Mertens, basso nella manica

Beppe Di Corrado

Dries ha dovuto superare anni di pregiudizi sulla sua altezza prima di diventare uno dei giocatori più forti della serie A

Non è il gol più bello di Dries Mertens, quello fatto con la Lazio all’Olimpico mercoledì sera. Il lancio, lui che si allarga, il portiere che esce, la tocca, Mertens che gira largo per trovarsi la palla sul destro, poi tira a giro con una traiettoria e una dinamica strana: arriva più forte di quando parte. Questo è un grande gol, certo. Citazione involontaria di quello di Maradona nel campionato 84-85: l’hanno fatto notare tutti e la coincidenza della Lazio allora e della Lazio oggi ha incentivato il paragone che prima o poi qualunque giocatore di talento deve affrontare a Napoli. Un pedaggio doppio: lo devi prima affrontare e poi lo devi per forza pagare, perché qualunque sia il termine di paragone – un gol, una giocata, una dichiarazione, una maglia, il taglio di capelli – devi uscirne sconfitto. Maradona, semplicemente, non si batte. Allora lui, Dries, ha subito risposto alla domanda: “Mi hanno detto che i due gol di somigliano, ma il suo è stato più bello e più difficile”. Bravo, intelligente, in una certa misura furbo. Perché non si entra in competizione con la storia, mai. Lui poi, che non è abituato a parlare e quando lo fa raramente va oltre la misura prestabilita dal codice del calciatore davanti a un backdrop. Per esempio, l’altra sera, nella pancia dell’Olimpico non è andato oltre il “mi diverto, con Sarri tutti noi attaccanti giochiamo bene e abbiamo grandi possibilità di fare tanti gol”. Poi la questione che sembra diventata un altro pedaggio: ma tu sei un falso nueve o no?E’ il peggior modo di approcciare la cosa, o forse è banalmente sbagliato. Come dice Daniele Adani: “Mertens non è un falso nueve. E’ un centravanti piccolo”. Definizione perfetta. Perché sconfigge il pregiudizio che i bassi non siano centravanti, soprattutto se non giocano di spalle alla porta. Sono stati traditi tutti dal Messi del Barcellona di Guardiola. Allora l’equazione è stata: se metti un piccolo al centro dell’attacco, allora è il falso centravanti. Ma l’equivoco sta nel confondere la statura con i movimenti. Mertens è un’altra cosa. Semmai bisognerebbe continuare a ricordare l’origine di tutto, ovvero un caso, una sfortuna altrui e quello che all’epoca, ovvero all’inizio del campionato scorso era un limite del Napoli: avere una rosa più corta degli altri. Dopo l’infortunio a Milik, Sarri non aveva un altro centravanti “classico” e s’è inventato Dries al centro. Alla Gazzetta lui ha detto questo: “A volte la disgrazia di un compagno può aiutarti, può modificare le cose. A me ha cambiato il ruolo, Sarri ha avuto quest’intuizione e credo che nemmeno lui abbia mai pensato che potessi rendere tanto. E, poi, c’è un altro particolare. Io non avevo mai giocato con continuità, una volta trovata ho avuto modo di esaltare le mie qualità. Nei primi tre anni mi è capitato di giocare una partita, di segnare anche una doppietta e di ritrovarmi, la domenica dopo, in panchina. Questa situazione mi ha fatto parecchio male, mi ha annoiato tanto, non mi dava la gioia di continuare”.

 

Avremmo avuto l'attaccante più interessante della serie A se non ci fosse stato Maurizio Sarri? Probabilmente no

Ecco, questa è una variabile che in pochi considerano fino in fondo quando parlano di Mertens. Nei primi due anni a Napoli, Mertens ha fatto quasi lo stesso numero di presenze del terzo anno, ma con molti meno minuti giocati. Ovvero: spesso entrava a partita in corso. Avete presente quella orribile definizione di dodicesimo uomo? Quello che non gioca titolare ma entra sempre? Ecco, esattamente così. Così con Rafa Benítez, ancora di più nel primo anno di Sarri: 57 per cento di presenze da titolare (considerate tutte le competizioni) nel 2013/14, 63 per cento nel 2014/15, solo il 33 la seconda stagione con Sarri, quando il turnover si è fatto meno “scientifico” rispetto alle rotazioni di Benítez. Tuttavia un esame più approfondito mostra come Mertens sia risultato più efficace sotto la guida del tecnico toscano, andando a segno una volta ogni 152,91 minuti, mentre nelle precedenti stagioni la media si attestava rispettivamente a 200,00 e 305,70. La continuità e la posizione sono diventate un valore unico. L’altezza, contro ogni previsione e contro ogni pregiudizio, sono improvvisamente non sono state più un problema. Sarri ha preso Mertens è ha costruito un’identità di gioco che lo vede protagonista. Così tanto che quando non è in campo dal primo minuto, come nell’esordio in Champions, il Napoli gioca un altro calcio: “Lui ha fatto tanto, non so se riuscirei a giocare da prima punta con un altro allenatore. Il suo gioco serve a esaltare gli attaccanti e non solo quelli centrali. Basti vedere il rendimento di Insigne e Callejon”.

 

La domanda, l’altra, nasce dalla dichiarazione di Dries: avremmo avuto l’attaccante più interessante della Serie A se non ci fosse stato Sarri? Probabilmente no. Avremmo avuto un grande giocatore sempre sulla soglia d’ingresso nella stanza dei campioni. E il pregiudizio sull’altezza l’avrebbe sempre dominiato. Alec Cordorcini ricorda spesso l’etichetta piuttosto sgradevole che ha accompagnato i suoi primi anni di carriera. “Nano da giardino” era la definizione caustica e cattiva che gli aveva dato Henk Grim, capo degli scout del Nec Nijmegen: era andato a vederlo quando giocava in seconda divisione olandese. Parlavano tutti della sua tecnica, della sua velocità. Lui notò l’altezza e lo bocciò, convinto che non avrebbe mai fatto più di quanto faceva in quei giorni. No, era la risposta che anche altri club – in questo caso belgi – avevamo dato a Mertens: erano il Gent e l’Anderlecht. Avrebbe dovuto, o quantomeno potuto entrare nelle Primavera, ma fu rimandato a casa. Oggi spuntano appunti più o meno veritieri presi dai selezionatori. Dicevano più o meno così: “Il talento c’è. E’ veloce, ha tocco di palla, dribbling, gioca con entrambi i piedi, calcia bene. Ma è troppo piccolo”. Sotto il metro e settanta per qualcuno, anzi per molti, c’è il nulla. C’è un calciatore in miniatura che o è Messi o non è nessuno. Mertens smentisce. Come ha smentito i critici anche a Napoli. In queste ore di ubriacature della sua classe i social network e i siti si divertono a ridicolizzare i commenti di Eziolino Capuano che nel 2013 disse: “Giocherà al massimo 8 partite nel Napoli. E’ un calciatore medio”. Ora, non è che la credibilità di Capuano sia il massimo, ma è sintomo del pregiudizio che avevano in molti. Un pregiudizio che ha solo ragioni fisiche.

 

"Troppo leggero", dicevano tutti. Con una spallata a volte va giù, ma ciò dipende anche dalla velocità con cui fa ogni giocata

E’ esploso tardi per questo, Mertens. Per il talento che ha, per quello che è oggi, ovvero uno dei cinque giocatori più importanti della Serie A, titolare o semi titolare di una meravigliosa Nazionale belga, uno anche a 19 anni ha giocato la sua prima stagione da professionista è arrivato in ritardo. Lui nel 2006 giocò nell’Agovv, serie B olandese. All’epoca aveva maturato solo 14 presenze nell’Eendracht Aalst, terza divisione belga. E’ andato via, in Olanda. e’ andato via come tutti, perché il calcio belga stava per dare corso a una rivoluzione epocale che però non s’è mai trasformata in un campionato decente. Il lavoro l’ha fatto la federazione, per le Nazionali. Ricorda Cordorcini: “George Leekens, Michel Sablon, Dick Advocaat, Marc Wilmots in tempi e con modalità diverse, hanno modernizzato e professionalizzato l’intero sistema, riuscendo anche a tradurre tale processo innovativo in risultati concreti sul campo. Quando però a metà degli anni Duemila il giovane Mertens si arrabattava alla ricerca del pertugio giusto in cui infilarsi per far decollare la propria carriera, il Belgio era in piena fase di lavori in corso, con il retaggio di quel calcio fisico e atletico che aveva permesso ai Diavoli Rossi di scrivere le pagine più belle della loro storia (dalla finale di Euro ’80 al quarto posto di Mexico ’86, senza dimenticare, a livello di club, il Brugge finalista della Coppa Campioni ’78 e il Mechelen vincitore di Coppa Coppe e Supercoppa Europea nel 1988) ancora ben lontano dall’essere archiviato. Il 9 febbraio 2005, esattamente sei anni prima dell’esordio di Mertens in Nazionale, i Rode Duivels travolti 4-0 in amichevole dall’Egitto schieravano in attacco i fratelli Mpenza, un concentrato di muscoli, e delegavano la fantasia ai guizzi di Thomas Buffel in fascia e alle geometrie di Walter Baseggio in mezzo. Nel ranking Fifa galleggivano tra la 50esima e la 60esima posizione, e non è difficile capire perché. Erano anni nei quali lo stesso Baseggio rappresentava il prodotto di esportazione belga in Italia, assieme a Mudingayi, Vanden Borre e Sergeant (quest’ultimo autentica chicca al contrario del mercato minore italico, visto che tre anni prima di firmare con il Bari lavorava ancora come assicuratore part-time, ma qualcuno riuscì lo stesso a stupirsi perché fu un flop). Già a 18 anni Mertens era tecnicamente due o tre spanne sopra ai colleghi citati, ma non esistevano (ancora) le premesse culturali e ambientali per permettergli di emergere. Per questo ha fatto le valigie e se ne è andato”.

 

E’ una cosa che ha sempre patito. Non che l’Olanda sia mai stata un problema, ma per come è andata negli anni successivi, la sensazione di non essere stato capito è aumentata. Dries è nato nello sport e nello sport è cresciuto, nella testa più che nella statura. E la cosa ha un certo peso per il futuro. Viene da Leuven, una delle più belle città delle Fiandre, un polo universitario prestigioso. Suo padre è stato un ginnasta di buona carriera, con diversi titoli messi in bacheca. Sua madre una psicologa. Il parallelo con Messi non dipende solo dalla condivisione dell’anno di nascita e dal destino del fisico, ma anche dalla preoccupazione che proprio quel fisico gracile e poco sviluppato aveva generato nei suoi. A Leo diagnosticarono un difetto nella produzione dell’ormone della crescita, a Dries no, ma un medico di Anversa interpellato dai genitori, suggerì il calcio per irrobustirlo. Cominciò a girare tra le squadre locali, fino all’arrivo nel 2002 nell’Oud-Heverlee Leuven, un club nato proprio quell’anno nel quale fusero le tre società calcistiche locali. Oggi i campi di calcio su cui ha cominciato a giocare Dries non esistono più: uno è diventato un campo da rugby, il secondo un parcheggio dietro allo stadio dell’Ohl. Non esiste più nemmeno l’Agovv di Apeldoorn, altra location tutta boschi, pioggia e fango che per un breve periodo ha fatto da pista di lancio per alcune ottime carriere pallonare. Lì Klaas-Jan Huntelaar è stato capocannoniere di B (26 gol in 35 partite) e si è visto intitolare, a 24 anni di età, una tribuna dello Sportpark Berg & Bos. Poi sono arrivati Nacer Chadli e, appunto, Mertens. Per lui tre stagioni, 44 gol e il Gouden Stier (Toro d’oro) 2009, premio conferito al miglior giocatore del campionato.

 

Nei primi due anni a Napoli, Mertens ha fatto quasi lo stesso numero di presenze del terzo anno, ma con molti meno minuti

Questa è una parte interessante della storia di Dries. E’ passato dall’anonimato alla celebrità in un tempo molto più breve rispetto ad altri. Cioè: non ha mai giocato nelle giovanili di un club di grande livello. Una caratteristica oggi quasi impensabile per un qualche giocatore del suo spessore e del suo valore. La carriera dice questo: debutto da professionista a 19 anni (11 agosto 2006, Agovv-Cambuur 3-1), in Eredivisie (la Serie A olandese) a 22 (1 agosto 2009, Rkc-Utrecht 0-1), in Nazionale a 23 abbondanti (9 febbraio 2011, Belgio-Finlandia 1-1), in Champions League a 26 (Napoli-Borussia Dortmund 2-1). Tre stagioni all’Agovv, due all’Utrecht, due al Psv, quattro al Napoli, per una carriera che non ha mai bruciato le tappe, tenendo però sempre la freccia puntata verso l’alto. Ogni stagione meglio della precedente. Il primo anno all’Utrecht finisce secondo dietro a Luis Suárez (Ajax) come miglior giocatore della Eredivisie, in quello successivo stabilisce il suo primato di assist (24), due dei quali regalati in un 3-3 in Europa League contro il Napoli di uno scatenato Cavani, match che segna il suo debutto in una manifestazione europea.

 

Cordorcini è il giornalista italiano che meglio conosce il calcio belga e olandese. E spiega: “Il Psv lo prende per sostituire l’ungherese Dszudszak, lui si presenta con 11 gol nelle prime 8 giornate e chiude a quota 27 complessivi, colonna portante di un attacco da 130 reti stagionali. Con lui giocano Wijnaldum e Strootman, quest’ultimo già compagno di Mertens nell’Utrecht e suo autentico opposto, non solo a livello fisico, visto che in meno di dodici mesi passa dalla B con lo Sparta Rotterdam alla maglia della Nazionale. L’anno successivo Mertens trova ancora il Napoli in Europa e gli piazza una combo di gol più assist nel 3-0 finale. Le sue statistiche continuano a mantenere un formato oversize, chiaro segnale che Eindhoven, e l’Olanda, iniziamo a diventare ambienti troppo limita(n)ti. Poco prima di andarsene, uno degli opinionisti più velenosi dei Paesi Bassi, Johan Derksen, gli chiede pubblicamente scusa per averlo chiamato kabouter, ovvero gnomo. Aveva capito che la grandezza di un calciatore non era determinata dai centimetri”.

 

Già a 18 anni era tecnicamente sopra a tanti nazionali belgi, ma non c'erano (ancora) le premesse culturali perché potesse emergere

E’ stata la prima volta che il pregiudizio è stato sconfitto. Non l’ultima, però. Perché in Italia è continuato. “Troppo leggero”, dicevano tutti all’inizio. E’ vero, con una spallata a volte va giù, ma ciò dipende anche dalla velocità alla quale fa ogni giocata. Napoli è stata una scelta perfetta, in realtà. Perché il Sarrismo, come ha detto lui stesso, è stato il suo più grande alleato. Avremmo avuto Mertens, questo Mertens, con un altro allenatore? Per capirci: 13 gol nella prima stagione, 10 nella seconda, 11 nella terza, 34 nella quarta. Punto, a capo. La spiegazione sta nello spostamento al centro, ma non solo in quello geografico, ma anche in quello ideale. Quando quest’estate si vociferava di una sua possibile vendita multimilionaria, Sarri ha detto una sola cosa: “Non esiste il mio Napoli senza Mertens”. Il che dimostra anche il ravvedimento operoso del mister toscano: lui stesso nelle prima due stagioni non l’aveva valorizzato abbastanza. Poi però se ne è andato Higuain. Poi però s’è rotto Milik. Ed è lì che Sarri ha avuto coraggio. Ha regalato a Dries la fine definitiva di ogni pregiudizio e la chance di fare ciò per cui evidentemente è portato: gol. Perché con quel tocco di palla, con quel dribbling, gli si attribuiscono spesso altre doti. Invece è uno che vuole il gol, sente il gol, pretende il gol. Vuole rigori e a volte punizioni, se sente la porta la cerca: è il calciatore del Napoli che tira di più in porta. La bellezza è una conseguenza. Prendi il quarto gol con il Torino nella scorsa stagione. Il pallonetto dopo uno, due, tre dribbling: la palla morbida, alta, poi dritta verso la porta. Il più bello è questo: non prevede paragoni e probabilmente sarà presto superato da un altro. Perché con Mertens ne arriva un altro, più bello del precedente.

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