La giustizia dei pataccari
Non solo Ciancimino. L’ultimo bluff che ha sedotto l’antimafia dei teoremi è un architetto agrigentino
Fra qualche anno di Giovanni Aiello si faticherà a ricordare il nome. Nella letteratura giudiziaria sarà semplicemente “faccia da mostro”. Cos’altro può essere stato un ex poliziotto con un soprannome simile se non un poco di buono? Aiello, lo sfregiato in volto, che ha fornito il telecomando per la strage di via D’Amelio. Aiello che ha coperto la fuga dei killer dell’agente Antonino Agostino e amico di quel manigoldo di Bruno Contrada. Aiello che ha ammazzato l’urologo Attilio Manca. Aiello che partecipava alle riunioni nello scannatoio di Cosa nostra in un vicolo del rione Acquasanta, a Palermo, da dove partirono i killer che uccisero Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninni Cassarà e Natale Mondo. I ragazzini facevano baldoria e i boss li zittivano minacciando di chiamare il “mostro”. Ce l’avevano lì, in carne e ossa. Non avevano bisogno di evocare l’orco delle fiabe.
Per una grossa fetta di opinione pubblica, stampa e magistratura Aiello ha commesso le peggiori nefandezze, anche se non c’è alcuna sentenza di condanna. Ora che è morto di infarto la prospettiva cambia, gira a favore dei complottisti. “Si è portato i segreti nella tomba”, ha già scritto, non a caso, qualche commentatore rispettando il più scontato dei copioni. In realtà la sua tomba diventerà la cassaforte dei misteri. Non esiste posto migliore di una sorda e muta sepoltura per seppellirvi verità spacciate come tali, senza essere mai riusciti a dimostrare che lo fossero davvero. Sarà stato anche il peggiore dei poliziotti, una canaglie di stato, ma Aiello è morto da incensurato. I sospetti alimentati dai pentiti non sono diventati prove. Ma la morte è sufficiente per finire inghiottiti nel meccanismo perverso per il quale si è colpevoli, e non innocenti, fino a prova contraria.
Il drammatico riconoscimento di “faccia da mostro” eseguito qualche tempo fa da Vincenzo Agostino è la cifra di una giustizia che annaspa anche per colpa di quei pentiti che dovrebbero agevolarne il percorso. “E’ lui”, disse senza esitazione il padre del poliziotto assassinato nel 1989 con la moglie Ida Castelluccio. Papà Vincenzo non taglia la barba da anni. Lo farà solo quando conoscerà i colpevoli. E’ il dramma di un dolore eterno che merita rispetto. La famiglia Agostino è due volte vittima. Privata degli affetti con il piombo e privata della soddisfazione di guardare negli occhi l’assassino. “E’ lui”, eppure non c’è certezza che Aiello fosse l’uomo che si fece vivo a casa Agostino prima del delitto, tanto che l’anno scorso, dopo il riconoscimento, il poliziotto in pensione salì in macchina con il suo avvocato e tornò a casa. Libero era e libero è rimasto. L’inchiostro sul bollo di colpevolezza era cancellabile, frutto di quel “condizionamento” esterno che gli stessi pm ammettevano e che faceva di Aiello il colpevole perfetto. Nella richiesta di archiviazione dell’indagine i pubblici ministeri di Palermo scrivevano che il riconoscimento non aveva “quella piena valenza probatoria che sarebbe indispensabile”. Era trascorso troppo tempo, Vincenzo Agostino era stato influenzato dalla presenza massiccia delle foto di Aiello sui media e poi nel corso degli anni aveva già riconosciuto altre persone. Il caso non è chiuso perché il procuratore generale Roberto Scarpinato ha avocato a sé l’indagine che i pm volevano chiudere nei confronti di Aiello e dei boss Nino Madonia e Gaetano Scotto.
Il caso “faccia da mostro” racconta di una giustizia troppo spesso sbilanciata, se non addirittura appiattita, sulle dichiarazioni di pentiti e testimoni che rappresentano la risorsa a cui si aggrappano i magistrati. In un rapporto che si fa simbiotico, diventano lo specchio in cui si riflettono i teoremi tanto cari ai singoli pubblici ministeri. E’ andata così a Palermo per Antonio Ingroia con Massimo Ciancimino, per Antonino Di Matteo con il maresciallo Saverio Masi – il capo scorta del pm che non ha esitato a citarlo come testimone –, per Maria Teresa Principato con l’architetto Giuseppe Tuzzolino e a Reggio Calabria per il pm Giuseppe Lombardo con Antonino Lo Giudice. Fino a quando non arriva un giudice, terzo e distaccato, a suonare la sveglia. I teoremi crollano. A volte ci vogliono anni, come nel caso dell’abbaglio di massa di chi ebbe per le mani le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino.
Il primo a parlare di Aiello in un processo fu il pentito messinese Vito Lo Forte. Grazie a lui lo sfregiato aveva finalmente un nome. Un boss palermitano gli aveva rivelato che il poliziotto aveva coperto la fuga di Scotto e Madonia dopo l’omicidio Agostino. Dichiarazioni pesanti quelle di Lo Forte, arrivate in ritardo perché, così si giustificò il collaboratore, “avevo paura di parlare di Gaetano Scotto perché so che aveva rapporti con i servizi segreti”. Si tratta dello stesso pentito che anni prima disse che Agostino, insieme con il collega Emanuele Piazza, anch’egli agente del Sisde e inghiottito dalla lupara bianca, si trovava nei pressi dell’Addaura la mattina del 20 giugno 1989, il giorno prima del fallito attentato a Giovanni Falcone. Si erano finti sommozzatori e riuscirono a impedire l’esplosione. I periti stabilirono, però, che il Dna delle cellule epiteliali estratte dalla muta e dal borsone ritrovati sugli scogli non era compatibile con quelli di Agostino e Piazza.
I pentiti a volte hanno la memoria corta. Come Lo Giudice, che prima omise il nome di Aiello e poi disse che aveva partecipato al massacro dell’agente Agostino e azionato il telecomando per la bomba di via D’Amelio. I pm di Caltanissetta – smascherare i pentiti fasulli è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo – hanno un’idea diversa: fu Giuseppe Graviano a scatenare l’inferno. Nessuna contestazione per le dichiarazioni fuori tempo massimo del “nano” , ma braccia aperte per accogliere i nuovi ricordi. Dimenticanze, peccatucci che non possono certo ostacolare la ricerca della verità. Gente come Lo Giudice diventa decisiva nelle inchieste e nei processi.
Ce n’è uno, a Palermo, quello sulla trattativa stato-mafia, che fa da calamita per collaboratori e testimoni smemorati che, in alcuni casi, avrebbero oltrepassato quel limite che fa di una dichiarazione tardiva e non verificabile un’ipotesi di calunnia. Per calunnia è stato condannato in primo grado il testimone chiave dell’accusa, Massimo Ciancimino. Si era inventato di essere stato avvicinato dallo 007 Rosario Piraino nella sua casa bolognese – voleva zittirlo – ma fu smentito dalle telecamere. Ciancimino jr a Caltanissetta viene processato perché avrebbe infangato la reputazione dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro “taroccando” un documento attribuito al padre e accusandolo di passare informazioni riservate al padre. Il principio di non colpevolezza vale per tutti, anche per Massimo Ciancimino che un reato lo ha certamente commesso: si è portato della dinamite a casa. Insomma, i candelotti nel giardino al piano terra di un immobile nel centro di Palermo non erano una delle “tante cazzate” pronunciate da “quel cretino di Ciancimino”, volendo usare le parole non certo tenere che la giornalista del Fatto quotidiano Sandra Amurri attribuiva a Calogero Mannino. Amurri disse di avere ascoltato l’ex ministro confidare le sue paure all’eurodeputato Giuseppe Gargani nel corso di un incontro avvenuto il 21 dicembre del 2011 davanti al bar Giolitti di Roma. “Devi dire a De Mita che deve confermare la nostra versione, perché questa volta hanno capito tutto a Palermo. Stavolta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità e il padre di noi sapeva tutto, lo sai no?”, avrebbe detto Mannino. Parole entrate nel processo sulla Trattativa, pesanti come quelle che la giornalista attribuì a Maria Antonietta Aula, ex moglie del senatore Antonio D’Alì, che le avrebbe riferito della presenza, poi smentita, dell’ex presidente della regione siciliana Totò Cuffaro al matrimonio della sorella di Matteo Messina Denaro. La giornalista portò a sua discolpa le registrazioni audio, ma non c’era traccia della storia del matrimonio e il giudice civile ha condannato Amurri e la testata per diffamazione nei confronti di Cuffaro.
Altro testimone del processo Trattativa su cui pesa l’ombra della calunnia è Saverio Masi. Il giudice Vittorio Alcamo ha ordinato l’imputazione coatta per calunnia del maresciallo che accusò i suoi superiori di avergli impedito di arrestare Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Leggendo le parole del giudice pare che anche ai testimoni, oltre ai collaboratori di giustizia, la memoria giochi brutti scherzi visto che “solo nel 2016, deponendo quale testimone al processo Trattativa, egli introduceva per la prima volta la circostanza” di essere in possesso di “notizie rilevanti ai fini della possibile cattura del latitante Bernardo Provenzano”. Masi sarebbe stato mosso da un sentimento di “rivalsa” per la condanna che gli è stata inflitta per falso (tentò di farsi togliere una multa sostenendo che stesse effettuando un servizio con la macchina privata). Alcamo sottolineava la “sospetta progressione dichiarativa” del maresciallo.
Fuori tempo massimo sono stati pure i ricordi del generale Nicolò Gebbia, anche lui citato al processo. Gli è venuto in mente che una dozzina di anni fa, prima di essere trasferito da Palermo a Venezia, aveva consegnato al generale Gennaro Niglio, allora comandante della legione siciliana dei carabinieri, morto in un incidente stradale, degli appunti con i nomi di chi proteggeva Matteo Messina Denaro. Per anni, pur ricoprendo incarichi importanti nell’Arma, Gebbia si era dimenticato della vicenda.
Al processo di Palermo ha testimoniato anche un altro pentito messinese: Carmelo D’Amico – la circolazione delle dichiarazioni di certi collaboratori è ormai un tratto distintivo di alcune procure italiane – ha accusato Giovanni Aiello di avere partecipato all’omicidio dell’urologo Attilio Manca. E ancora che “Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi del ‘92, di Capaci e di via D’Amelio”. Glielo avrebbe confidato in carcere il potente capomafia Nino Rotolo. D’Amico non ne aveva parlato prima per paura di essere ammazzato dall’immancabile uomo dei servizi segreti – una volta tanto non era sfregiato in volto – che gli faceva visita in carcere.
Testimoni e pentiti smemorati, forse calunniatori. A volte bastano poche parole per provocare l’irreparabile. “Scusi, ha una sigaretta?”: una frase banale che diventa dirompente se gli interlocutori, o presunti tali, sono un architetto-pentito e il latitante Matteo Messina Denaro, impegnati nella riunione all’estero di una loggia massonica.
L’agrigentino Giuseppe Tuzzolino è l’ultimo dei “bugiardi patologici”, così lo hanno definito i magistrati di Caltanissetta, che fanno deragliare la giustizia. Ai pm nisseni è toccato l’onere di smontare in tempo la sua attendibilità. La magra consolazione è che in tre anni e mezzo di dichiarazioni rese a Palermo, Trapani e Agrigento Tuzzolino ha fatto meno danno delle balle di Vincenzo Scarantino. Le fantasie del picciotto della Guadagna camuffato da stragista sono state considerate oro colorato per due decenni. Alla fine è emersa la fallibilità di un metodo investigativo basato esclusivamente sui pentiti. Le macerie dei processi sono la vergogna di una grossa fetta della magistratura italiana. Tenere degli innocenti in carcere per anni e sostenere a oltranza tesi accusatorie strampalate ha rappresentato lo stadio avanzato di una giustizia che pende dalle labbra dei collaboratori. Per fortuna nel caso di Tuzzolino qualcuno ha tirato il freno a mano prima che si andasse oltre le calunnie costate il carcere all’architetto agrigentino. I numeri, però, sono preoccupanti. Quello di Caltanissetta rischia di essere l’inizio di una cascata di processi, visto che solo a Palermo la procura ha aperto e archiviato una quarantina di fascicoli, ciascuno con decine di persone accusate dal pentito.
Per tre volte la procura, dal 2013 in poi, ha inserito Tuzzolino nella lista di chi meritava la protezione di stato. A un certo punto, però, i magistrati con in tasca la delega per le indagini sulla mafia di Agrigento e quelli che lavorano su Trapani hanno fiutato l’olezzo dell’impostura. Non tutti, però, visto che si è continuato ad alimentare il capitolo Messina Denaro. Prima che Tuzzolino venisse mollato del tutto c’è chi si è aggrappato alle sue dichiarazioni per acciuffare il latitante. Nella desolata landa investigativa in cui il padrino si muove come un fantasma, Tuzzolino ha alimentato l’idea che la sua fuga sia favorita da chissà quali coperture istituzionali e massoniche. Gli interrogatori di Tuzzolino e le conseguenti rogatorie in giro per il mondo sono state il colpo di coda di una stagione giudiziaria. Maria Teresa Principato, ora alla Direzione nazionale antimafia, credeva davvero che Tuzzolino l’avrebbe condotta fino al latitante. E andò su tutte le furie quando i verbali del collaboratore iniziarono a circolare sui media. L’esperto magistrato antimafia non nascondeva l’amarezza per le fughe di notizie che, parole sue, “hanno danneggiato pesantemente la mia indagine sui trascorsi in Spagna di Matteo Messina Denaro”. Da qualche mese il posto di Principato è stato preso da Paolo Guido. Si è cambiato metodo di lavoro, mettendo da parte Tuzzolino che ha preso per mano poliziotti, carabinieri, finanzieri e magistrati. Li ha condotti in Inghilterra, Svizzera, Romania e negli Stati Uniti. La sua tattica, tanto semplice quanto efficace, è stata così demolita dal giudice di Caltanissetta che lo ha arrestato: “Partire da dati oggettivamente veri e, dunque, riscontrabili, andando poi ad ipotizzare collegamenti con argomenti e/o figure di interesse investigativo al fine di rendersi prima facie credibile”. D’altra parte Tuzzolino si era presentato con il migliore dei biglietti da visita. Architetto, massone di una loggia di Castelvetrano e pure salottiero: praticamente perfetto. Fino a quando ha raccontato del malaffare che regola l’edilizia nella provincia siciliana la sua credibilità ha retto. Poi, ha alzato il tiro, rivelandosi come il peggiore dei collaboratori, iscritto nella compagnia dei pentiti a rate. Mai dire tutto e subito. C’è una legge che impone di vuotare tutto il sacco entro 180 giorni dal primo verbale, ma è stata data ampia facoltà di sforare. “La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”, diceva il boss palermitano Salvatore Cancemi che ha finito per fare scuola. I ricordi si accendono all’improvviso. Le parole usate dal Gip di Caltanissetta, Antonina Leone, per definire Tuzzolino andrebbero fotocopiate e distribuite in giro per le procure italiane: “Un soggetto incline a rendere dichiarazioni (a rate), tacendo su aspetti anche rilevanti o modificando progressivamente le sue dichiarazioni in base alle esigenze del momento. Un siffatto atteggiamento rappresenta, di per sé, una violazione delle norme in tema di collaboratori di giustizia che, nell’istituire l’obbligo di concludere il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione nel termine di 180 giorni mira proprio a scongiurare l’evidenziato fenomeno di dichiarazioni a rate”. E invece c’è chi è pronto a chiudere un occhio e a farsi condurre per mano dai pentiti.
Il Foglio sportivo - in corpore sano