Noi non fummo i Gattopardi, noi lo siamo. Ecco perché
La Sicilia tutta è la terra dei Gattopardi, la terra della decadenza e all’un tempo della rinascita, la terra degli eccessi, degli “infiniti spazi e sovrumani silenzi” di quel “naufragar” che spesso, troppo spesso diventa dolce in questo mare
Noi non fummo Gattopardi, noi siamo Gattopardi. Le code dei tight svolazzano dentro uno sciame di sedie bianche apparecchiate, va da sé, per una festa. Le gonne di voile e chiffon ondeggiano sotto i colpi leggiadri dei passi, naturalmente felpati. Si accennano baci distanti sotto le falde larghissime di cappelli color pastello, ci si saluta senza troppa enfasi ma con sublime gentilezza, si mangia poco ma di qualità, si beve degustando (del resto il vino è sempre produzione di famiglia ma dev’essere venduto e presentato al prossimo Vinitaly) e infine ci si diverte ma con elegante sufficienza.
La misura regola l’eleganza. L’eleganza è sempre regolata dalla misura. L’immagine appena descritta altro non è che una normalissima scena da matrimonio gattopardesco. Location da sogno, fiori bianchi e verdi, ventagli coreograficamente mossi come in una danza dove è ostentata la leggerezza e la scioltezza del movimento. Anche il caldo di metà luglio sembra essersi placato per non involgarire il diafano incarnato con il rossore della calura e per non macchiare le giacche ai signori impinguanti.
Dietro l’oggettiva vacuità che alcuni di noi gattopardi ostentano c’è tuttavia la bellezza di un vissuto che sembra non appartenerci più e invece è più vivo, più dirompente e prepotente che mai. Ci si ritrova tutti come in una Gerusalemme liberata, una comunità dispersa e miracolosamente ritrovata. Ci si parla piano, si evocano le solite parentele lontanissime, ci si imbatte in imperdonabili gaffe, si mandano calorosi abbracci ai vivi e ai morti e ci si congeda sempre con la promessa di una visita che puntualmente non verrà mai mantenuta.
Ma alla domanda “di cosa ti occupi?” ecco che sempre più spesso scatta la magia del nuovo. Uno schiaffo direi a quel genio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che per una volta forse non ci aveva visto bene: perché affinché tutto cambi bisogna che tutto cambi davvero. E cosi è. Via quell’immagine parigina e inutile del Giovin Signore; via l’idea di quei baroni siciliani di fine impero, scialacquoni e ignoranti, trasformisti e opportunisti; via la contrapposizione inesistente tra una sedicente, dispersa e antica nobiltà e tutto il resto del mondo. Dei “natali nobilissimi e perfetti”, con buona pace di Totò, principe de Curtis, resta il ricordo. Sprone forse, ma pur sempre relegato all’interno di quell’aura soave del ricordo.
I nuovi Gattopardi, quelli 2.0, lavorano, inventano e ci provano. Provano a rispettare ciò che possiedono cercando semplicemente di tenerlo in piedi affinché nessuno abbia più a ripetere le parole che Tomasi di Lampedusa usò per descrivere, all’inizio del suo romanzo, il principe di Salina: “… stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività e ancora minor voglia di porvi riparo”. Le case, dunque, ricordo di antichi fasti, diventano visitabili, le ville in taluni casi addirittura hotel di lusso, i luoghi che prima erano appannaggio di pochi ora sono a disposizione di tutti.
Non ci sono più i profumi di cui è intriso un fazzoletto cifrato per rinvenire; adesso basta un rosso in banca per riaversi subito da quella placida mollezza nella quale piace abbandonarsi spesso e volentieri. Agli ampollosi e altisonanti nomi seguono nomignoli affettuosi, ai fattori di palazzo che curavano maldestramente gli interessi della famiglia, la crisi moderna ha imposto una gestione tutta personale e sicuramente più efficace. I gattopardi di oggi alternano le loro giornate fra commercialisti e avvocati, fra inspections nelle loro dimore e ricerche disperate di contributi che possano comunque aiutarli a custodire tesori spesso inestimabili.
Sono i nuovi Mastro Don Gesualdo, poiché i ruoli cambiano e le ruote girano. Poi, terminata una giornata come tutte quelle di chi vive lavorando e lavorando vive, magari indossano uno smoking e accompagnano porgendo il braccio una signora troppo ingioiellata, giocando così al ricordo. Del resto, chi non ha mai giocato al ricordo? Non dimentichiamo, nel soave delirio del ricordo, che la Sicilia tutta è la terra dei Gattopardi, la terra della decadenza e all’un tempo della rinascita, la terra degli eccessi, degli “infiniti spazi e sovrumani silenzi” di quel “naufragar” che spesso, troppo spesso diventa dolce in questo mare. Siamo in fondo un popolo che ha saputo amare, ha saputo appassionarsi e soffrire. Ci hanno dominato senza dominarci, ci siamo resi liberi grazie al gioco sublime che la nostra ironia ha saputo mettere in atto. Del resto, ce lo hanno insegnato fin da piccoli, la libertà comincia dall’ironia. Ma soprattutto abbiamo sfruttato l’allegria per rinascere dalla prepotente volontà che il più delle volte ci ha portati ad autodistruggerci. “L’intelligenza è allegria e regala a chi l’esercita un senso pieno di felicità quanto più sembra liberarsi da un fondo di antica malinconia”. Lo annota il francesista Giovanni Macchia in uno dei saggi inseriti nel “Teatro delle passioni”, un libro che delicatamente assegna grandeur e valore culturale anche alla gaieté della bella e disinvolta Parigi.
Ma noi siamo e restiamo soprattutto il teatro di noi stessi. Esagerati, barocchi, eccessivi, ironici, spettacolari, allegri e tremendamente protagonisti. Siamo tutti un po’ Gattopardi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano