Tutto finì con Madame Bovary
La provincia non fu più la stessa. Da rifugio tranquillo a luogo letterario di odi famigliari e nequizie
La realtà, come diceva Giorgio Manganelli di cui si vanno ripubblicando tutti gli scritti, non ha ragione d’essere né è degna di nota senza il soffio vitale della letteratura. Dunque non ci sono dubbi che, in tema di provincia, esista un prima e un dopo “Madame Bovary”. Se vi è mai capitato di osservare con simpatia i volti pur spettrali dipinti da Georges d’Amboise nel Cinquecento, e invece con un filo di inquietudine i bagnetti di mare a Deauville tratteggiati con tanta vivacità da Eugène Le Poittevin verso la fine dell’Ottocento, è perché di mezzo c’è la fatidica data del 1857, e quel romanzo salvato in extremis dalla censura definitiva di un tribunale che ne ravvisava il potenziale esplosivo, et pour cause. Prima di Emma Bovary, esisteva la provincia tranquilla, un po’ ignorante dei modi di città, alla quale Catullo imputava giusto l’incapacità di distinguere fra la grassa amichetta di “Formiano il fallito” (decoctoris, bisogna proprio suggerirlo a Trump come alternativa all’ubiquo “loser”) e la sua inarrivabile Lesbia dal piede piccolo e le mani sottili. Prima di madame Bovary, gli ussari salivano già sui tetti, ma erano tegole di nessuna rilevanza e cerchie murarie di scarsa estensione, fra le quali proliferavano peraltro uomini perbene come Montaigne o si struggevano anime elevatissime come quella di Giacomo Leopardi. Il natio borgo era sì selvaggio, sì zotico, magari perfino “vil”; ma non turpe, e soprattutto non torpido. Prima di Tostes e di Yonville e di quella diligenza da incubo che le collegava a Rouen, le città apparivano lontane, certo più brillanti e vivaci della provincia, di sicuro e come ovvio più ricche di opportunità, ma non necessariamente migliori. Diverse, questo sì.
Si tradisce ovunque, ma mai come nella Treviso raccontata da Pietro Germi. Si ruba in ogni dove, ma in provincia di più e con voluttà
Dal 1825 in poi, con la diffusione del trasporto ferroviario, le città diventano metropoli, collegate dalle ferrovie e da strade sempre più ampie, vi fioriscono le industrie, i teatri, l’editoria, gli allibratori e le donne di malaffare, e la provincia campestre, da vile e villica ma anche felix, perde progressivamente ogni attrattiva tranne quella di luogo del riposo, dove ritemprarsi e, appena recuperate le forze, scappare il più velocemente possibile, esattamente come oggi. Nel 1857, le viene appunto assestato il colpo di grazia: il suicidio di una moglie di provincia offre a Flaubert lo spunto per il suo romanzo capitale. Il processo subito e vinto dopo la pubblicazione del romanzo gli offre una pubblicità insperata, che Baudelaire non si stancherà di invidiargli, avendo invece perso quello intentato contro di lui dalla Francia Terzo Impero per i “Fiori del male”. Nasce l’idea letteraria della provincia, anzi della “riccaprovinciaborghese”, locuzione complessiva da pronunciare in un’unica emissione di fiato, dove, fra le cortine di pizzo e sotto i centrini del buffet, si annida ogni nequizia. Si tradisce ovunque, ma mai come nella Treviso raccontata da Pietro Germi. Si ruba in ogni dove, ma in provincia di più e con voluttà. Gli odi familiari non sono mai implacabili come quelli di Louis del “Groviglio di vipere”, o gli assassini più indifferenti che nei romanzi lacustri di Piero Chiara. Andrea Vitali, anzi, ne porta in scena due o tre almeno un paio di volte all’anno su quel ramo del lago di Como, per tenere il ritmo del bestseller, e hanno titoli antichi e maliziosi: “La signorina Tecla Manzi”, “Zia Antonia sapeva di menta”, “I miracoli della Perpetua”. In provincia, la sordidezza è più sordida, la risata più grassa e i desideri più impetuosi, o forse così vogliamo vederla noi cittadini che ci crediamo, e forse siamo, rotti a tutto. Ci piace immaginare che quelle madonnine infilzate di bigodini casalinghi siano uguali a noi, anzi perfino un po’ più uguali. Madame Bovary. Sottotitolo: moeurs de province, costumi di provincia. Una pietra tombale che si estende dalla Porte d’Ouen a Omaha Beach, ma sotto la quale si agitano, frenetiche, da centocinquant’anni, infinite penne autoriali e miliardi di lettori elettrizzati e avidi di particolari sempre più piccanti e morbosi dai quali prendere le distanze in virtù della propria, presunta raffinatezza cittadina.
Ritroviamo nella strada una diramazione della nostra casa, nel saluto ai passanti la convinzione di avere un mondo a portata di mano
Da “I Peccati di Peyton Place” a “Suburbicon”, il thriller del sobborgo suprematista e grottesco del trio George Clooney-fratelli Coen presentato alla Mostra del cinema di Venezia, questi volti, questi modi, queste mode escono tutte dalla villetta di Croisset. I suoi personaggi sono diventati categorie, topos: dici medico di provincia e subito tutti pensano al piede equino di Hippolyte mandato in cancrena da Charles Bovary o al dottorone che si china su Emma agonizzante in abito da sera e senza nemmeno lavarsi le mani (cosa che, peraltro, facevano anche i dottoroni di città). Dici commerciante di provincia e ti si materializzano davanti lo strozzino Lleureux e gli stessi bauli pesanti, costosi e inutili che rifila a Emma. Un secolo e mezzo di pubblicità negativa e continuamente rafforzata sulla provincia ha creato automatismi imbarazzanti. Per esempio, quando parli delle sue eccellenze, ti accorgi di fare un uso continuo e reiterato dell’avversativo “ma”. Il tale avvocato esercita in provincia “ma” è bravissimo. E’ un ristorante di provincia, “ma” ti serve un pesce fresco che neanche a Milano. Quella libreria? Sì, è ficcata sotto i portici del paesino x, ma sapessi che gusto inimitabile. Ho una cara amica primario di gastroenterologia in un piccolo ospedale d’eccellenza del Piemonte e quando la cito devo affannarmi a spiegare perché mai non si sia trasferita a Milano o a Torino. Torino, appunto: il 23 settembre, cioè oggi, in piazza Castello sarebbe prevista una gara di rutti dalla quale il sindaco Chiara Appendino ha preso tiepide distanze e sulla quale molti quotidiani si sono limitati a dare, giusto un po’ stupiti, la notizia. Se il “Burp d’estate” si fosse tenuto, per esempio, a Pordenone, ogni quotidiano avrebbe chiesto al proprio sociologo di riferimento un commento sul caso, e questi avrebbe prodotto trenta righe dolenti sull’abbrutimento della provincia, la sua mancanza di “culturadiffusa” e di “luoghidiritrovocomuni” (sempre tutto attaccato per il principio di cui sopra). Invece, la nuova edizione di Pordenonelegge, festa del libro con gli autori, si è appena conclusa con un boom di presentazioni e di presenze che si vanno calcolando in queste ore ma che dovrebbero stabilire un nuovo record. La festa è innanzitutto per gli autori, vezzeggiati e accompagnati in ogni dove da un gruppo di volontari giovanissimi e appassionati. Le domande alle presentazioni informate, brillanti e acute. Entusiasta, ne ho fatto il resoconto a un’amica: “Hai fatto bene ad andare in provincia”, ha osservato serafica, “lì si entusiasmano molto di più che in città”.
Tornasse indietro, Flaubert che tanto amava la sua piccola Croisset porterebbe Emma a vivere almeno a Rouen.
Il Foglio sportivo - in corpore sano