Il giardino allestito davanti a Palazzo Marino chiuso da paratie, come fosse una grande libreria, per i Green Carpet Fashion Awards, domenica scorsa al Teatro alla Scala (foto LaPresse)

Com'è verde la mia moda

Fabiana Giacomotti

La maglietta che butti, il jeans che inquina, il politically correct. La scoperta della produzione sostenibile

Domenica scorsa la Milano della moda, la Milano che spinge per esserci e un po’ di ospiti stranieri di cui alcuni di gran richiamo come Andrew Garfield e il direttore di Vogue America Anna Wintour, spiritosissima, hanno festeggiato la prima edizione dei premi alla moda sostenibile, i Green Carpet Fashion Awards, al Teatro alla Scala. Ci sono state un po’ di sbavature nella sceneggiatura e un documentario sul made in Italy in stile pubblicitario italico d’antan, tutto spiritosaggini senza spirito, per fortuna azzerato all’ultimo momento. Ci si è divertiti un po’ meno del previsto a causa della solita imposizione cantoria del sovrintendente Alexander Pereira che, contando sull’ignoranza musicale dei modaioli più di quanto dovrebbe, ha piazzato in apertura un pessimo tenorino dell’Accademia e una Mimì di incontenibile buona salute e trillante come una Musetta. In generale è stato però un buon “numero zero in onda”, come ha commentato l’amica televisiva all’uscita, e il parterre meritava tutti i titoli dei quotidiani che ha ottenuto. Il presidente della Camera nazionale della moda, Carlo Capasa, osservava soddisfatto la sfilata di celeberrime bellezze di verde vestite inclusa Gisele Bundchen, attivista per la foresta amazzonica in abito eco-mozzafiato che porterà nuove e speranzose clienti a Stella McCartney, sebbene non ci siano dubbi che il colpo gobbo sia stato il premio “recognition for sustainability” grazie al quale sono saliti sul palcoscenico, per la prima volta insieme, i massimi nomi della moda italiana di questi anni, cioè Miuccia Prada, Pier Paolo Piccioli di Valentino, Alessandro Michele di Gucci, con il massimo esponente della moda italiana, Giorgio Armani. La foto ha fatto, giustamente, il giro del mondo. Ci è stato invece e miracolosamente risparmiato l’altro piatto forte dell’attuale gestione scaligera, Placido Domingo nei panni del direttore d’orchestra che dieci giorni fa, in analoga occasione strass e paillettes, ha fatto strame del “Sombrero de tres picos” di Manuel De Falla.

 

Domenica scorsa al Teatro alla Scala la prima edizione dei premi alla moda sostenibile, i Green Carpet Fashion Awards

Il vero capolavoro è stato il tappeto verde di milleduecento metri quadrati steso nel percorso fra il monumento a Leonardo da Vinci e il portico terrazzato del Piermarini di cui si è invece scritto pochissimo. Rigenerato da rifiuti tessili degli scarti delle lavorazioni italiane e cinesi, vecchi tappeti americani e tonnellate di reti da pesca dismesse dall’industria del salmone in Norvegia, Scozia e nel Mediterraneo, è stato realizzato da Aquafil, il gruppo di Arco di Trento che si quoterà al segmento Star di piazza Affari il prossimo 13 novembre dopo la fusione per incorporazione nella Space3 di Sergio Erede e Gianni Mion. Aquafil realizza fibre sintetiche dal 1969, e la tessitura di quella meraviglia srotolata di fronte al portico terrazzato del Piermarini è stata la sua grande occasione per pubblicizzare l’unità di riciclo inaugurata qualche anno fa e fino a oggi oscurata dai milioni di metri di fibre poliammidiche prodotte all’anno.

 

Prima di entrare nel merito della moda green e del tappeto verde milanese che a noi del Foglio, iconoclasti di formazione e allergici ai luoghi comuni per nascita, hanno fatto alzare più di un sopracciò, vorrei infatti fornire due dati recenti sull’impatto che la moda mondiale ha sul pianeta. Per dirla in sintesi, a noi dell’internazionale dello chiffon e delle borsette con gli strass, Trump fa un baffo e le emissioni della Cina il solletico. La moda del no gender e dell’“evento” come unico ordine di misura di una vita di successo, in tema di inquinamento è seconda solo al petrolio, che per di più utilizza a mani basse nei trasporti. Per decenni, anzi per più di un secolo, nessuno ci ha fatto però caso e, fino a qualche anno fa, di moda etica e sostenibile parlavamo e scrivevamo davvero in pochi. Complice la crisi e il boom della moda a basso costo, che offriva a tutti la possibilità di togliersi uno sfizio con pochi euro continuando perciò a sentirsi parte del mondo benestante, a toccare il tema nei dibattiti televisivi o nei convegni si veniva insultati come biechi classisti che volevano negare anche ai meno abbienti il “diritto di cambiarsi tutti i giorni” (cito testualmente). E i coloranti al piombo buttati nei fiumi indiani a tonnellate? E le donne sfruttate nelle fabbriche pericolanti del Bangladesh per diciotto ore al giorno? Chissenefrega. Me first, io per primo, avete presente il genere, che alligna in tutte le fasce socio-culturali ma, per fortuna, non necessariamente in quelle anagrafiche.

 

Il cotone, nonostante i danni che produce, è tuttora considerato il non plus ultra della naturalezza nonché la fibra più adatta per i neonati

Un paio di anni fa, una ricerca realizzata da Greenpeace Germania segnalava che la produzione di abiti era raddoppiata dal 2000 al 2014: il consumatore medio acquistava ogni anno il sessanta per cento di capi in più, la cui durata si era però dimezzata rispetto al ventennio precedente e produceva montagne di rifiuti. In Italia, la rete Mercatino aveva calcolato che dei 2,2 milioni di indumenti e accessori di seconda mano venduti nei loro punti vendita, quelli buttati annualmente erano pari a settanta milioni. Il solo riciclo del capo in sé non era dunque una soluzione: bisognava produrre capi di maggiore durata e produrli meglio. Ma chi avrebbe imposto alle aziende di farlo, o almeno di provarci? Tenetevi forte, i giovani. Qualche successiva ricerca ha infatti evidenziato che i famosi sdraiati con cui ce la prendiamo quotidianamente per la torpidezza vera o presunta sono decisamente più attenti all’ambiente di quanto lo siamo noi genitori, per non dire i loro nonni che non si sentono ancora sufficientemente risarciti dei razionamenti e del freddo patiti durante le grandi guerre, al punto di odiare perfino la raccolta differenziata che in genere, infatti, non praticano. Noi baby boomers, martellati da trent’anni di campagne contro gli sprechi, i coloranti e gli abusi alimentari, leggiamo per esempio ossessivamente gli ingredienti dei prodotti che mettiamo in tavola; però non siamo ancora riusciti a concentrarci sull’evidenza che, se il nostro organo più esteso è la pelle e se questa tende a sudare, forse varrebbe la pena di non metterla a contatto con coloranti al piombo e ftalati che per loro natura tendono a penetrare e a fissarsi sulle fibre ospitali che trovano, cioè addosso a noi. I millennial e la generazione Y, che li precede di poco, hanno invece attenzione limitata e facilona per tutto, ma anche trasversalmente diffusa, panta rei, e dunque a tutto prestano almeno ascolto. Preferibilmente spendono poco per vestirsi e non si svenano di certo per il capo di culto di stagione che fra l’altro non esiste nemmeno più, sostituito da una libertà di gusto e di scelta in cui il genio di Alessandro Michele c’entra parecchio e nonostante il cappellino da baseball indossato sul palco della Scala che è stato un colpo al cuore di noi milanesi. Ma un po’, al benessere del pianeta e a chi lo abita, questi ragazzi si interessano davvero. Per questo motivo, e anche perché i costi di trasporto di tonnellate di vestituzzi dal Vietnam iniziavano a pesare sui bilanci, da qualche anno anche le multinazionali del fast fashion e delle magliette a nove euro e novanta hanno fatto mostra di pentimento e indirizzato le nuove strategie sulla doppia direttrice del riciclo e della produzione, se non proprio di prossimità, almeno non all’altro capo del mondo.

  

Raddoppiata dal 2000 al 2014 la produzione di abiti. La durata però si era dimezzata rispetto al ventennio precedente

Essendo i vecchi comportamenti difficili da sradicare e la soddisfazione degli azionisti non negoziabile, la coscienza eco ha funzionato finora a corrente alternata e in modo ambiguo, vedi il caso di H&M che dal 2013 promuove la raccolta di abiti usati e lo scorso febbraio ha lanciato la prima collezione di moda sostenibile e rigenerata dagli scarti plastici, ma che ancora nel 2016 è stata denunciata dall’International Labor Rights Forum e la United Students against Sweatshop per non aver rispettato l’Accordo sulla prevenzione degli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh, cioè per continuare a lavorare con terzisti senza scrupoli. La sigla United Students serva da ulteriore indicazione su chi guida la rivoluzione contro gli sprechi e gli abusi nella moda: ai corsi di economia e moda delle università, gli incontri più affollati sono quelli che ospitano aziende di abbigliamento pronte all’autodafé o dove tecnici del settore spiegano i costi e le tecniche reali per realizzare eticamente il capo potenzialmente più inquinante del mondo, i jeans. Il danno prodotto dalle industrie tessili sul pianeta è talmente macroscopico da essere stato fotografato dai satelliti: la superficie del Lago d'Aral, in Kazakistan, è diminuita del novanta per cento rispetto agli anni Sessanta a causa delle monocoltura del cotone, usato quasi nella metà dei nostri capi di abbigliamento, che ha deviato gli affluenti che lo alimentavano. Noi del Foglio, come centinaia di altri giornali, abbiamo scritto più volte dei danni prodotti dal cotone, massimo desertificatore naturale e abile trattenitore di germi. Eppure, complice mezzo secolo di campagne pubblicitarie e del suo aspetto innocuo, anzi soave, è tuttora considerato il non plus ultra della naturalezza nonché la fibra più adatta per vestire i neonati. Per questo, e per tornare al tema dei Green Carpet Awards, è necessarissimo che vi sia un battage di richiamo popolare a favore della sostenibilità. Le sofisticate iniziative messe in campo fino a oggi, infatti, non hanno funzionato. Per sapere che Gucci ha una policy strettissima su trasporti, packaging e produzione e che Valentino valorizza l’eccellenza della proprie maestranze, dunque che il lavoro manuale non è una diminutio rispetto a una laurea in Filosofia presa magari a calci nel sedere, s’è dovuto portare l’altissima figura del ceo Marco Bizzarri sul palco della Scala e le sarte di Palazzo Mignanelli in camice bianco contro i velluti rossi del sipario. Le iconostasi a quello sono sempre servite, e a questo servono tuttora, nella forma diversa dell’evento social: a raccontare per immagini storie interessanti a chi non necessariamente legge. Dunque non c’è da stupirsi se Isko, la multinazionale turca che produce circa 250 milioni di metri di denim sostenibile all’anno, ha deciso di affiancare i Green Carpet Award, e se la presidente di Eco-Age che li ha attivati, Livia Giuggioli, moglie di Colin Firth, ha puntato a infilarvi il maggior numero di celebrity possibili: perché anche il pubblico più vasto, che non frequenta i master e manco la Scala, guardasse le foto della serata e magari si ponesse due domande su quello che ha nell’armadio o che intende metterci nei prossimi anni. Che poi i premi puntassero a non scontentare nessuno dei grandi nomi della moda italiana (si immaginano le pressioni degli ultimi mesi su Capasa) e che le start up di moda sostenibile o i singoli artigiani premiati fossero in numero esiguo rispetto alla totalità dei riconoscimenti, è relativamente poco importante.

 

Il solo riciclo del capo in sé non era una soluzione: bisognava produrre capi di maggiore durata e produrli meglio

Sfidiamo chiunque ad andare a Sant’Antioco a conoscere Chiara Vigo, tostissima nonché ultima filatrice di bisso marino, anzi li sfidiamo a cercare sulla Bibbia i riferimenti a questo meraviglioso tessuto serico: quello che conta è che la signora, col suo abito che pareva uscito dalla Medea di Pasolini, fosse lì a farsi fotografare. Quello che conta è che il premio al giovane stilista green intitolato alla memoria di Franca Sozzani, “GCC award for best emerging designer” sia andato a un trentenne, Tiziano Guardini, che usa solo seta cruelty free, cioè fatta senza bollire bachi da seta a milionate, e ritaglia paillettes da vecchi cd. Come sempre, la strada migliore per cambiare le cose è l’esempio, e anche un po’ di furbizia. Qualcuno ricorderà che un paio di anni fa, in una stazione del metro a Berlino, il collettivo ambientalista Fashion Revolution installò un distributore automatico di magliette a due euro. Prima di ottenere il capo scelto, una volta inserita la moneta bisognava però assistere a un breve filmato che illustrava come fosse stato possibile realizzarla a quel prezzo. La stragrande maggioranza sceglieva l’opzione “rinuncia” ottenendo indietro i soldi.

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