Alphonse Mucha, Job

Il liberty ritrovato

Maurizio Stefanini

Fiori, nudi e linee eleganti che s’intrecciano: un vortice voluttuoso sulla modernità. Oggetti e manifesti in mostra da Praga a Trieste

Una donna sorridente, dai lunghi capelli dorati che a un certo punto si attorcigliano a spirale, tra il vitigno e il serpentiforme. Potrebbe essere Medusa, potrebbe essere Bacco: ma tra le sue dite appare una sigaretta accesa, e rollata a mano. Il tono torna dunque da una mitologia più o meno inquietante al consumo di massa, e infatti sullo sfondo monocromo si ripete la sigla ripetuta e stilizzata di Job: Joseph Bardou, antica casa per la fabbricazione di carte da sigaretta. Anno 1896: lo stesso in cui il Regio Esercito incappa nel disastro di Adua. Autore: l’allora 36enne artista ceco Alfons Mucha. Tecnicamente, questa litografia a colori su carta formato 58 x 48 non è che un manifesto pubblicitario. Ma al contempo è un’opera d’arte talmente emblematica di quello che oggi viene considerato l’ultimo vero stile internazionale dell’arte planetaria, che è infatti l’emblema della mostra in programma fino al 7 gennaio a Trieste, tra le Scuderie e il Museo storico del Castello di Miramare. “Il Liberty e la rivoluzione europea delle arti. Dal Museo delle arti decorative di Praga”.

   

Liberty: ma la definizione non è affatto unitaria, malgrado siano invece chiaramente unitarie le caratteristiche del fenomeno. “Il colpo di frusta, l’enfasi della linea, la linea serpentina, la linea curva elegante che rincorre motivi naturalistici, viticci, fiori, boccioli in fiore, piume d’uccello, le curve che si avvolgono e s’intrecciano, spirali, volute, un dedalo di rotondità e sinuosità, pieghe armoniose, tornanti e svolte”, è il modo in cui Luciano Celli sintetizza l’essenza di quel “vortice voluttuoso sulla modernità”, in un saggio che accompagna il catalogo. “La linea è l’essenza che imprime all’oggetto connotati espressivi originali con l’obiettivo di declinare una decorazione attiva, vivace, alacre, in un vortice voluttuoso ed euritmico. E’ l’elogio dell’asimmetria, la ricerca del ‘dovuto’ rapporto tra superficie e decoro”.

 

In Belgio, quell’arte nuova la ribattezzarono, appunto Art Nouveau. Essendo in francese l’etichetta finì per diffondersi anche in Francia: sia pure in concorrenza con altre definizioni come Style Guimard, Style 1900, Ecole de Nancy. Ma il francese era la lingua di cultura internazionale del tempo, e dunque finirono per dire Art Nouveau anche i sudditi della Regina Vittoria: sia pure assieme a Modern Style o Studio Style. Sempre nello stesso tono della novità abbiamo inoltre il Niewe Kunst olandese, il Modernismo spagnolo, il Modernisme catalano, il Modern russo, lo Jugendstil tedesco, norvegese danese e svizzero, lo svedese Jugend. A parte l’altra definizione svizzera di Style sapin, andando verso l’Impero asburgico i termini si facevano più polemici, forse perché lì le dispute artistiche si saldavano a una tempesta di altre faide politiche, etniche e religiose. In Austria, dunque, ecco il Sezessionstil. In polacco, la Secesja. In serbo-croato, la Secesija. In ceco, la Secese. In slovacco, la Secesia. In Ungherese, la Szecesszió. Il secondo dei manifesti esposti a Trieste è una litografia a colori su carta di Gustav Klimt con il titolo di “Kunstausstellung… Secession”, che nel 1898 fu utilizzata per pubblicizzare la prima mostra del gruppo di artisti della Secessione viennese. Considerata uno dei primi manifesti moderni in tutta la storia dell’Austria, già scioccante per quella insolita scelta di uno spazio vuoto al centro e del carattere tipografico Antiqua, in “Teseo impegnato a uccidere il Minotauro” simboleggiava la lotta tra la nuova arte e la tradizione, sotto lo sguardo imparziale di Atena.

Quell’eroe, però, esibiva anche degli evidenti genitali, che la censura obbligò poi a coprire con un albero. Pure sequestrato dalla censura, per un giovane con i genitali di fuori innalzato a raccogliere un frutto, fu nel 1910 “Sursum” di Josef Váchal: manifesto di presentazione per la XXVII Esposizione del dipartimento artistico del circolo amici delle arti di Brno. E che dire di quel “Panem nostrum cotidianum da nobis hodie” del 1899 in cui il già citato Mucha per simboleggiare il Padre Nostro in chiave massonica raffigurava l’umanità ad abbeverarsi da un fiume di latte che una Madre Terra ovviamente discinta faceva sgorgare dai propri seni? Assieme a una passione per i motivi vegetali e per il tratto dinamico cui aveva contribuito anche la recente passione per l’arte giapponese, un tratto caratterizzante di quell’arte nuova e di rottura erano infatti i nudi: anch’essi omaggio a una concezione vitalistica della vita, che infatti nella letteratura di quegli anni porta al panismo dannunziano. “E immersi noi siam nello spirto silvestre, / d’arborea vita viventi”.

 

“Il concetto di ‘vita’ ebbe un ruolo centrale nelle teorie estetiche in vigore al volgere del secolo, fu uno schema di pensiero che chiaramente mise in luce tutte le virtù dell’Art Nouveau”, spiega in un altro dei saggi sul catalogo Radim Vondrácek. “L’enfasi sulla vita era collegata in primo luogo all’idea della fonte della continua rigenerazione interiore, dell’eterna giovinezza e della primavera, una vitalità forte che sfidava lo storicismo, visto come esanime imitazione del passato: la ‘Vita’ stessa diventava un creatore, un mezzo artistico”. “Al contempo includeva in sé un forte riferimento alla fisicità come esperienza sensuosa, era sinonimo dell’incontrollata dinamica del movimento corporeo, un ritmo infinito di vita che l’ornamentalismo dell’Art Nouveau cercò di catturare visivamente. Il ritmo come pulsazione viva del mondo pervase l’intero universo e la sua rappresentazione visiva, resa per esempio in termini di decorazione, simbolo di una più alta sintesi artistica in grado di vincere la costrizione materiale delle forme. Questo fu il terreno teorico dal quale provennero le idee sul nuovo stile, inteso come consapevolezza olistica”.

 

L’olismo, però, non impediva i sequestri. Per prevenire gli scandali, alla fine prevalse lo stilema di coprire le zone più cruciali con quei nastri svolazzanti che infatti imperano nelle copertine dei libri di D’Annunzio, nelle tessere dei partiti di inizio ‘900, anche in quei diplomi che alcuni dei nostri nonni tenevano appesi alla parete come Cavalieri di Vittorio Veneto. Ormai completamente de-erotizzate dall’assoluto cambiamento dei gusti estetici, che ci fanno vedere quelle figure femminili coi seni di fuori come troppo giunoniche e al contrario quei giovanotti dal nastro-foglia di fico come troppo allampanati. Vogliamo dirlo? I nastri-foglie di fico delle copertine di D’Annunzio, i trompe-l’oeil delle case in Riviera, le scatole di biscotti coperte da petali svolazzanti al vento, le allegorie a forma di lettera, i gioielli di imitazione egizia, i vetri colorati, i servizi da rosolio, le porcellane iridescenti, le decorazioni architettoniche a fiamma e conchiglia, i ferri battuti: non dà un po’ tutto questo elenco quasi un irrimediabile sapore gozzaniano di “buone cose di pessimo gusto”?

 

E infatti fu nella Torino di Guido Gozzano che durante l’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna del 1902 il Liberty, a detta degli storici dell’arte, raggiunse il suo apogeo. A proposito: “Liberty” fu invece una etichetta tipicamente italiana. Però derivava da quei magazzini londinesi di Arthur Liberty, che esponevano regolarmente oggetti d’arte e tessuti disegnati in stile Art Nouveau alla fine del XIX secolo. E ciò ci ricorda che a far nascere il movimento era stata l’ideologia estetica anglosassone delle Arts and Crafts, che aveva posto l’accento sulla libera creazione dell’artigiano come unica alternativa alla meccanizzazione e alla produzione in serie di oggetti di dubbio valore estetico.

 

Ma qui ci imbattiamo in un bel paradosso. “Emile Zola espresse alla perfezione la temperie della sua epoca quando scrisse: ‘La società moderna è tormentata senza fine da una nervosa irritabilità. Siamo stanchi e stufi del progresso, dell’industria e della scienza’”, spiega Lucie Vlcková in un altro dei saggi sul catalogo della mostra, dedicato invece all’“emancipazione dell’arte”. “Gli artisti furono i primi a riflettere con intensa sensibilità su tali mutamenti. Un ritorno alla natura, alla spontaneità, alla dimensione spirituale dell’esistenza, all’individualità e soggettività riconosciute come valori che ancorano l’essere umano al mondo ebbe profonda eco nelle due principali correnti artistiche di quel periodo: il Simbolismo e il Decadentismo. Le arti decorative risposero direttamente a questi impulsi concentrandosi soprattutto sui valori estetici della natura”.

 

Non a caso, assieme a Liberty in italiano si usa anche il termine “stile floreale”. Insomma, ecologismo ante litteram. Solo che così come le moderne mode naturiste, vegetariane e vegane sono poi saldamente appoggiate a un preciso business che le alimenta e le sostiene, allo stesso modo anche quegli omaggi alla natura entrarono nel consumo di massa proprio perché diffusi dalla moderna produzione industriale e dalla grande distribuzione. Prima dell’apogeo di Torino, un punto importante per la diffusione di quest’arte fu infatti l’Esposizione svoltasi a Parigi nel 1900, nella quale il nuovo stile trionfò in ogni campo. Insomma, Liberty attempato, ma inizio della modernità al tempo stesso. E delle cose antiche ma non troppo, non si dice forse che sono modernariato?

 

Ma qui c’entra anche l’importanza di Praga. A cavallo tra XIX e XX secolo tra le regioni di punta dell’industrializzazione europea, Boemia e Moravia furono infatti proprio per questo anche al centro di quello stile che dall’arte dilagava nel crescente consumo di massa. “Motorová dvoukolka. Laurin & Klement jest nejlepší!”, cioè “Veicoli motorizzati a due ruote. Laurin & Klement è la marca migliore!”, è una litografia a colori su carta del 1905 in cui la silhouette di un contadino ceco su una moto simboleggia mirabilmente il miscuglio e la sovrapposizione tra vecchio e nuovo, industrializzazione e naturalismo, ricerca artistica e utilizzo pratico pubblicitario. Istituito nel 1885, il ricchissimo museo della capitale cerca è stato chiuso nel 2014, per lavori di ristrutturazione della storica sede.

 

Le sue 200.000 opere e la sua biblioteca da 172.000 volumi saranno di nuovo a disposizione del pubblico dal prossimo gennaio, ma intanto una selezione di 200 opere è stata appunto prestata a Trieste. Città cosmopolita da sempre al confine tra mondo latino, germanico e slavo, che di nuovo torna a offrirsi come ponte della Mitteleuropa verso il Mediterraneo e il mondo. Accanto ai disegni, i manifesti pubblicitari sono in primo piano nell’esposizione: assieme a copertine di riviste, progetti ornamentali, carte da parati, gioielli, oggetti di vetro, ceramiche, porcellane, oggetti di metallo, giocattoli, mobili, tessuti, oggetti per la tavola, capi di vestiario. Un’arte veramente totale, quali poche ve ne furono.

Nel prestito ci sono anche sette metri di decorazione del padiglione della Bosnia-Erzegovina che era stato realizzata da Mucha per l’Esposizione universale di Parigi del 1900. Si intitola “L’epoca romana e l’arrivo degli slavi”, è un acquerello a colore stemperato su tela, e fa parte di un continuum che iniziava con il periodo preistorico; continuava in un bordo inferiore floreale a contrappuntare un fregio superiore tratto da leggende bosniache; culminava in una rappresentazione delle tre principali religioni del paese: l’islamica, la ortodossa e la cattolica. I loro seguaci quasi un secolo dopo avrebbero trasformato in un mattatoio la provincia di cui Mucha aveva voluto rappresentare la prosperità sotto il dominio austro-ungarico con oggetti di splendida fattura: ma già di lì a 14 anni nella pacifica Sarajevo effigiata in un diorama sarebbe scoccata la scintilla per la Prima guerra mondiale. Proprio dalla slavità celebrata dall’artista ceco come elemento di arricchimento dell’Impero asburgico si sarebbe scatenata la tempesta da cui lo stesso impero sarebbe stato distrutto.

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