Nel centro della città l’Ateneul Român, restituito al suo antico splendore con i medaglioni di Carlo I e degli altri re liberati del velo rosso che li ha tenuti per anni nascosti alla vista del popol

Bucarest, capitale occidentale nell'estremo oriente d'Europa

Marina Valensise

La dimora in cui Carlo II viveva con l’ultima amante, il quartiere delle ambasciate che ricorda Parigi, la memoria degli eroi nazionali. Nell’impossibile oblio del regime di Ceausescu, la città riscopre la sua storia

Per chi arriva dall’aeroporto al centro di Bucarest, la prima impressione è di trovarsi in un quartiere residenziale di Berlino o Parigi. Lunghi viali alberati, strade dritte, larghe, ben squadrate. Ai lati della carreggiata, le case, nascoste spesso da una fila di alberi, sembrano vecchie dimore aristocratiche coi loro giardini segreti, grandi edifici di rappresentanza, palazzine ufficiali. Sulla Soseaua Kiseleff, per esempio, c’è la villa dove nacque re Michele, l’ultimo della dinastia Hohenzollern-Sigmaringen scelta da Napoleone III nel 1866 per contentare i patrioti liberali e repubblicani di questa marca occidentale dell’Est Europa, che costituiva una pedina chiave nel conflitto russo-turco. Pare che nacque proprio qui il re bambino, figlio di Carlo II, salito al trono a soli sei anni nel 1927, perché il padre, molto coureur de femmes, aveva rinunciato alla successione dopo aver mollato la moglie Elena di Grecia, per scapparsene a Milano con l’ultima amante in carica Magda Lupescu, una magnifica avventuriera già sposata in proprio, occhi verdi, pelle d’avorio, fianchi sinuosi, cattolica ma figlia di un farmacista ebreo e destinata a seguirlo in esilio per sposarlo nel 1947, in una stanza d’albergo a Rio de Janeiro, confermandosi come la donna più odiata dai rumeni.

 

Michele poi tornò sul trono a diciannove anni, nel 1940, dopo che il padre, rientrato in patria dieci anni prima e proclamato re, era riuscito nell’impresa di sopprimere il Parlamento, sospendere i partiti e instaurare la così detta dittatura regia per contrastare in extremis l’egemonia nazista. “Carlo II era terrorizzato”, mi racconta adesso lo storico Adrian Niculescu, studioso delle origini della democrazia rumena, un passato di esule anticomunista in Italia e in Francia, e un presente da instancabile militante dei diritti umani. “Aveva capito quale pericolo mortale corresse il paese il giorno in cui, a Berlino, Hitler gli consigliò di nominare Codreanu primo ministro”.

 

Michele, il re bambino, salito al trono a sei anni nel 1927 perché il padre, molto coureur de femmes, aveva rinunciato alla successione

Carlo II partì dunque per Vienna a gambe levate. Arrivato al confine, diede ai suoi l’ordine di ammazzare subito quel fanatico nazionalista, emulo di Mussolini e fondatore del Movimento legionario e delle Guardie di ferro. Così il Capitano Codreanu, che da sei mesi era rinchiuso nel carcere di Jilav con una condanna per diffamazione, venne strangolato con altri 13 legionari nel corso di un trasferimento. Si parlò di un tentativo di fuga represso nel sangue, ma i cadaveri, passati nell’acido solforico, furono gettati in una fossa scavata in aperta campagna e per due anni non si tennero i funerali. Era il 30 novembre 1938. A settembre dell’anno dopo Hitler invase la Polonia, dopo averne patteggiato la spartizione con Stalin, e continuò a minacciare la Romania, ormai in fase di dissoluzione. Nel giugno 1940, quattro giorni dopo la capitolazione della Francia, Stalin rivendica la Bessarabia. A fine agosto, Hitler, forte dell’arbitrato di Vienna con Galeazzo Ciano, la priva di metà della Transilvania (annessa nel 1918 col Banato a est, la Bucovina e il Maramures a nord) dove il 38 per cento della popolazione è ungherese. Quanto alla Dobruja (provincia ottomana ricevuta in dote nel 1878) è la Bulgaria a rivendicare il sud.

 

Così nel giro di un anno, cedono le frontiere della nazione nata dall’unione dei principati danubiani, Valacchia e Moldavia, nel 1859, consolidata con Carlo I nel 1866, e divenuta indipendente dopo la vittoria del 1877 contro i turchi, nella guerra combattuta a fianco dei russi. E soprattutto cede la monarchia. Carlo II sfugge per un pelo all’attentato delle Guardie di ferro, mentre attraversa in treno il confine della Jugoslavia. Abdica e suo figlio Michele diventa una marionetta nelle mani del generale Ion Antonescu, il primo ministro che alleato con le Guardie di ferro instaura lo Stato legionario nazionale. Per cinque mesi, dal settembre 1940 al gennaio 1941 domina il regno del terrore, con violenze, eccidi a raffica, assassini politici. I legionari fanno fuori Nicolae Iorga, il grande storico rumeno che oggi rivive nelle strade di Bucarest. Nel 1944, il re Michele cambia fronte: si unisce agli Alleati, arresta di persona Antonescu, ma non fa in tempo ad accettare l’armistizio e a dichiarare guerra alla Germania, che è costretto a capitolare di fronte all’invasione dell’Armata rossa, e nel 1947 viene deposto dal regime comunista.

 

Ultimo esponente degli Hohenzollern-Sigmaringen, Michele di Romania vive ancora in Svizzera, centenario. Dopo la caduta di Ceausescu, è stato accolto a Bucarest da una folla festante e ha regalato alla neonata democrazia lo stemma di famiglia che figura su tutti i documenti e i palazzi ufficiali, mentre la figlia continua a sostenere l’arte e la cultura, con borse di studio ai giovani musicisti. Così, c’è qualcosa di retroattivamente profetico nel vedere la casa in cui nacque, come se il tragico destino dell’ultimo re di Romania avesse il suo correlativo oggettivo in quel villino triste e un po’ slabbrato, come certe villette borghesi costruite a Fregene negli anni Cinquanta, con l’intonaco giallognolo, i muri scrostati, le imposte arrugginite e l’erba del prato cresciuta alla rinfusa.

 

Tornato al potere, Carlo II soppresse partiti e Parlamento e instaurò una dittatura regia per contrastare l'egemonia nazista

Basta girare l’angolo però e l’atmosfera cambia. Tra la Chaussée Kiseleff e la piazza Dorobantilor, che evoca le truppe scelte di Carlo I, domina il lusso di un quartiere elegante e immerso nel verde. E’ il quartiere dell’alta borghesia liberale e cosmopolita, la borghesia erede dei patrioti della rivoluzione del 1848, degli esuli repubblicani fondatori della patria, come Bratianu, Balcescu, Rossetti, “che sognavavano Parigi e Vienna e si sentivano occidentali perché parlavano una lingua romanza, anche se erano di religione ortodossa”, ricorda oggi il rettore dell’Università di Cluj, Ioan Aurel Pop, insistendo sul fatto che la sua generazione, erede di quegli eredi, è rimasta francofona e italofona, non ha mai voluto studiare il russo e ha sempre guardato all’occidente per nutrire la speranza. “La speranza di un modello e di un traguardo, che si perpetua qui anche dopo il crollo del comunismo”, aggiunge Smaranda Bratu Elian, che insegna Letteratura italiana all’Università di Bucarest.

 

Lì dunque, in questo bel quartiere che precede la piazza della Vittoria, c’è la sede del ministero degli Esteri, e un tempo c’era la villa dell’Aleea Vulpache (oggi strada Ankara) dove Carlo II viveva con Magda Lupescu. Prima di essere distrutta dal terremoto, questa villa era frequentata dal fior fiore dell’élite rumena: aristocratici di sangue blu, come la principessa Marthe Bibesco (figlia del ministro degli Esteri Ion Lahovary e di una Mavrocordat, aveva restaurato con l’aiuto di un architetto italiano il palazzo Mogosoaia in stile rinascimentale, dove visse sino alla confisca dei beni, seguita dall’esilio nel 1945). Era frequentata da industriali ricchissimi come Max Ausschnitt, che abitava nel palazzo in stile Luigi XIV sull’Aviatorilor Avenue (identico all’Hôtel de Biron, oggi Museo Rodin), anch’esso confiscato dai comunisti, restituito alla famiglia, e rivenduto poi a un ricco immobiliarista, proprietario di squadra di calcio e ultraortodosso, che ha piantato nel giardino un immenso crocifisso dorato.

 

Le case qui sono tutte diverse e una più originale dell’altra. Alternano lo stile eclettico, rumeno, rinascimentale, bizantino, con palchetti di legno, ogive e ammennicoli vari di foggia stambuliota, allo Jugendstil e all’epoca della Secessione. Ce ne sono anche in stile razionalista, come la sede dell’Istituto italiano di cultura, un cubo brutalista color ocra, e di più leziose, con decorazioni art nouveau, international style, facciate tipo dacia russa e altre bizzarrie compositive. Sembra un catalogo di storia dell’architettura, ma è il quartiere delle ambasciate e delle rappresentanze straniere, che in ogni moderna capitale, sia essa un borgo sperduto di una remota provincia o una metropoli futuribile nata nel deserto come Brasilia, dà un tocco inconfondibile di occidente. Bucarest qui a tratti sembra somigliare a Parigi, alle rotondità del IX arrondissement, o alla rigorosa eleganza del VIII, con l’avenue François 1er, la place Jean Goujon. Affacciata su una piazzetta nel verde, la residenza dell’Ambasciatore del Libano è un villino con un portico rotondo sormontato da una cupoletta di vetro, che poggia su quattro colonne in stile dorico: e dietro le finestre nascoste dai rami di un tiglio è facile immaginare antiche fantasmagorie da mille e una notte. A pochi passi da lì, sull’Aleea Alexandru, c’è un bel villino bianco su tre piani in stile inglese, con le finestre della mansarda incastonate nell’ardesia. Siamo in territorio polacco, perché questa era e ancora è la sede dell’ambasciata di Polonia. E dietro quelle finestre è stata scritta una delle pagine più tragiche del Novecento. “Dopo l’invasione nazista è proprio qui che ripararono i dirigenti polacchi screditati nella loro politica filonazista”, ricorda lo storico Niculescu. “Ed è qui che avvenne il passaggio di consegne al generale Wladyslaw Sikorski, primo ministro del governo polacco in esilio”, morto tragicamente nel luglio del 1943, precipitando da un aereo a Gibilterra. Stretta a est dalla Russia sovietica, a ovest dalla Germania nazista che aveva occupato e esteso il suo protettorato alla Cecoslovacchia, la Polonia all’epoca era isolata: l’unica via di fuga era la Romania, con cui divideva i 60 km di frontiera della Bucovina, fino a Carnauti, un tempo Czernowitz, o Tschernowitz, la Gerusalemme dei Carpazi con le sue 78 sinagoghe, la patria di Paul Celan e di Gregor von Rezzori, dove gli ebrei erano la metà della popolazione, diventata poi Cernivscy sotto dominio sovietico.

 


Sulla Calea Victoriei, i più bei palazzi dell’Otto e Novecento, come quello dei Cantacuzeno, con la tettoia a forma di voliera, trasformato oggi in Museo Enescu


Per cinque mesi, dal settembre 1940 al gennaio 1941 domina il regno del terrore, con violenze, eccidi a raffica, assassini politici

Alla fine di un altro vialetto spunta dal nulla la statua di un monaco magrissimo dall’aria ascetica. E’ il vescovo Vladimir Ghika, che vedremo replicato anche nel centro della città, principe di una antica famiglia aristocratica, con palazzo nella Calea Victoriei, il corso di Bucarest che celebra la vittoria sui turchi e l’indipendenza. Arrestato dal regime comunista, torturato, morto in carcere nel 1954, il vescovo Ghika è stato beatificato nel 2013. E la sua statua dimostra come nulla venga lasciato al caso nell’iconografia di Budapest moderna, capitale libera del mondo occidentale. E’ per questo che forse l’idea di installare al centro della piazza romana la statua di Traiano a cavallo, scolpita da Salvador Dalí, non è proprio all’ordine del giorno, nonostante l’attivismo di Radu Varia, lo storico dell’arte amico del surrealista spagnolo, che un giorno prendendolo per mano all’Hôtel Meurice gli disse “Venez voir les testicules”, e davanti alla foto di una statua dell’imperatore romano completamente nudo, esclamò: “Voilà les origines du peuple roumain”.

 

Il fatto è che a trent’anni dalla caduta di Ceausescu, il despota che si era costruito una specie di Zigurat distruggendo tre quarti della città vecchia, sfidando il Pentagono col secondo palazzo più grande del mondo, per farne il Centrul Civic, la Casa del Popolo, oggi sede del Parlamento è come se si volesse mondare il passato ancora grondante di sangue, per cercare di arredarlo ex novo, non potendolo condannare all’oblio, puntando dunque sugli eroi, sui martiri della libertà, sui simboli dei valori attuali.

 

Michele di Romania vive ancora in Svizzera, centenario. Dopo la caduta di Ceausescu è stato accolto a Bucarest da una folla festante

L’oblio, come in ogni rivoluzione, anche per i rumeni è impossibile. Del regno di Ceausescu, che ha distrutto i vecchi quartieri, continuando le demolizione sino a pochi giorni prima del crollo del regime, restano ancora tracce indelebili. E si trovano non solo nel carcere di Sighet, diventato un luogo della memoria grazie alla poetessa Ana Blandiana e a suo marito Romulus Rusan, che hanno raccolto e ordinato le testimonianze di migliaia di vittime della represssione comunista. Queste tracce sono anche nei matarozzi coreani che alterano il profilo della città, come quello che sbuca all’improvviso su un lato della Piata Victoriei completamente fuori scala, rovinando l’armonia dell’insieme. Plumbei edifici spettrali gravano come fantasmi sulla città. E per capire il prima e il dopo bisogna leggere i romanzi allucinati e dolenti di Mircea Cartarescu (tutti magnificamente tradotti da Voland) e prima ancora il saggio su Bucarest di Paul Morand, l’amico di Proust che dopo aver sposato la principessa Sutzo, nata Chrissoveloni, grande famiglia di banchieri discendenti dei Fanarioti, i greci stambulioti che governarono nel Settecento per conto degli ottomani, era finito come ambasciatore di Francia in Romania negli anni bui del regime di Vichy. Ma per cogliere in un colpo d’occhio la differenza tra lo stile della monarchia e quello del regime comunista, basta percorrere la Calea Victoriei, dove si vedono ancora i più bei palazzi dell’Otto e Novecento: quello dei Cantacuzeno, con la tettoia a forma voliera, trasformato oggi in Museo Enescu, in omaggio a una delle poche glorie nazionali passate indenni dal comunismo; quello degli Stirbei, con le sue cariatidi neoclassiche e i cespugli incolti, dimora di un’altra famiglia principesca, responsabile di sventramenti ma dedita al culto dell’arte, e poi il palazzo dei Monteoru, in stile ecclettico con scalone monumentale, e persino il palazzo in stile viennese che tra le due guerre ospitava l’ambasciata del Terzo Reich, oggi in stato di perfetto abbandono, come anche il villino orientaleggiante dove negli anni Trenta c’era l’Istituto italiano di cultura.

 

La vera sorpresa è scoprire nel centro della città l’Ateneul Român restituito al suo antico splendore con i medaglioni di Carlo I e degli altri re finalmente liberati del velo rosso che per quarant’anni li aveva tenuti nascosti alla vista del popolo. Entriamo in questo tempio dell’arte e, altra sorpresa, il direttore della Filarmonica Andrei Dimitriu, un ingegnere melomane, ci mostra l’ultima scena dell’ affresco circolare dipinto alla vigilia della Seconda guerra mondiale e prontamente rimaneggiato quando il dittatore Antonescu ordinò di sostituire i volti degli ultimi re con quelli di tre contadine ben in carne. A Bucarest, l’università, con suoi edifici imponenti, segno di emancipazione in nome della scienza e della cultura, occupa vari isolati tra la Piazza della Rivoluzione e il boulevard Balcescu, intitolato al patriota liberale morto di tisi a Palermo nel 1852 e mai rimpatriato, che sfocia nella piazza dell’Università, epicentro della rivoluzione anti Ceausescu, col teatro nazionale oggi completamente ricostruito e il Palazzo Sutzo, passato ormai al comune ma dove si respira ancora il fasto di un tempo. Sulla piazza della Rivoluzione, davanti alla biblioteca dell’università, rifulge la statua di Carlo I a cavallo, un bronzo scolpito ex novo, per risarcire il suo autore, un croato che vinse la causa contro il regime, colpevole di averla fatta a pezzi. Da allora, vige la cautela. Le statue vengono rimosse, seppellite, ma non distrutte. Più avanti, una stele in marmo bianco con un globo di ferro a mo’ di gomitolo infilzato in cima, con macchia rossa colante, simbolizza il martirio dei 1.600 oppositori di Ceausescu, ultime sue vittime. La scultura è al centro della spianata tra il Palazzo reale costruito per il nuovo re prussiano e la sua corte, destinato poi a ospitare la Galleria nazionale di arte rumena, e il ministero degli Interni, un freddo edificio in puro stile sovietico, un tempo sede della Securitate, la polizia di Stato, col famoso balcone dal quale il dittatore Ceausescu arringava le folle e la terrazza da dove tentò in extremis la fuga in elicottero, per finire poi fucilato a furor di popolo.

 

Oggi però la prospettiva sul palazzo di Ceausescu è nascosta da un immenso cubo in bronzo, sul quale è seduta una statua filiforme e possente di un uomo dalle spalle dritte, che guarda verso il cielo e tiene i palmi delle mani rivolti verso l’alto. Rappresenta Iulio Maniu, politico liberale, oppositore di Carlo II, avversario del dittatore Antonescu, difensore degli ebrei, sostenitori degli Alleati: fu un oppositore del regime comunista, che l’accusò di alto tradimento, lo condannò all’ergastolo nel carcere di Sighet, dove finì i suoi giorni nel 1953 dopo esser stato torturato. Oggi è lui l’eroe, il simbolo della Romania moderna e garantista, questa marca dell’est più occidentale del mondo, che senza cancellare le miserie della storia vuole dare di sé un’altra idea, più libera e più degna di quella ereditata dal passato.

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