Oltre Obama
Nella certezza dello sfascio di Trump, avanzano zitti zitti aspiranti candidati democratici. Che bussano già alle porte dei finanziatori
I finanziatori democratici dicono che nessuno aveva mai bussato alla loro porta così presto. Gli amministratori dei comitati politici che raccolgono i soldi per conto dei candidati lavorano senza sosta, i maggiorenti del Partito democratico incanalano e distribuiscono fondi a chi ne ha bisogno per la rielezione il prossimo anno, agenzie di comunicazione sono state assoldate e operazioni di data mining sono state avviate per farsi trovare pronti. Durante l’estate c’è stata un’altissima concentrazione di eventi di fundraising dalle ville di Bel Air a quelle degli Hamptons passando per i campi da golf di Martha’s Vineyard, dove la nostalgia per Barack Obama non si è mai sentita così tanto. L’orizzonte di queste iniziative, tuttavia, non è quello delle elezioni di midterm del prossimo anno. Non sono molti i parlamentari di sinistra che vedono il rischio di farsi sfilare lo scranno da un Partito repubblicano lacerato dai rapporti impossibili con Donald Trump. Evidentemente la sinistra è già in movimento in vista del 2020, che è lontanissimo se si considera il ciclo regolare delle elezioni, ma è vicino nel regno dell’irregolarità di questi tempi trumpiani. Hillary Clinton non ha ancora fatto in tempo a spiegarci con calma “what happened” – il libro con questo titolo arriva in libreria martedì prossimo – e già i ranghi sono pieni di aspiranti sfidanti dell’uomo che le ha inferto la più cocente umiliazione (ha superato perfino Bill). La propensione a giocare d’anticipo è alimentata soprattutto dalla percezione dello sfascio di Trump, stretto fra l’inchiesta sulla Russia, le lotte furibonde con i repubblicani al Congresso, lo stato di precarietà permanente di una Casa Bianca tormentata dagli uragani politici prima ancora che da quelli meteorologici, il tasso di popolarità in perenne calo. Il sentore tinto di speranza che l’Amministrazione possa implodere anzitempo è un propulsore formidabile per gli avversari del presidente, anche se, come ha ricordato il miliardario di Wall Street Marc Lasry a tutti i potenziali candidati presidenziali che sono già andati a fargli visita: “Avete bisogno di un messaggio chiaro su cosa volete fare, opporsi a Trump non basta”. “Opporsi a Trump non basta” è una di quelle frasi che ogni aspirante candidato dovrebbe scrivere qualche decina di volte sulla lavagna mentale tutte le mattine, ma il presidente è il padrone assoluto dell’immaginario politico, ingombra ogni angolo dell’orizzonte, è il punto di riferimento anche per i cultori della “resistance”, che faticano a pensarsi se non in relazione a lui.
La sinistra americana deve traghettare se stessa nell'evo post obamiano. In uscita il libro di Hillary con le accuse a Sanders.
La più chiacchierata fra le potenziali sfidanti che verrano è Kamala Harris, 52enne senatrice della California al primo mandato che con le sue origini indiane, il fascino e l’abilità retorica non può non ricordare la stagione febbrile dell’ascesa di Barack Obama. Ma la sinistra americana a questo punto deve traghettare se stessa nell’evo post obamiano. Fra la disillusione della presidenza Obama, che non poteva mantenere le iperboliche promesse fatte in campagna elettorale, e l’affermazione di Trump c’è stato il colossale trauma della sconfitta di Hillary, che è stata soprattutto il frutto della profonda divisione fra i democratici d’establishment e la turbosinistra ossessionata dall’uguaglianza e dalla lotta all’1 per cento incarnata da Bernie Sanders. Lei ha processato e condannato senza appello le intenzioni maligne di Bernie accusandolo nel suo libro di aver “reso più difficile l’unificazione dei progressisti contro Trump”. Secondo Hillary, la vocazione di Sanders è quella del distruttore, del sabotatore: “Non è entrato nella corsa per fare in modo che un democratico conquistasse la Casa Bianca, ci è entrato per distruggere il Partito democratico”. Rimarrà per sempre senza risposta la domanda sull’esito delle elezioni se ci fosse stato il senatore indipendente del Vermont a sfidare Trump, mentre invece è necessario per il partito rispondere alle domande inevase sulla propria identità politica per affrontare Trump quando sarà il momento. E secondo alcuni quel momento è già iniziato. Harris potrebbe avere le caratteristiche giuste per consolidare l’establishment e dare al popolo della sinistra quelle emozioni, quelle sferzate carismatiche, quegli sprazzi di umanità non plastificata che Hillary non era in grado di offrire. Le sue domande taglienti, frutto della scintillante preparazione legale che l’ha portata a fare il procuratore generale della California, ai testimoni che davanti alla commissione giustizia cercavano di spiegare i rapporti con la Russia sono state uno degli spettacoli più cliccati della politica democratica di quest’anno. E’ quasi troppo perfettamente speculare a Trump e all’America che lo ha eletto per non bruciarsi nella fase preparatoria. A chi le chiede se sta pianificando una corsa alla Casa Bianca dice che non sa “nemmeno cosa farà a cena questa sera”, ma la sua agenda è stata fitta di appuntamenti legati alle attività di fundraising. La settimana scorsa ha organizzato una cena a casa dell’agente di Hollywood Michael Kives, dove ha racimolato 100 mila dollari per il suo comitato politico, e a luglio ha fatto anche altri due eventi al di fuori della sua base californiana, nei luoghi di villeggiatura della upper class della costa atlantica. Lei dovrà occuparsi della rielezione soltanto nel 2020, ma dice che tutto questo fermento serve soltanto a dare manforte ai colleghi democratici più bisognosi. Nei raduni a porte chiuse tutti parlano delle sue ambizioni presidenziali, tranne lei. Kamala è donna di grandi compromessi. Abbraccia l’agenda della sinistra più radicale mentre strizza l’occhio alle corporation e al mondo della finanza che ha sostenuto generosamente la sua carriera politica. Uno dei suoi maggiori finanziatori è George Soros. Il magazine Paste ha scritto che “ci sono 135.613 ragioni per cui non sarà presidente nel 2020”, alludendo alla somma che ha accettato da parte di lobbisti nella campagna per diventare senatrice. Contemporaneamente si è rivolta alla stessa agenzia che ha creato il monumentale network di piccoli finanziatori che ha dato energia alla campagna di Sanders, e ha annunciato il suo appoggio al “Medicare for All”, la riforma sanitaria in stile europeo approvata dal senatore del Vermont e che in questi mesi sta diventando una casella che tutti i sinceri democratici devono necessariamente barrare per scendere in campo. Al confronto l’Obamacare era ispirata a principi conservatori e liberisti, e della sanità pubblica non si parlava nemmeno. Oggi chi non presta il giuramento di fedeltà al sistema “single-payer” è automaticamente sospettato di intelligenza con l’establishment. Rischia di apprendere dolorosamente questo dato di fatto anche Dianne Feinstein, istituzione del Senato e fiera rappresentante di un brand democratico centrista e pragmatico, che guarda di traverso la sanità pubblica e ha osato addirittura ammettere che il Daca, il dispositivo per la protezione dei “dreamers” abrogato da Trump, era stato edificato su basi legali poco solide. Quelli alla sua sinistra sono decisi a fargliela pagare il prossimo anno alle primarie in California, dove si presenterà il presidente del senato dello stato, Kevin de León, informale portavoce dello “stato della resistenza” foraggiato dai milioni dell’ambientalista Tom Steyer. Sono le conseguenze che deve mettere in conto chi non si adegua alla nuova ortodossia democratica. Harris ha abbracciato il sistema “single-payer”, dice, “perché è la cosa giusta”.
I giovani ultrà di Bernie non hanno abbandonato la speranza di un'altra corsa per la Casa Bianca. Le senatrici Warren e Gillibrand.
I giovani ultrà di Bernie non hanno abbandonato la speranza di un’altra corsa per la Casa Bianca, questa volta come uomo da battere della sinistra, e il collettore di fondi messo in piedi dai suoi consiglieri ha raggranellato oltre 5 milioni di dollari nell’ultimo anno, con una donazione media di 22 dollari. Nessuno ha ancora trovato la formula magica dello sfidante che ha messo in ginocchio la macchina dei Clinton prima che Trump arrivasse a dare il colpo di grazia.
Nel caotico laboratorio per organizzare la riscossa si muove anche Joe Biden, l’ex vicepresidente che già aveva accarezzato l’idea della corsa presidenziale, ma non poteva permettersi politicamente uno scontro frontale con Hillary. Ora ha creato un comitato politico, American Possibilities, e attraverso questo ha fatto una prima commissione alla compagnia che ha curato la struttura digitale e i sistemi di fundraising nelle sue due campagne vicepresidenziali. In queste settimane sta incontrando privatamente, uno a uno, i maggiori finanziatori democratici in circolazione e già prima dell’estate ha preso contatti con alcune fra le maggiori associazioni contro Trump. Anche i repubblicani che s’oppongono al presidente sono oggetto dell’interesse di questo pezzo d’establishment che in un’eventuale corsa per la Casa Bianca può soltanto perseguire la via della moderazione. Difficile reinventarsi rivoluzionari quando si è parte della mobilia di Washington. La senatrice Elizabeth Warren, croce dei banchieri di Wall Street e delizia degli animi rivoluzionari, non può non essere coinvolta in questa lotta per ridefinire l’identità del Partito democratico del futuro. Ha chiarito più volte il punto: “Il partito non deve moderare la sua visione”, il che significa anche che non deve rivolgersi a Wall Street per trovare i soldi che servono a vincere il midterm e poi a cacciare Trump dalla Casa Bianca. Quest’anno la senatrice del Massachusetts ha raccolto 5 milioni di dollari per la sua facile campagna per la rielezione, muovendosi ben oltre i confini del suo stato alla ricerca di facoltosi guerrieri della giustizia sociale con le mani pulite. La campagna di raccolta fondi in California tradisce il respiro nazionale del suo progetto, anche se lei nega, dicendo che lo fa per gli altri. In effetti, ha già distribuito fondi a più di un candidato amico bisognoso di sostegno.
Kamala Harris con le sue origini indiane, il fascino e l'abilità retorica ricorda la stagione febbrile dell'ascesa dell'ex presidente.
Durante una cena di fundraising negli Hamptons, alcuni finanziatori hanno chiesto alla senatrice Kirsten Gillibrand, che aveva organizzato l’evento, se i suoi movimenti in vista della rielezione l’anno prossimo fossero il preludio a una campagna nazionale. Ha risposto che è concentrata sul midterm del 2018, ma non ha escluso un interessamento alla Casa Bianca. La senatrice di New York è in una posizione simile a quella in cui era il suo predecessore, Hillary Clinton, nel 2006: aveva davanti a sé una rielezioni facile facile, ma ha sfruttato la campagna senatoriale senza ostacoli per creare la struttura necessaria a organizzare, due anni più tardi, la corsa presidenziale. Non è stato per mancanza di organizzazione e risorse che i suoi sogni si sono infranti contro la irresistibile “hope” di Obama. Gillibrand ha già mietuto ampiamente e reinvestito un milione di dollari nelle prestazioni di un’agenzia di fundraising, che sta moltiplicando rapidamente le entrate per questa senatrice con profonde connessioni e buone prospettive a livello nazionale. Il tormento all’interno del mondo democratico non riguarda però soltanto il compromesso con l’ultrasinistra sandersiana. Al netto dei drammi identitari, si tratta di preparare l’assalto alla Casa Bianca e disarcionare il nemico per eccellenza, sintesi di tutte le brutture del nostro tempo. Questa volta la sinistra sa che non può permettersi di fallire. Per questo i leader del partito vorrebbero smussare alcune posizioni che nel tempo hanno finito per escludere una fetta dell’elettorato. La riconciliazione con il mondo dei democratici pro life, ad esempio, è un’opzione assai dibattuta. Negli ultimi anni la piattaforma del partito democratico ha ricalcato con crescente precisione l’agenda delle organizzazioni pro choice, fino a cancellare perfino la possibilità che potessero esistere democratici contrari all’aborto. Ora la questione si è riaperta. Il gruppo Democrats for Life ha chiesto di recente al Democratic National Committee di modificare il linguaggio dell’agenda del partito in senso aperturista, in modo da includere anche i gruppi della sinistra pro life, e molti dirigenti democratici si stanno rendendo conto che forse l’accoglienza di frange escluse dalla tende democratica potrebbe fare massa critica nella lotta per la causa comune, l’unica che per il momento tiene insieme la sinistra in fermento: sconfiggere Trump.
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