Gli scrittori del sole
Voglio stare da solo sull'atollo: tutto per me è laggiù
Michele Mari racconta la letteratura come vocazione, il mondo onirico dentro di sé, la spaventosa forza morale che gli ha dato suo padre, l’infanzia sanguinosa e fiera e quei quattro giorni infernali all’isola d’Elba. Intervista
Michele Mari coincide con la severità di casa sua, e dentro casa sua un po’ si nasconde, gli piace parlare degli oggetti e dei mobili che ha costruito da solo, “nella grafica e nella falegnameria ho ereditato questa propensione da mio padre. Ho un certo talento per fare le librerie quasi a occhio e incastrarle al millimetro”, e preferisce mostrare, invece dei pensieri, le cose che ha fatto quando era bambino. Sono seduta al tavolo di legno del soggiorno, a Milano, e Mari si infila nel tunnel-libreria che ha costruito e mi porta i due puzzle con cui aveva creato i ritratti dei suoi genitori, regalo di Natale dentro due identiche scatole di cartone, e il primo romanzo scritto quando aveva otto anni e mezzo su un libriccino piccolo e nero, L’incubo del treno, che suo padre trent’anni dopo ha rilegato in ottanta copie, scrivendo anche una prefazione in cui sostanzialmente si appropria di quel debutto letterario. “Sono scherzi della memoria”, quasi sorride adesso Michele Mari, che su suo padre Enzo Mari, genio del design italiano, ha modellato le ossessioni e le catastrofi dell’esistenza, e anche il destino di scrittore sofisticato e inimitabile. In Leggenda privata, autobiografia straziante e entusiasmante insieme, uscita da qualche mese per Einaudi, Michele Mari ha raccontato un’infanzia eccezionale e terribile, sanguinosa come il titolo di un altro suo libro importante, la culla di tutto quello che lui poi è diventato: quell’idea di essere allo stesso tempo eccezionali e derelitti, orgogliosi e disperati, la paura e l’amore per un’autorità assoluta, gli incubi notturni che diventano letteratura, l’ironia e una solitudine lancinante.
“E’ stato una specie di ricatto di mio padre, quello che io chiamo l’onere del quoziente. Mio padre fin da piccoli ha condannato me e mia sorella, ma soprattutto me, a celebrare l’intelligenza, a frequentare solo pochi giusti. Lui ti faceva il vuoto intorno con due parole soltanto: quello è un cretino, quello è un deficiente, non frequentare quelli che parlano così, non fare come loro perché loro sono tutti uguali. Io aderivo ai suoi giudizi, li assorbivo completamente, e questo ha fatto sì che io eliminassi tutta una serie di comportamenti perché erano generazionali: non sono mai andato ai concerti, non ho mai fumato uno spinello, non sono mai andato in motorino, perché siccome lo facevano tutti io dovevo mantener fede a questo programma di eccezionalità. Da una parte giustificavo il tutto e me la raccontavo in termini gratificanti: io sono meglio degli altri, io che a diciotto anni mi sono letto tutte le Vite di Plutarco, la lettura dei nostri Alfieri, Foscolo, Leopardi, che si sono titanizzati su questo mito stoico eroico, dall’altra mi sentivo un mentecatto. Avvertivo un senso di superiorità perché ragionavo come mio padre: noi Mari stiamo nel nostro castello, arroccati, torvi, soli, perché mio padre curava anche l’idea che l’uomo di genio sia misantropo, scorbutico, e in più avevo la convinzione, in questa commistione diabolica fra mio padre e mia madre, che il buonumore fosse segno di scarsa intelligenza. Se sei intelligente devi essere triste: questa cosa, pur nella diversità dei caratteri e dei percorsi biografici, apparteneva a entrambi i miei genitori, per cui io ho l’ho fatta mia totalmente”. In questo libro ci sono anche foto in bianco e nero, e nessuno sorride mai, né la madre, né il padre, né lui né sua sorella. “Però io avevo gli occhi per vedere la vita degli altri, per cui mi sentivo anche l’ultimo dei derelitti: così, per tutta la vita, l’ascetismo laico dei miei genitori e l’ascetismo bigotto devozionale di mia nonna, assieme ai miei stessi blocchi e all’eccesso di sublimazione, hanno creato la mia fascinazione per la volgarità, per i corpi, per la vita vera che può fare a meno della lotta dell’intelligenza”. Suo padre è stato un genio, sua madre una donna di grandissimo talento, pervasa da un senso catastrofico della vita e da una tendenza all’autodistruzione, che in vecchiaia l’ha trasformata in quello che Michele Mari bambino temeva più di tutto: “Un ultracorpo”. “Mia madre, morta da quasi tre anni, è invecchiata molto male, un po’ per il declino fisico, un po’ per un cinismo, un malessere, un veleno indotti dalla depressione: è diventata molto anaffettiva, alla fine uno dei miei incubi d’infanzia si è quasi avverato: lei era sempre triste o seria, così quando la sera mi salutava sorridendo, dandomi di nascosto da mio padre il bacio della buonanotte, io sospettavo che fosse falsa, un orrendo alieno ultracorpo, e alla fine mia madre è diventata davvero quell’alieno. Intorno a lei è cresciuta quest’altra persona che ha spento il suo spirito, la sua ironia, la sua grazia. Quando ha smesso di lavorare e di disegnare è proprio implosa, e solo dopo la sua morte ho riscoperto e ricordato la donna che è stata”. Due genitori così eccezionali hanno trasformato Michele Mari bambino in un personaggio di Dickens, senza alcun bisogno di romanzare: “Infatti sono diventato scrittore sulla scia delle letture: vivevo in una famiglia così poco famiglia, così poco affettuosa, così poco morbida e poco avvolgente che ho sviluppato molto presto un rapporto morboso con le cose: mi circondavo di soldatini, macchinine, biglie, figurine, avevo un rapporto feticistico con le cose perché chiedevo in ritorno tutto quello che non mi davano i rapporti umani. Oltre a essere strozzati e raggelati i rapporti con i miei genitori, erano altrettanto disastrati quelli con i miei coetanei: non si poteva frequentare nessuno che non fosse Einstein, e io stesso sono diventato amministratore di questo decalogo, applicavo come un soldatino zelante questi disumani princìpi. Avendo così pochi rapporti e così duri cercavo un mondo alternativo, come il bambino di Shining che fa la doppia voce, la voce schizofrenica dell’altro. Ho cominciato presto a raccontarmi storie di cui ero il protagonista, a farmi paura da solo, ero sempre io che trovavo, inseguivo e ero inseguito, e passavo le giornate a leggere. Tom Sawyer, Mark Twain, Conan Doyle, Calvino, i fratelli Grimm: io ho letto tutto a dieci anni. A tredici anni avevo già letto quasi tutto Conrad, quasi tutto Stevenson, tutto Melville, i racconti di Poe, Jules Verne, Salgari, i corsari, Sandokan. Questi libri erano un po’ in casa un po’ dai nonni un po’ me li comprava mia madre, certi tascabili in edicola come L’uomo invisibile di Wells, e leggendo molto mi sono creato un mondo alternativo che molto presto è diventato il mondo elettivo, quello in cui volevo stare: il mondo che avrei scelto. Mio padre e mia madre per motivi morali e ideologici non hanno mai voluto la televisione, quindi io non sapevo niente, conoscevo solo i libri”.
"Il ricatto di mio padre io lo chiamo: onere del quoziente. Non frequentavo quasi nessuno perché di tutti diceva: è un cretino"
Non ti ribellavi mai? “No, perché anche vivendo tutto questo in termini di durezza e di privazione avevo l’idea che fosse giusto così, c’era una parte di me che era complice e approvava questo modo di stare al mondo”. E in effetti è stato, per dire una cosa eufemistica, formativo, e decisivo per la strada da percorrere. “Da una parte io ho assorbito questa impostazione esistenziale, dall’altra, quando sono cresciuto, c’è stata una reazione, la volontà di differenziarmi. Però la stessa forza morale che mi ha permesso quel giorno di dire a mio padre che volevo iscrivermi a Lettere, di andare contro di lui, mi veniva da lì, me l’ha data lui, con le sue regole disumane e quell’idea assoluta e rigorosa del lavoro. Lui mi ha rispettato eda allora in poi ha sempre detto: quella è la tua strada, non guardare in faccia a nessuno, vai dritto. Dritto come un treno, che era poi il modo in cui lui ha affrontato tutta la sua vita: cominciava a lavorare alle otto di mattina e finiva alle otto di sera senza accendere la radio, senza aprire la finestra, senza andare a far pipì, senza scendere a prendere il caffè, senza bere un goccio d’acqua. Anche quando abbiamo fatto qualche vacanza insieme con passeggiate in montagna, o una passeggiata di tre ore al faro, non ci si fermava nemmeno a guardare il panorama, fino alla meta”.
Hai ereditato tutto questo? “Posso anche io essere una macchina se voglio o devo, sono veloce e rendo e non mi deconcentro. Quando studiavo all’università ero un monaco blindato in casa, macinavo esami uno dietro l’altro, ho scritto quest’ultimo libro in ventitré giorni, però per certi aspetti, ultimamente ho cominciato un po’ a rilassarmi senza sentirmi mostruosamente in colpa. Adesso posso stare anche una giornata a vedermi due film horror di fila e una partita di calcio”. Il calcio è una grande passione di Michele Mari, un atto di ribellione verso il padre Enzo che lo considerava uno sport per cretini, “ho giocato a calcio in modo forsennato per trent’anni, ho giocato in tutte le condizioni ed è stato un piacere puro. Però arrivato a cinquant’anni, quando rischiavo l’enfisema a ogni partita ho smesso. Mi manca moltissimo e davvero non so se per me sia più importante il calcio o la letteratura”. Per la letteratura Michele Mari, classicista, ha una forma di attaccamento “quasi religioso, soprattutto alla letteratura alta che è considerata quasi impraticabile”. Lui insegna anche Letteratura italiana all’università, e se gli chiedo quali sono i suoi modelli letterari, a chi aspira, a chi guarda, esita prima di rispondere, vorrebbe restare ancora un po’ dentro i grandiosi, spaventosi ricordi di infanzia, ma poi cede. “Chissà perché i letterati del classicismo italiano sono considerati roba da museo, infungibile. Sono sempre stato un foscoliano, non ho mai condiviso empaticamente l’idea di Alessandro Manzoni di scrivere in un italiano per tutti, il romanzo per tutti. Io sono dalla parte di Foscolo che scrive in una lingua paludatissima, inattuale al punto di non essere mai esistita. Sono d’accordo con Giorgio Manganelli, che dice che lo scrittore scrive in una lingua di morti per far vedere ai morti che c’è qualcuno, secoli dopo, che è ancora alla loro altezza. Mi rendo conto che è un delirio, però è quello che mi muove: scrivere per essere approvato da uno dei grandi del passato piuttosto che dal lettore di oggi che magari un minuto dopo aver letto me ha elogiato il libro di un autore che a me fa orrore. Io non voglio essere lodato da chi ha dei gusti e una nozione della letteratura che è antitetica alla mia, perché mi sembra di piacergli per caso, o per equivoco. Per cui posso dirti che i miei modelli sono Carlo Emilio Gadda, Ugo Foscolo, Witold Gombrowicz, e non perché voglio arrivare dalle loro parti, ma perché spero di essere uno scrittore originale e atipico come lo sono stati loro. Non mi interessa essere come Alberto Moravia che ha creato il moravismo per cui per trent’anni in tutta l’Italia si sono messi a scrivere come Moravia. A me interessa l’autore balzano, pieno di idiosincrasie, per il quale non esiste un cenacolo, un consorzio. Una cosa che mi ha sempre dato fastidio è l’idea piuttosto diffusa che esista una sorta di complicità generazionale. Non sopporto le idee comuni, gli orizzonti comuni, il linguaggio comune. Se tutti scrivono in un modo, io voglio scrivere comunque in un altro”. Essere controcorrente per forza o per identità?
“Dopo la sua morte, svuotando casa sua qui a Milano, ritrovando le sue cose, l’ho rivista com’era stata: una ragazza piena di talento, atletica, ironica, una grazia che molto tempo fa fu persona”
Essere controcorrente non è un valore in sé – dice Mari – puoi essere controcorrente e essere uno scribacchino, non può essere una scelta a tavolino, bisogna esserlo davvero. Discontinui rispetto al proprio tempo. Per questo sono completamente d’accordo con Edoardo Albinati quando dice: non me ne importa niente dello stato dell’arte. Bisogna vivere in una specie di atollo fuori dal proprio tempo. Preferisco avere commerci con autori morti cent’anni fa e per i quali non esiste il rumore di fondo, il brusio, il pettegolezzo legato a quello che si sa delle persone, chi ha vinto il premio, chi ha recensito chi, chi ha litigato con chi. Per me non è un paradosso sostenere che in certi momenti per essere all’avanguardia bisogna essere reazionari, sul piano delle scelte stilistiche o degli ideali letterari”. Michele Mari ama questa condizione elettiva di giapponese nell’atollo, a cui nessuno ha detto che la guerra è finita, ed è perfino infastidito dal fatto che un suo libro di poesie, Cento poesie d’amore a Ladyhawke (collana bianca Einaudi), abbia avuto tanto successo. “Non sono un poeta, mi sembra di avere usurpato una fama che non mi appartiene, è un grande equivoco e mi sembra di essere diventato una specie di bacio perugina”. Ritorna di continuo l’idea del mondo (non solo del design) di Enzo Mari e di Gabriela Ferrario: non fare il cretinetti, non essere uguale agli altri, ma non solo come condizione stilistica, estetica: è qualcosa di profondo, che riguarda la missione di un’esistenza. “Io associo alla letteratura tutta una serie di valori totalmente démodé, quasi pornografici. Vocazione, ispirazione, predestinazione. So di avere una visione mistico ascetica: tu devi essere un chiamato, dev’essere la cosa più importante della tua vita, non devi farlo perché un anno fai sci d’acqua e l’anno dopo vai a un premio letterario. Ad esempio non ho mai voluto insegnare a una scuola di scrittura perché mi sembra aberrante pensare che si possa diventare scrittori partendo da una scuola di scrittura. Per me c’è una tale unicità in quello che si fa che l’unico modo che avrei per insegnare sarebbe quello di creare tanti cloni di me stesso, ed è l’ultima cosa che voglio. Io voglio stare da solo e essere l’unico”.
Da una parte mi sentivo meglio degli altri, io che a 18 anni ho letto tutte le vite di Plutarco, dall'altra mi sentivo un mentecatto"
Stare da solo, essere l’unico: è vero che è quasi tutto laggiù, nell’infanzia. Con l’ammirato terrore verso un padre unico e solo, penso mentre per sbaglio rovescio un bicchiere d’acqua sul tavolo, a poca distanza dai manufatti di cartone di Michele Mari, e ho un ammirato terrore della sua reazione: corre a prendere uno straccio, non dice niente, pulisce tutto, anche il pavimento, e mi racconta che con i suoi figli ha fatto guasti di diverso tipo rispetto a quelli di suo padre: “Ho cercato di non replicare quel modello così prussiano, e le madri dei miei due figli dicono che sono migliore come padre che come marito, ma so che siamo tutti dei Mari molto autocentrati, molto statici, poco duttili. Non sono mai stato in America, ad esempio: fare la fila al check-in, restare pigiato su un seggiolino per ore mi fa rinunciare a qualsiasi meta, declinare qualunque invito, e mio figlio grande è uguale a me. A Milano vado da decenni in un unico ristorante e possibilmente allo stesso tavolo, come i vecchietti delle commedie di Nino Manfredi. Più vecchi sono i camerieri e più sono felice. Odio tutti i posti di tendenza, dove vanno i grafici, dove vanno quelli del Salone del Mobile. Sono poco curioso. Io non ho mai visto mio padre, che pure era conosciuto da tutti quelli del mondo dell’arte, andare a una mostra: se ne stava barricato in studio a lavorare”. Questo modo di vivere ha dato molti frutti, ha fatto molti danni: “Al di là degli episodi traumatici, urla risse e litigi, la separazione dei miei genitori, quando avevo circa dieci anni, più che un sollievo è stata la salvezza: non credo che avrei retto ancora molto. Ero un campionario di tic, compulsioni, disturbi, facevo la pipì a letto, ero messo molto male. Mia sorella meno, ma anche lei era rattrappita: tutti e due avevamo l’atteggiamento di chi si mette al riparo dalle bombe”. Ho letto in Leggenda privata, dove è esposta tutta l’angoscia del rapporto famigliare, l’episodio terribile della pipì a letto all’isola d’Elba, adolescente, mentre dormiva insieme a suo padre. “Ancora adesso se sento nominare l’isola d’Elba ho un attacco di angoscia tremendo, perché è stato uno degli episodi più terrificanti della mia infanzia. Tre giorni in giro con mio padre senza mai bere dopo le quattro del pomeriggio per paura di non riuscire poi a trattenermi, ma la quarta sera ho ceduto: ho bevuto un bicchiere d’acqua e mi sono svegliato, la notte, dentro l’inferno. Però ecco, una delle cose belle della letteratura è che è una rivalsa elegante, magnanima, sulla miseria e sulla sofferenza. Una forma di vendetta non meschina. Ho ripercorso quelle vicende con un po’ di ariosità, come se io stesso fossi il personaggio di un romanzo drammatico”. Tutto è letteratura e la letteratura crea la vita, dice adesso Mari: “Ho conosciuto la mia seconda moglie, la scrittrice Romana Petri, madre di mio figlio, perché il mio secondo libro, Io venia pien d’angoscia a rimirarti, fu co-recensito da Giorgio Manganelli sul Messaggero insieme al romanzo d’esordio di Romana Petri: quando ci fu la giornata di commemorazione per la morte di Manganelli, ci incontrammo lì per la prima volta”. E la letteratura gli ha permesso di recuperare sua madre. “Dopo la sua morte, svuotando casa sua qui a Milano, ritrovando le sue cose, l’ho rivista com’era stata: una ragazza piena di talento, atletica, ironica, una grazia che molto tempo fa fu persona. Mi sono commosso nel ritrovare i suoi disegni e nel ricordare tante cose. Il pancotto ad esempio. Quando mia madre si è separata eravamo davvero poveri, perché lei non chiedeva niente né a mio padre né ai suoi genitori borghesissimi. Anche per otto-dieci pasti settimanali su quattordici mangiavamo pancotto, pane cotto con un mezzo dado e un goccettino di olio. La variante era il pancotto buono, cioè impreziosito da una spolverata di grana e da una foglia di alloro. Sembra una cosa beffarda ma è una delle più tenere che io ricordi. ‘Bambini, cosa sono questi faccini, sorridete che stasera c’è il pancotto buono’, ci diceva lei, convincendo anche se stessa che quella era una festa. Io mi ricordo che ero felice al pensiero che quella sera avrei mangiato il pancotto con un po’ di olio e formaggio”.
"Mia madre ha perso la grazia e in vecchiaia si è trasformata nel mio incubo di quando ero bambino: un ultracorpo"
La predestinazione, la vocazione, tutto arriva da là, tutto è ancora molto nitido e acceso laggiù. “Per me la letteratura, sia letta sia praticata da me, nelle prime cose che scribacchiavo, è stata un modo di vivere in un mondo determinato da me e non regolato da codici infrangibili. Una volta, da bambino, con entusiasmo avevo iniziato una storia a fumetti inventata da me, ambientata al Polo Nord, e in una delle prime vignette avevo disegnato degli orsi bianchi. Mio padre passa, vede e mi dice: ignorante, gli orsi bianchi stanno al Polo Sud, non al Polo Nord, ti devi documentare! Va di là, torna e mi porta otto tomi di geografia e zoologia. Io ho chiuso e ho smesso, quella storia è finita lì. Per me scrivere è fare come faceva Salgari: inventarsi un mondo, o fare come Vincenzo Monti che tradusse l’Iliade senza sapere il greco, seguendo parafrasi francesi e latine. A un certo punto Monti trova un epiteto di Achille, eukmenides, che vuol dire: dai gambali ben fatti. E lui traduce totalmente a sproposito: coturnati, cioè con il coturno che è il calzare tragico degli attori. Gli amici grecisti, sollecitati da lui stesso, gli dicono: guarda che qui hai preso una cantonata tremenda. E lui dice: avete ragione, ma a me piace di più così. La letteratura è anche questo, è fregarsene e dire: io lascio coturnati. Se metto coturnati dimostro che per me quella guerra, quel massacro decennale, per me fondamentalmente è uno spettacolo teatrale, un’idea quasi pre hollywoodiana. La letteratura è stata per me qualcosa di benedetto, anche nelle sue ridondanze, imprecisioni, iperboli, metafore. A piacermi è questo aspetto irrazionale”.
Dici irrazionale, ridondante, impreciso, ma non dici mai: libertà. “No, e adesso dico una cosa che dicevo anche negli anni Ottanta, Novanta, e mi facevano le pernacchie: per essere scrittori bisogna conoscere il greco e il latino. Mi rispondevano: ma no, semmai bisogna conoscere Bob Dylan. E in effetti uno scrittore mio coetaneo disse: non me ne frega niente di interagire con Petrarca e Tasso, la mia intertestualità è con i Doors. Io sono sempre stato molto più imparruccato, non riesco a concepire me, Michele Mari, senza un passaggio dal greco e dal latino. Mi sembra così scontato che la tradizione ti preesiste e tu ti muovi all’interno di questa tradizione: uno scrittore ha la libertà relativa di chi è comunque dentro un castello, una nicchia, una civiltà, ma non ha la tabula rasa. Però la letteratura è il regno del vago, dell’onirico, del possibile”. L’onirico, gli incubi, le rondini sul filo, l’invenzione fantastica e il mondo intero dentro di sé: “Per parlare del mondo non bisogna preoccuparsi del mondo ma bisogna averlo, inglobarlo. Anche quando ci sono altri personaggi, come Roderick Duddle, io parlo di me, e parlo di me guardando l’infanzia. In un’intervista Bufalino disse: per quanto diversi possano essere i miei personaggi, è come se si chiamassero tutti Gesualdo. C’è molto di vero anche per me in questo. E poi a me non interessa parlare di me come scrittore, persona che vive scrivendo di se stessa, perché quello è il momento della fortificazione, del guscio, della corazza: a me interessa parlare di me prima di essere diventato scrittore. Altrimenti sarebbe un’autobiografia di secondo grado”. Così è come se tu avessi per sempre dieci, dodici, diciassette anni. “Perché è più o meno l’età in cui mi sono sposato con la letteratura – dice Michele Mari, alzandosi dalla sedia e andando per la centesima volta a controllare l’ora, per scappare da qui – alla fine è stato il mio matrimonio più duraturo e riuscito e io sono rimasto imprigionato lì: sono come quel pensionato che torna sempre sul lungomare di Rapallo perché lì ha preso per mano per la prima volta la sua fidanzata”.
Per la serie “Gli scrittori del sole” sono uscite finora sul Foglio le interviste a: Edoardo Albinati, il 24 giugno; Valeria Parrella, il 1° luglio; Sandro Veronesi, l’8 luglio; Domenico Starnone il 15 luglio, Francesco Piccolo il 22 luglio, Melania Mazzucco il 29 luglio.
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