Dannarsi nell'isola degli dei
“La sirena”, un ritratto allegorico della Sicilia nel più poetico racconto di Tomasi di Lampedusa
Raccontami della nostra isola; è una bella terra benché popolata da somari. Gli Dei vi hanno soggiornato, forse negli agosti inesauribili vi soggiornano ancora. Così parlammo della Sicilia eterna, di quelle cose di natura. Parlammo dell’incanto di certe notti estive in vista del golfo di Castellammare, quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso tra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all’erta, teme l’avvicinarsi dei demoni”.
Sono gli dèi, protagonisti e pretesto, a tessere le poche pagine del più piccolo – benché forse più poetico – lascito di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Divinità e uomini, per raccontare una terra, attraverso l’incanto di un amore impossibile.
"Quasi un diversivo dopo il rifiuto del 'Gattopardo' da parte di Mondadori". Il racconto è stato pubblicato postumo
Secondo dei tre Racconti pubblicati postumi da Feltrinelli, La Sirena, o Lighea come la vedova di Tomasi aveva intitolato il manoscritto ritrovato, bozza di primo capitolo per un romanzo mai concluso, fu scritto nel ‘56, e fu, secondo quanto rivela la prefazione firmata da Gioacchino Lanza Tomasi, “quasi un diversivo dopo il rifiuto del Gattopardo da parte di Mondadori”: rifiuto che, è cosa nota, troppo tardi si mutò in successo per Tomasi, che giusto sessant’anni fa moriva senza sapere che la sua opera sarebbe diventata emblema e ritratto di un’epoca e di un popolo. Tornano, nei Racconti, i Gattopardi, e tornano ne La Sirena, dopo aver già cambiato pelle in ragione del mutare dei tempi: voce narrante è uno spiantato Paolo Corbera di Salina, trasferitosi a Torino dopo il tramonto borbonico, per lavorare a La Stampa. Discendente di quel principe Fabrizio che giganteggiava di autorità e fascino tra le pagine del Gattopardo, della grandezza atavica non conserva che il ricordo: “Tutte le Gattoparderie – racconta – erano concentrate in me solo”. L’homo novus, invece, in questo caso non è più un parvenu come Sedara, ma è il senatore Rosario La Ciura, nato da mezzadri proprio dei Salina, riscattatosi sui libri fino a raggiungere una cattedra in quella che fu Capitale. L’incontro tra i due avviene nell’Ade di un caffè torinese, ed è preludio allo schiudersi di un mondo, che il vecchio, confidandosi, lascia al giovane, come eredità.
La storia, infine, è una storia d’amore. Sospeso, ed eterno, di un uomo per una dea.
“‘Dovrò raccontarti la mia avventura che è inconsueta. Essa si è svolta quando ero quel signorino lì’, e m’indicava la sua fotografia. ‘Bisogna risalire al 1887’”. Isolato per studio tra gli scogli del siracusano, un giovane La Ciura incappa nel più vero tra i sogni, balzato fuori dal mare.
“La vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono tra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressine accessoria; esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi”.
Inizia così, dunque, con una confidenza e un ricordo, il ritratto allegorico che Tomasi regala alla sua terra disgraziata. La favola bella de La Sirena ha un luogo, Augusta, lungo le coste siracusane; e una data: l’agosto di centotrenta anni fa. Il cielo, allora come oggi, infuocava d’estate, nella terra del mito, declinata alla maniera continentale, con un generico “laggiù”: come fosse un altrove, o come fossero gli inferi. Quello che sarà un grecista di fama, si prepara ai concorsi a cattedra nel silenzio di una baia. “Lo studio di argomenti remoti, tessevano attorno a me come una incantazione che mi predisponeva al prodigio. Questo venne a compiersi la mattina del cinque agosto, alle sei”.
Emersa dal mare come l’isola stessa, la Sirena di Lampedusa sovverte tutte le leggende. Da subito.
“Sono Lighea – dice la Sirena al giovane eletto – sono figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto”. Millenaria adolescente, questa divinità incosciente è una “belvetta crudele”, impaziente e selvatica, che “non mangiava che roba viva”, e che rimane, marchiata e indelebile, sulla pelle di chi l’ha conosciuta, continuando a chiamare, fino all’ultimo dei giorni. “Il canto delle Sirene, Corbera, non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce”. Come è l’amore, come è l’appartenenza: della Sicilia che abita Lighea è simbolo vivo.
Non è più la semidea a infrangersi sul muro dell'acqua, ma è l'uomo, che per tutta la vita ha resistito al richiamo, a perdersi in un'onda
E come Ulisse si legava all’albero maestro per resistere alla tentazione, La Ciura, e i siciliani tutti, per sfuggire al richiamo dell’isola Lighea possono dimenticare, evitando il mare. Perché il mare chiama. Incessantemente. Ma a quell’amore che è perdizione, alla fine La Ciura, non può che affidarsi. Liberandosi, finalmente, e accettando la morte come vita. Sono gli anni della scomparsa di Majorana, e come lo scienziato, il grecista di Tomasi, ormai vecchio, si perde in mare cadendo dal ponte della nave Rex, in rotta verso Napoli (Partenope, memoria anch’essa di una sirena) lasciando il Gattopardino Corbera come unico depositario di una verità incredibile.
Ribalta così la leggenda, Tomasi: non è più la semidea a infrangersi sul muro dell’acqua, mutandosi in spuma di mare per espiare un amore impudico, ma è l’uomo, che per tutta la vita ha resistito al richiamo, che si perde finalmente in un’onda. Libero, alla fine.
“Io ti ho amato – è la promessa di Lighea – e, ricordalo, quando sarai stanco, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato”.
Sonno e veglia, vita e morte, e il destino segnato di perire in mare se qualcuno avesse osato resistere alla sua malìa, la Sirena è l’essere indefinito per eccellenza: Sfinge, uccello, vergine o pesce, è imprendibile anche nell’aspetto la Sirena dei racconti antichi, dall’Odissea alle fiabe del Nord, che in Tomasi diventa un volto della “bella morte”, come scrive Nigro nel suo Il principe fulvo (Sellerio, 2012). E solo Tomasi ha saputo fare di un essere mitologico anche un luogo, e un destino. Celebrando con orgoglio la ferinitas brutale di una divinità incompiuta, ibrida: è pura Natura, la Sirena, e come il Dioniso suo fratello è bestia ed è Dio, e ha nella bestialità la propria divinità. Così Lighea, e ogni Sirena, e ogni animale che dell’uomo rivela l’istinto, di sangue ha rigate la bocca e le mani, sempre, nell’urgenza di divorare vite altrui insieme alla propria. Promiscuamente, indististintamente.
Ma soprattutto è Sicilia, Lighea; e il racconto del suo amore con il razionale e serio La Ciura non è che il distillato di ciò che l’autore stesso arabeggiò nel Gattopardo. Tra le due opre, una continuità ideologica tra le realtà perdute: dove lì erano i fasti borbonici a perire in favore del nuovo corso politico, qui sono i ricordi di un passato ancora più grandioso, fatto di mito e di divinità, a richiedere un forzato abbandono, anche se mai un oblio nella memoria. Il racconto, così, si costruisce in dialogo con l’opera principale, e riapre i giochi: si spostano, i Gattopardi, cercando altrove la sopravvivenza, ma mai la Sicilia li abbandona.
Non poteva avvenire altrove, infatti, questo incontro, perché non si tratta – nel libro – di un incontro tra un uomo e una donna, tra chiunque e chiunque. E’ Utopia, piuttosto, è l’incontro salvifico e dannato di un uomo con la sua terra, che è il suo destino e la sua rovina: è infatti carnale e affamato, questo amore tra uomo e divinità, che divorando dà vita, totalizzante e sincero.
Nell’intreccio felice tra due anime opposte Tomasi pare tratteggiare per allegoria quel gorgo fascinoso che avviluppa terra e mare, fiamme e neve, piano e monte, Etna e Valle. Con la ordinaria complessità che dei siciliani intesse la carne, e della Sicilia disegna il profilo. Così, Lighea è una terra, ed è un popolo. Perché è l’isola, ad essere Lighea.
Diventa casa e terra, Lighea: nelle parole di La Ciura è eminentemente la Sicilia greca che gl’isolani abitano anche e soprattutto quando sono lontani, ma è anche il sangue arabo che cuoce e insieme quello normanno che gela; è il sangue latino che lotta, e quello spagnolo che di ogni cosa fa poesia.
E' il sangue arabo che cuoce e insieme quello normanno che gela; è il sangue latino che lotta, e quello spagnolo che di ogni cosa fa poesia
Quel regionalismo che giustamente viene individuato in tutta la letteratura siciliana, si fa qui costitutivo, endemico, perché altrimenti non potrebbe essere. L’intreccio si fa funzionale allo stile, e la trama sottesa presuppone un accordo con il lettore: come nel Gattopardo, qui si racconta una sicilianeria, mescolando l’elemento mitico a quello storico, e ciò che è stato sull’Isola si deve sapere. Il risultato è il racconto di un tutto, che non può esistere fuori da quel luogo, e non può riguardare un protagonista non appartenente a quel popolo, che come la Sirena non si riduce a una natura sola. Frutto di incroci innumerevoli e commistioni infinite di sangue e culture, tutte portate dal mare come dal mare sono portate le sirene, il popolo che Lampedusa canta è un popolo tanto bastardo da sentirsi un popolo fatto di divinità. “Gli dèi vi hanno soggiornato – appunto – forse negli agosti inesauribili vi soggiornano ancora”. Dèi grandiosi, come il principe Fabrizio, e dèi animali, come Lighea: in lei è quello stato ferino che è negl’isolani. In lei è quella carnale, primitiva, maniera di conoscere le stagioni dal profumo dell’aria e dall’angolo che la luce del sole traccia sulla terra.
Le gattoparderie, le sicilianerie, trovano così ragione, abbandonando crinoline e fasti per rivelarsi, nude. Nuda è la Sirena, perché è Verità: aletheia, nella lingua greca che Lighea parla con il suo amante, è la caduta del velo che copre la realtà agli occhi di chi sa guardare.
E nudo è il professore, nella sola immagine di sé che conserva, e che nel giovane Gattopardino genera stupore, quasi pudore. “Un Dio greco”, pensa Corbera alla vista di una fotografia rivelatrice. “Quello fu, è e sarà Rosario La Ciura”, sentenzia il vecchio. Netto da tutte le sovrastrutture con cui ha coperto cuore e anima negli anni d’esilio, per riparsi dal freddo dell’inverno del Piemonte, dove si rifugia lontano dal mare che chiama, e da quello della solitudine e dell’attesa, La Ciura è l’anima razionale e colta di una Sicilia che del suo studio fa un vanto, che si rivela disarmata, esposta al rapimento, ma è al contempo un’anima pura, e ingenua, che per tutta la vita non concepisce che un unico amore. Solo e nudo era La Ciura, nel momento dell’incontro con Lighea, e così rimase per le tre settimane di quell’interminabile estate: l’unica sincerità che Tomasi concede al suo alter ego, contraltare burbero e scontrontroso di quel principe Fabrizio, che nella signorilità votata all’estizione di una classe e di sistema è l’altra faccia di una stessa medaglia. Il Corbera perduto, emigrato, e giovane, anch’esso “una maschera” dello stesso autore, in fuga, anche lui e anche lui ancorato all’origine.
Come nel mito rapiscono, le sirene. Ammaliano: incantano e ghermiscono, e per sfuggire bisogna combattere contro l’impulso e la voluttà, come solo Ulisse seppe fare. Amano soltanto, invece, dice Lighea al suo giovane, eletto, amante d’una eterna estate.
E questo fa, la Sirena di Lampedusa, con chi tocca le poche pagine che la raccontano. Sceglie la preda, da uno scaffale di libreria, l’incanta e la rapisce. Portando con sé, e facendosi portare, dentro le vene, da chi per sventura o benedizione, ne ha sentito il canto.
“Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose”: è il primo canto che le Sirene dedicano a Ulisse nel dodicesimo libro dell’Odissea. Attrazione e nostalgia, fuga e ritorno, nell’eterno straniamento dell’abbandono.
Per questo il giovane Sasà ha dovuto lasciarla, la terra, per non sentire quel fuoco, quella salvezza distruttrice, che avvolgendolo lo avrebbe legato e portato a fondo.
Per questo, volta le spalle. Per salvarsi, perdendosi, da una bellezza che distrugge. Come il sole d’agosto, che illuminando acceca.
Ritorna, frequente in una letteratura che della propria cifra nostalgica si compiace, quel pensiero costante ad un amore perduto che è lo stesso che strappa via Salvatore dal Nuovo Cinema Paradiso nel film di Tornatore. “Vattinni. Chista è terra maligna”, gli dice il suo mentore, Alfredo, cieco come Argo e come Tiresia, e pertanto veggente, dopo aver visto del mondo fuori solo immagini di celluloide. Vattinni, e non guardarti indietro mai, ché la voce di quello che lasci ti ammalia e ti riprende. Vattinni: non ascoltare il bel canto, come Ulisse che legandosi resiste. Vattinni: muori a te stesso, al tuo istinto e alla tua carne, se vuoi vivere.
Una terra generosa e maligna. Ti spiega la vita, l'amore e la bellezza, te ne mostra di insostituibili, e te li nega poi per sempre
E’ storia di abbandoni e di ritorni, la storia dell’isola e del suo mare. Come ha fatto la Ciura, innamorato fino al sacrificio di sé. Come ha fatto il giovane Corbera, figlio ultimo di un’idea di Sicilia e di Stato che non poteva più vivere: entrambi uniti da una delusione mai detta, eppure così vera. Da una speranza che tale è solo in virtù del suo essere irrealizzabile.
E’ terra maligna, questa Sirena a tre punte, generosa che potrebbe darti il mondo – tutto – nello spazio di uno sguardo; per vendicarsi poi, gelosa, da seccarti la gola col sale del deserto. Ti spiega la vita, l’amore e la bellezza, te ne mostra di insostituibili, e te li nega poi per sempre.
Perché è per gli dei, quella violenta bellezza. Non per gli uomini.
E beato chi, alla fine dei giorni, saprà tornare ad essere un dio.
Il Foglio sportivo - in corpore sano