L'opera e il picnic in smoking
Glyndebourne, una tradizione molto inglese. Dove risorge e stupisce un melodramma del Seicento
Nel bel mezzo delle colline del Sussex, in fondo a una strada che piega tra i castagni, c’è un muretto di mattoni rossi che segna l’ingresso di una dimora di campagna. Ci sono un prato, un roseto e un lago che a luglio si riempie di ninfee, basta seguire un sentiero e si arriva di fronte a un teatro e a un piccolo busto di Audrey Mildmay. Era bella, come sempre accade ai ritratti delle donne che si sono amate, veniva dal Canada e un giorno era arrivata proprio qui, a Glyndebourne, per cantare il Ratto del Serraglio alla presenza di John Christie, nella grande sala dell’organo, sotto il Bassano, il Guercino e il piccolo Mozart di Pompeo Batoni. Aveva un vestito giallo. A John bastò uno sguardo e s’innamorò per sempre. La ricoprì di cesti di Fortnum & Mason, pieni di biscotti e fichi secchi, con la Dundee Cake e la marmellata di arance amare, quella con la scorza tagliata a pezzi grossi che sembrava fatta apposta per farle amare la campagna. Cedette poco prima dell’inverno. Si sposarono e decisero che insieme avrebbero dato vita al festival dell’opera più bello del Regno Unito.
John s'innamorò subito di Audrey. Si sposarono e decisero che avrebbero dato vita al festival dell'opera più bello del Regno Unito
Ci arrivano a centinaia, da ogni parte del mondo. Sono soprattutto inglesi e arrivano eleganti, con l’abito lungo e la cravatta nera e il necessario per fare il picnic, per tutta la settimana sperano che non si metta a piovere, hanno preparato il pudding di riso, il parco è grande e con questo sole ci si può stendere sull’erba morbida e restare tutto il tempo a parlare di Wimbledon, della potatura delle rose e di come ha fatto Theresa May a perdere le elezioni o a vincerle per un soffio, se si fosse votato oggi, dopo la Grenfell Tower, quel Corbyn avrebbe vinto facilmente. Alcuni, da queste parti, rimpiangono ancora Margaret Thatcher e sorridono perché sanno che la Manica li proteggerà ancora a lungo dall’Europa.
Sorridiamo anche noi, siamo qui per la terza volta con il nostro smoking. Paolo è in completo Tom Ford, io porto quello di mio padre. L’avevo riadattato per una festa dei diciott’anni, è un mezza stagione, per fortuna non siamo in Sicilia, altrimenti mi sarei già sciolto sotto il peso di questa lana merino, la stessa delle pecore di Glyndebourne, che infatti si muovono il meno possibile. Si staranno chiedendo perché siamo venuti fin qui a vedere l’Hipermestra di Francesco Cavalli, che è stata eseguita una volta sola dal 1658, l’anno della sua prima fiorentina. “Un motivo ci sarà”. I sospetti del mio amico sono infondati, il libretto è seducente e la musica scorre a meraviglia. Tutto merito di William Christie, che della materia è un vero specialista e ha lavorato sulla partitura originale, l’ha ripresa, tirata, imbastita e darà spazio all’improvvisazione, come un Duke Ellington con i suoi orchestrali. Quest’opera segna anche il ritorno al festival di Graham Vick, che ha deciso di ambientare l’opera in medio oriente, ai nostri giorni. Si è parlato molto di questa regia e siamo davvero curiosi, per quanto la ragione ultima del nostro viaggio sia scolarci almeno due Pimm’s, prima ancora di cominciare, passeggiando nel grande parco. La ragazza del bar sembra saperlo da sempre, me li allunga come a dire: “Lo so che siete qui per questo”. Sono freschi quanto basta e non manca nulla, il cetriolo, le fragole, la fetta d’arancia e le foglioline di menta che ci fanno venire una gran voglia di natura e infatti dopo un attimo siamo tra le aiuole a chiederci come fanno i giardinieri di Glyndebourne a crescere dei fiori così impeccabili, sembrano sbocciati tutti insieme stamattina, come i gigli sui gemelli che mi ha regalato mia sorella, ovviamente sono inglesi e perfetti per camminare tra le rose e poi sul campo da croquet e giù dalle scale dove due giovani porter in divisa ci seguono affannati, con il tavolo, le sedie, la tovaglia e il nostro cestino, l’abbiamo prenotato per tempo e camminiamo sicuri e scegliamo l’angolo più lontano del parco, a due passi dal lago. Tra due ore sarà in ombra. L’ideale per il nostro picnic.
Un'immagine commuove fino alle lacrime. Nell'intervallo ci inoltriamo sul prato soffice, ci attende una bottiglia di champagne
Mentre proviamo a farci un selfie davanti a una scultura di Henry Moore, notiamo una coppia di sposi, lei è in abito lungo, ha una cuffietta bianca e un bouquet di rose, lui ha una tunica nera coi bordi d’oro e una gutrah bianca e rossa. Si direbbe saudita. Un fotografo li segue e scatta senza tregua. Pensiamo che sposarsi a Glyndebourne sia una bellissima idea ma poi ecco un’altra coppia e un’altra ancora. Sono tutte uguali e sono ovunque. Sono le cinquanta figlie di Danao, re di Argo. Dovranno sposare i cinquanta cugini e pugnalarli nel sonno durante la prima notte di nozze per evitare che uno di loro, secondo l’infausta profezia, uccida il padre e ponga fine al regno. Ci attende un mare di sangue. Non vediamo l’ora e dopo un minuto siamo ai nostri posti, il teatro è una meraviglia, circolare, compatto e poi è fatto di mattoni bruciati che vengono di certo da Stoke-on-Trent, ci andava mio padre nel dopoguerra a comprare gli ossidi di ferro per fare i facciavista più belli del nord Italia. “Il Beldì si vede dal mattone”, lo diceva la pubblicità ma pure i clienti, a quei tempi si facevano un sacco di case, c’era tanto da ricostruire dopo anni di bombardamenti e di miseria.
Dicono che Michael Hopkins, l’architetto che ha progettato il nuovo teatro, si sia messo a piangere quando ritrovarono, sotto i pavimenti, alcuni disegni a pastello. Li avevano infilati tra le fessure gli orfani accolti qui durante la guerra, erano trecento ed era stato Christie a decidere di ospitarli, sapeva che Hitler non avrebbe mai bombardato Glyndebourne, aveva rispetto per il festival e noi sappiamo bene il motivo: vi si era rifugiato Fritz Busch, dopo aver lasciato l’Opera di Dresda e un’estrema offerta di sostituire Toscanini a Bayreuth e qui, nel 1936, diresse un memorabile Don Giovanni, con John Brownlee e Salvatore Baccaloni e Koloman von Pataky. Il Führer doveva essere geloso e addolorato, forse pensava che un giorno sarebbe arrivato a Glyndebourne da vincitore e infatti non bombardò mai il teatro. Ebbe, forse, gli stessi dubbi di Hipermestra. “Meglio uccidere un amante o veder cadere una città?”.
Si apre il sipario. Il palazzo è sfarzoso e William Christie dirige dal clavicembalo, i musicisti sono in scena, mica c’era la buca ai tempi di Cavalli e poi è un matrimonio e l’orchestra giustamente è tra noi che siamo ospiti della festa, il tutto mi ricorda l’Emirates Palace di Abu Dhabi, dove l’oro è dappertutto e un lampadario di cristalli Swarovski prende un soffitto intero. Il lusso è sfrenato e sullo sfondo le pompe estraggono greggio senza sosta. Cosa si può desiderare più di una vita lussuosa? L’amore, che spesso è sofferenza. E’ il destino di Hipermestra, una brava e bella Emoke Baráth, ama Linceo da morire e nonostante le suppliche del padre non riesce ad affondare il coltello e lo lascia fuggire con l’aiuto della nutrice barbuta, il personaggio più simpatico dell’opera, che passa la mattina a mettere in lavatrice le lenzuola insanguinate. Non può certo immaginare che la profezia, come accade in ogni dramma che si rispetti, presto si avvererà. Hipermestra è rinchiusa in prigione e rapata a zero come una kapó qualsiasi, con quei capelli corti in realtà è ancora più eccitante e infatti Arbante, il generale più cattivo che ci sia, s’invaghisce di lei e la ricatta, come se non bastasse averla sbattuta in gabbia a fare buchi nella sabbia, mica al mare come nei versi di Ernesto Ragazzoni, qui siamo in mezzo al deserto e con due ceffi in abito scuro, con l’auricolare, i Ray-Ban da sole e il kalashnikov sempre pronto.
Erano trecento gli orfani accolti qui durante la guerra: Christie sapeva che Hitler non avrebbe mai bombardato il teatro
Hipermestra soffre ma è un monumento alla fedeltà. Arbante dovrebbe corteggiarla con cesti di leccornie e promesse di festival, finirebbe per cedere come Lady Mildmay, invece prevale in lui l’animo meschino e jihadista e convince Linceo, con l’inganno, che lei l’ha tradito. Linceo, l’ottimo Raffaele Pe, canta la sua collera e avanza con le milizie a suon di esplosioni e di violenze, conquista terreno e pozzi di petrolio, mentre i reporter, in giubbino antiproiettile, filmano il teatro della guerra. Argo è devastata e il re muore, pugnalato senza pietà per mano di Linceo. Che tristezza!
Per fortuna arriva l’intervallo e possiamo inoltrarci sul prato soffice, ci attende una bottiglia di champagne che ci aiuterà a dimenticare ogni dolore, per non parlare dell’uovo scozzese con la zuppa di crescione, dei gamberi, della trota con maionese, del roast-beef e della madeleine, che ovviamente mi ricorda i giorni passati dalla zia a Combray, il primo bacio, la fornace di mattoni... Ci sono brindisi e pecore a perdita d’occhio, ben oltre l’ha-ha, che non è un gruppo anni Ottanta ma una barriera ribassata e dunque invisibile. Protegge il prato inglese dalle pecore ed evita al maggiordomo di stare tutto il giorno a gridare “ha-ha” per allontanarle. Riduzione dei posti di lavoro, insomma.
Il sole intanto si è abbassato, la temperatura è perfetta e saremmo rimasti in giardino anche più a lungo, soprattutto quando scopriamo che di Argo non resta più nulla. Il salone è collassato, centrato da un missile e ora è un ammasso di detriti. Una violinista inizia a suonare tra le macerie, la nutrice è a terra e Arbante al centro imbraccia il kalashnikov sul letto che era di Hipermestra, ora sfatto e insanguinato ed è tutto così familiare, come se fosse bruciata la nostra casa ma poi, in cima ai calcinacci, emerge una testa che si guarda intorno, cerca di capire se qualcuno è sopravvissuto al crollo ed è proprio William Christie coperto di cenere e ci stupiamo che non sia morto pure lui, si muove a fatica, segue il suono del violino e cerca i suoi orchestrali che appaiono uno dopo l’altro sbucando dai pertugi. E’ un’immagine potente e il fatto che io mi ritrovi a piangere è normale, tutto questo è così vicino a quel che vediamo ogni giorno in televisione, ma qui ci siamo immersi, come ai tempi dei nostri padri, quando le bombe cadevano sulle nostre case, a pensarci bene sono passati solo settant’anni, mica un milione.
Allora si fa buio ed è una notte di luna piena. Hipermestra è disperata, il padre è morto, l’uomo che amava ha rovinato ogni cosa. Perché tanta sofferenza? “Chiamo il cielo. Interrogo le stelle. Non si può vivere così”. Decide di farla finita e noi vorremmo dirle di ripensarci e venire a farsi un Pimm’s ma è troppo tardi, si butta nel vuoto come una Tosca. Per fortuna ci pensa un pavone a raccoglierla in volo e a salvarla. Così, dal dramma, si passa al miracolo. I violini si alzano ancora e suonano il ritornello, c’è qualcosa di zingaro nell’aria. Restiamo col fiato sospeso quando Linceo si trova proprio davanti a Hipermestra e inizia a cantare. “Tu pietosa, e io crudele. Tu costante, io infedele”. Lei lo perdona, in verità non ha mai smesso di amarlo. Ma dove la trovi una donna così? Il pubblico l’adora. Dalla guerra nasce l’amore, il regno è salvo e presto ci sarà un’altra grande festa.
In scena l'"Hipermestra" di Francesco Cavalli. William Christie dirige dal clavicembalo, alla regia un ritorno: Graham Vick
Sembra che gli applausi non finiscano più ma è bello, infine, uscire a riveder le stelle e la luna, che anche fuori dal teatro è piena. Faccio un salto allo shop, vorrei prendere alla mia amata il foulard che Grayson Perry ha disegnato quest’anno per il festival. Ci penso un attimo ma poi scelgo un barattolo di confettura. Con questa avrò sicuramente successo. Una famiglia sale su una Bentley, anche i bambini sono in smoking e sono biondi e belli e chissà se andranno a Eaton e diventeranno dei piccoli David Cameron, magari si batteranno per riportare la Gran Bretagna in Europa o in Eurasia o chissà in quale altra invenzione geopolitica pensata per tassare ancora di più le imprese. Noi prendiamo un pullman, come dei piccoli Corbyn o come tanti altri e in venti minuti siamo alla stazione di Lewes e dopo un’ora a Victoria Station e ci basta un tiro di taxi per arrivare da Tony Conigliaro al 69 Colebrooke Row, un cocktail moderno non ce lo toglie nessuno. Prendiamo due Collins alle ortiche, dopo la menta bisognerà pur rischiare qualcosa e seguire l’esempio di Hipermestra, nella vita servono ottimismo e incoscienza e infatti il drink è delizioso, certo sarebbe stato meglio se la città non fosse stata distrutta ma siamo certi che presto ad Argo trionferanno l’amore e la ricostruzione e di sicuro serviranno mattoni per tutti.
Il Foglio sportivo - in corpore sano