenica e quella di lunedì. Vi comparivano i belgi An Vandervorst, l’olandese Ronald Van Der Kemp, la doppia coppia statunitense Rodarte e Proenza Schouler, e infine gli inglesi Tamara Ralph e Michael Russo, questi ultimi a dire il vero degli habitué, visto che presentano le proprie collezioni a Parigi da quattro anni e che, per marcare subito le distanze rispetto ai nuovi arrivati, hanno rilasciato una lunga intervista a Vogue America per spiegare come mai avessero ritenuto assolutamente necessario concentrarsi sulla moda per gli “happy few”, e come avessero trovato solo a Parigi le sartine e le famose mani d’oro necessarie per lavori d’ago da cinquantamila euro in su che sono, naturalmente, valutazioni piene di buon senso. Persino io, nel mio infinitesimale, posso confermarvi che negli Stati Uniti come a Londra è impossibile trovare qualcuno capace di usare un telaio e di riparare, figurarsi creare, un ricamo: un’amica che lavora come conservatrice in un importante museo di New York mi ha telefonato infatti disperata, non sapendo dove far restaurare una certa preziosissima tappezzeria del primo Novecento, tanto che alla fine ha dovuto rassegnarsi a spedirla all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, come tutti.

 

La haute couture, "capi unici per donne misteriose, che non si vedono mai per strada ma che si possono sognare", dice Armani

Per farla breve, il 2 di luglio “les américains” si sono dunque spartiti tutti gli orari disponibili nel calendario della Fédération, hanno affittato i palazzi più prestigiosi del Marais che è “sooo cool” e le cantine più suggestive, hanno messo in fresco lo champagne rosé e incaricato abili calligrafe di inviare negli hotel dei giornalisti più in vista e delle possibili clienti, i cui nomi corrono di bocca in bocca e vengono selezionati da costosissime pr con doppio cognome regolamentare, inviti su cartoncino grammatura trecento e grandi mazzi di fiori. Ed è stato, appunto, il patatrac. Esclusi i Ralph e Russo che forse non possederanno gusto squisito ma di certo conoscono il mestiere, le clienti internazionali e i media, compresa la giornalista del Figaro divisa fra la voglia di mandare a stendere quei fabbricanti di abitucci in serie e lo sciovinismo che nei francesi si tramanda indefettibile una generazione dopo l’altra, hanno scoperto che non di alta moda si trattava, non di intarsi e di atelier, non di artigianato, di cultura e meraviglia, bensì di camicette ricamate non si sapeva bene dove ma purtroppo si capiva benissimo come, di tagli a vivo da pochi euro e di volant appuntati e piazzati sul corpo a casaccio o meglio a bandoliera come le borse di chi affronta i mezzi pubblici ogni giorno che, duole dirlo perché si rischia di apparire classisti ma è la pura verità, non è mai il caso delle clienti della couture. Se non vi siete mai seduti accanto a queste signore dalla piega impeccabile e le unghie naturali e lucidissime nascondendo imbarazzati le vostre, scarnificate per lo stress, non potete capire fino a quale punto possano detestare i bustier di An Vandervorst e Filip Arickx pieghettati nei sacchi della spazzatura e come non trovino né divertente, né elegantemente iconoclasta, né minimamente desiderabile una collezione fatta di pezzi di recupero e di materiali poverissimi “perché vogliamo dimostrare che la couture non sta nei materiali, ma nella fattura”, che è una scemenza totale.

 

Nella couture si dimostra solo l’eccellenza e non vi è campo per gli intellettualismi adolescenziali; al limite ci si può commuovere per l’atelier di ricamo in Abruzzo che ha riportato su tulle e organza un numero spropositato di ricami e di fiori in visone intagliato e rasato per l’abito da sposa di Fendi in mezzo alle macerie del terremoto. Chi spende uno, due o anche quattrocentocinquantamila euro per un capo, che è il prezzo della pelliccia di lince intarsiata di fiori e privata delle macchie in alcune fasce ornamentali sulle maniche strappando un pelo dopo l’altro a mano, non solo vuole vedere la qualità nell’esecuzione, che in genere sa anche riconoscere o che, come i nuovi ricchi cinesi ai quali accenna l’amministratore delegato di Valentino Stefano Sassi, stanno “imparando a distinguere molto velocemente”, ma vuole anche sentirsi addosso i tessuti e i pellami più preziosi, impalpabili o pesanti che siano, e trasformare se stesso in un’opera d’arte come nel celebre aforisma di Oscar Wilde.

 

Imbarazzati i francesi, furenti gli italiani, che hanno dovuto penare anni per farsi accogliere nell'empireo dell'alta moda

“Capi unici per donne misteriose, che non si vedono mai per strada ma che si possono sognare”, diceva l’altra mattina backstage Armani, che ne veste parecchie ospitandole sontuosamente, e che in effetti si confrontano l’un l’altra solo in queste occasioni, ed è bellissimo vederli, questi abiti unici, così attuali eppure così identici nei modi e nella fattura a quelli di Eleonora da Toledo, prendere vita fuori dalle passerelle, adattati per donne lontane dai canoni di Bella Hadid. “Quando leggono dal modello il lavoro da fare, le nostre sarte prima si spaventano, poi si arrabbiano, e poi ne diventano straordinariamente orgogliose”, sorrideva Piccioli mostrando uno degli abiti della sua collezione in pizzi diversi e incrostazioni di piume e pelliccia per oltre mille ore di lavoro e tre sarte all’opera per tre mesi, in un richiamo di ispirazione mistica e sensuale che ricorda certamente la pittura del Trecento, ma anche la storia di Abelardo ed Eloisa, e le clienti salutavano abbracciandole anche loro, le première commosse, in backstage dopo la sfilata. Clotilde Courau, Kristin Scott Thomas, Marisa Berenson. Nella haute couture c’è conoscenza reciproca, contatto, scambio: una sarta conosce ogni segreto della cliente che veste, uno stilista ogni desiderio. E’ una dimensione immutabile nel tempo, preziosa e che per di più comincia a rendere oltre alla propria funzione di leva di immagine: Chanel, Armani, Fendi, Grimaldi, Valentino e Valli vendono davvero, a un pubblico nuovo che, dopo aver comprato per esigenze di sfoggio, continua a comprare perché non può più farne a meno. Per questo, la haute couture viene difesa con rabbia, con amore e con passione. E per questo, assomiglia molto di più alla vita reale di quanto si creda.

 

Ne ho avuto la certezza l’altra sera, uscendo dal ricevimento organizzato da Bulgari sul tetto delle Galéries Lafayette, quando con tre colleghi mi sono imbattuta in una milonga improvvisata, flash mob, sulla scalinata dell’Opéra di Parigi. Un centinaio di persone ballavano vecchie melodie nel caldo della notte di luglio, al suono di una grossa cassa posata accanto all’ingresso del teatro. Un collega del tg, abbandonata la cartella sui gradini, ha invitato una signora di mezza età, bionda e un po’ rigida, e si è allontanato a passi lunghi, guidandola con perizia. Di fronte a me, si intrecciava sensuale una coppia magnifica, lui altissimo e slanciato, forse etiope, lei minuta e con gli occhi azzurrissimi delle ragazze di campagna del nord della Francia, e sembrava di vivere una di quelle immagini della Liberazione che abbiamo tutti fissato nella memoria grazie alle fotografie di Doisneau. Gente di ogni età in mezzo alla strada che ballava il tango, due mesi dopo gli Champs Elysées, un minuto dopo uno dei tanti controlli di polizia improvvisati, perché era una notte bellissima di luglio e perché i violini gracchiavano nel modo giusto. E ti veniva da pensare che nessun pazzo alla guida di nessun camion, nessuno stato sedicente o meno potrà mai estinguere questa voglia di celebrare la vita in una notte di luglio. E che per farlo non c’è neanche bisogno della haute couture e dei magheggi della Fédération. Basta un altoparlante con le batterie caricate a sufficienza da arrivare fino all’alba.

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