Saviano channel
Dalla Rai a Mediaset, da Discovery a Netflix: non c’è rete che non metta in onda un programma dell’autore di “Gomorra”. Uno scrittore trasformato in format, una tv che diventa antitelevisione
Droni su Secondigliano e Scampia, faldoni giudiziari, musica rap, voce narrante di Roberto Saviano. “Kings of crime” è una serie factual in prima serata su Canale 9, una specie di risposta alla docufiction su “Mafia capitale” dove Saviano racconta le vite dei boss e le strade del narcotraffico dalle “Vele” alle Ande ma con un “approccio scientifico, non semplicemente divulgativo”, tiene a precisare. Ce ne accorgiamo subito dalla cravatta, dall’ambientazione universitaria, come a una lezione di “Teorie e tecniche della camorra” del Professor Saviano, dagli schemi sulla lavagna (“scissionisti”, “Casal di principe”, “pusher”), dai fogli di “Repubblica” buttati sulla cattedra, dalla platea di studenti che prendono appunti. Saviano spiega che Anielluccio O’Pazzo era detto “il macellaio” perché squartava le sue vittime, dettaglio sulla mano dello studente che scrive “ma-cel-la-io” sul quaderno. Saviano parla, enfatizza, drammatizza. Nessuno interviene. Non una mano alzata, una domanda, un’osservazione, uno che si alza per andare in bagno o sbircia il telefono se non altro per dare ritmo. Solo sguardi catatonici tra i banchi in terza fila, narcotizzati dall’estenuante ricostruzione della struttura parentale di Ciruzzo O’Milionario o dall’architettura delle “Vele” spiegata con piante e disegni. La camorra, nella particolare mediazione televisiva che ne dà Saviano, va inflitta così. Inutili gli inserti di repertorio, il montaggio fracassone, gli stacchi, gli effetti sonori. Tutto è sottomesso all’ordine supremo della “forza della parola”, secondo un’estetica televisiva che Saviano ha accuratamente messo a punto in tutti questi anni. “Kings of crime” è dunque l’ennesima variazione del monologo di Saviano il cui dramma consiste in questo: che dura sempre di più del tempo trascorso.
La letteratura come educazione civica, l'impegno come lacerazione e missione trovano la più compiuta forma televisiva
Quando diciamo che non sappiamo scrivere nuovi programmi, che i palinsesti sono in mano agli agenti, che facciamo fatica a innovare e compriamo tutto dall’estero, dimentichiamo di essere gli unici ad aver trasformato uno scrittore in un format televisivo. Roberto Saviano non lo abbiamo importato ma allevato, definito, perfezionato interamente a casa nostra. Un orgoglio italiano. Un prodotto televisivo adattabile a tutte le reti. Plasmabile, transmediale, crossmediale, capace di attraversare piattaforme, target, canali, da RaiUno a Discovery, da Fazio a “Narcos”, da Sky Atlantic a Maria De Filippi, passando da La7, Canale 9, CurrentTv, RaiTre. Saviano copre tutto lo spettro della televisione italiana dividendo i programmi in due grandi tipologie: con il monologo di Saviano o senza. L’immigrato come risorsa simbolica della sinistra, il narcotraffico come storytelling globale, la letteratura come educazione civica, l’impegno come lacerazione e missione trovano nel monologo di Saviano la più compiuta forma televisiva. Quello tra la tv e Saviano era d’altronde un matrimonio fatale. Da un lato, la vocazione della nostra televisione alla solennità, alla dilatazione, alla «forza della parola». Dall’altra, il ricatto del contenuto, la legittimazione culturale, le quote di indignazione che si portano un po’ ovunque da Sanremo alle docufiction su “Mafia Capitale”. Perfetta anche la tempistica. “Gomorra” libro esce nell’anno della presentazione della piattaforma unica per il digitale terrestre italiano, con l’impegno a promuovere il digitale satellitare e l’espansione sconfinata delle frontiere televisive. Il resto è cronaca recente. Il ricambio degli assetti, il consolidamento dei nuovi player, la presa di Viale Mazzini da parte del Gruppo Espresso, l’evaporazione di RaiTre che si disperde su tutte le reti. La savianizzazione della tv italiana incarna come prima cosa la metamorfosi della sinistra: più sparisce in politica, più si allunga in televisione. Saviano però è già oltre. Primo intellettuale mediatico prodotto dalla scomparsa dello schema destra-sinistra, intuisce l’inabissamento dell’antiberlusconismo, pensa in grande, si butta sul narcotraffico globale e i migranti. Gli altri finiscono con un blog sul Fatto Quotidiano, un articolo su Micromega, un’ospitata da Gruber e Formigli, ma Saviano no. Lui troneggia sul divano di pelle avvolto nella penombra e lancia la terza stagione di “Narcos” su Netflix facendo il verso a Al Pacino in “Scarface”. A questo punto, bisognerebbe domandarsi come sia possibile che un intellettuale assai poco telegenico, dotato di una prosa, una presenza scenica e una costruzione dei testi che andrebbero bene a un reading in una Feltrinelli del centro ma sullo schermo calpestano le regole più elementari del linguaggio televisivo si sia trasformato in un format o una apparizione immancabile in ogni programma che si rispetti. Qualche idea ce l’avremmo. Anzitutto, Saviano garantisce alla cifra dell’impegno una credibilità televisiva che hanno in pochi. Lo ha imparato a proprie spese Baricco che, come scrittore in sintonia col pubblico, avrebbe dovuto sapere che il migrante in tv si porta solo con Saviano. Non bastano Steinbeck, i Baustelle, i vecchi materassi ripiegati nella scenografia per far lievitare la “forza della parola”. Ci vogliono anni di specializzazione nel “politicamente corrotto”, un dress-code da intellettuale venuto dal basso, lo strascico del neorealismo, la capacità di muoversi nello spazio come gravassero sulle sue spalle tutti i problemi del mondo. Saviano non è indignato ma “riflessivo”. Ogni suo sguardo tradisce la consapevolezza che il nostro tempo è sporco e corrotto, però lui sa anche perché. “Current Tv” lanciava così lo speciale, “Saviano racconta Saviano” nel 2010: “Un programma con un taglio documentaristico che prende il via dall’adolescenza dello scrittore, quando la madre sognava per lui un pacato futuro da chimico e il tempo scorreva fuori dalle aule del liceo di Caserta, per soffermarsi poi sugli occhi dello scrittore, nei quali rimangono impresse le immagini del malaffare che respirava tutt’intorno”.
Incarna la metamorfosi della sinistra: più sparisce in politica, più si allunga in televisione. Sul divano di pelle avvolto nella penombra
Saviano è tratto da una storia vera, Baricco no. Se aprisse una scuola di scrittura non la chiamerebbe mai “Scuola Holden” ma “Calamandrei”. Forse oggi se lo ricordano in pochi ma la gavetta televisiva di Saviano inizia con un’intervista di Enzo Biagi, praticamente un’investitura, un battesimo nel nome della televisione che pensa. “Gomorra” libro non ha ancora compiuto due anni, Fazio è ancora lontano e Biagi chiude l’intervista dicendo “le auguro di scrivere ancora e di venire ascoltato”. Non letto, ascoltato. Saviano inizia da lì il suo lento, inevitabile e inarrestabile percorso televisivo. Fazio ne intuisce per primo lo sconfinato potenziale liturgico, quando Saviano è ancora grezzo. Più “antitelevisivo” davanti alle telecamere che “antitaliano” sull’Espresso, dunque perfetto per la nostra tv. Fazio vede il futuro. Se lo immagina già con la fascia tricolore addosso, la banda dei carabinieri, l’inno di Mameli e la Costituzione nelle serate su RaiUno contro tutte le mafie. “Vieni via con me” è il trionfo della televisione di parola, una cerimonia laica fatta di elenchi, raccoglimenti, dolenze, primi piani e silenzi. Fazio e Saviano leggono “la lista dei finanziamenti pubblici degli Istituti di cultura europei nel 2010”, un cavallo di battaglia della “buona televisione”, oppure l’elenco di “motivi per cui è giusto costruire la moschea di Torino”, o le “categorie di prostituta che esercitavano a Pompei prima dell’eruzione del 70 dopo Cristo”. Nichi Vendola legge i nomi con cui si indica un omosessuale regione per regione ma Saviano va nello specifico, sfodera “l’elenco dei comportamenti che dalle mie parti fanno dire che sei omosessuale”. Parte coi grandi classici (“i calzini a righe”, “la maglietta rosa”, “la supposta”), si addentra in dettagli subliminali (“la birra con la fetta di limone”, il “pinzimonio”, “i crackers”, “l’olio a crudo sulla pizza”), spiega che a Casal di Principe “la frittata col salmone” è sintomo di omosessualità mentre noi pensavamo fosse solo una zozzeria, infine sconfina nell’intimità della toilette perché, dice Saviano, sintomi di devianza sessuale sono “i bastoncini di cotone per le orecchie” e “usare più di due tirate di carta igienica” (uno potrebbe anche tenerselo per sé, mentre la maglietta rosa si vede).
Preso dal demone della metatelevisione autoreferenziale, Fazio legge tutte le definizioni di Roberto Saviano davanti a Roberto Saviano, dalla A di autore di successo alla V di vile passando per sex symbol, comunista, fascista, eroe. E’ una partitura a più voci, una fuga di Bach, un rosario, un happening o una riunione dell’anonima indignati. Entusiasmo alle stelle a Viale Mazzini, come ogni volta che si va in tv a leggere qualcosa, dall’elenco del telefono alla Costituzione. “Roberto Saviano ha dimostrato che un’altra televisione è possibile” dicono in Rai, però Saviano se ne va via con Fazio a La7. “Ci eravamo accorti che per la Rai quel programma era ingombrante, probabilmente i tempi non erano maturi” dicono Fazio e Saviano. C’è aria di bavaglio, editto bulgaro, programma scomodo. Arriva “Quello che (non) ho”, ovvero “il senso delle parole e la forza della musica”, cioè come prima ma con “le parole al posto degli elenchi” e le canzoni di protesta. Un happening di tre giorni in cui “ridare il corretto significato e importanza alle parole”. Ecco dunque il secondo punto di forza del nostro. Saviano garantisce alla nostra naturale inclinazione per la tv pedagogica un rilancio verso nuovi orizzonti. Quando Saviano appare da Maria De Filippi non porta solo legittimazione culturale ma la prosecuzione dell’impegno con altri mezzi. Saviano entra ad “Amici” e Maria De Filippi distribuisce ai ragazzi e ai giurati del programma, “Le notti bianche” di Dostoevskij. “Abbiamo paura di non capire, invece siamo in grado tutti di leggere e capire cose c’è scritto in questo libro”. Puro Maestro Manzi. Flash-mob sulla letteratura, poesie di Anna Achmatova, richiami alla Costituzione, alla Resistenza, al bullismo e migranti ovunque.
Quando era giudice da “Amici”, Morgan si lamentava perché Saviano leggeva sul “gobbo”. Non capiva che la “forza della parola” non conosce confini e può imprimersi anche sul gobbo. Saviano dispiega contenuti e incarna meglio di chiunque altro il nostro senso di colpa per l’entertainment televisivo. I migliori editorialisti e opinionisti, l’aristocrazia del giornalismo, gli intellettuali, tutti fanno televisione ma solo a patto di odiarla e non guardarla e più non la guardano, più vogliono scriverla. La nostra televisione riflessiva sforna programmi che aspiravano a essere libri, romanzi, documentari da festival, inchieste, interventi in Parlamento, lezioni universitarie, conferenze dell’Onu, tutto, tranne televisione. A questa antitelevisione, Saviano dà forza e voce nel modo più naturale possibile. Trova l’intonazione giusta. Quando racconta “le mafie” crea un ponte tra le fiction di impegno civile della Rai, la sceneggiata napoletana, la serata “Falcone-Borsellino” e “Scarface”. Nelle omelie televisive sui migranti tocca ineguagliabili punte di populismo riflessivo perché il migrante è un compendio che trascina con sé l’eco di tutti gli “ultimi” (rom, palestinesi, cassaintegrati dell’Ilva, campi profughi siriani, cervelli in fuga, precari dei call center, ebrei ma solo durante la Shoah). Nelle esortazioni alla bellezza, alla lettura, all’impegno in prima persona, che sono a un tempo massimaliste, inquisitorie e colloquiali, Saviano parla al cuore dei giovani che ascoltano in cerimonioso silenzio. “Non mi schiero, ma non sono equidistante”, dice Saviano, sapendo di essere contemporaneamente di sistema e antisistema, come il gatto dell’esperimento quantistico di Schrödinger. Ecco perché quando ironizzava sulla sua candidatura alle “primarie” dei Cinque stelle andava preso sul serio. Saviano sarebbe l’unico, vero, credibile avversario di Di Maio. Stessa dimensione plastica, stessa intercambiabilità modulare, stessa spinta ideologica che affonda le proprie radici nella scena politica del barocco napoletano.
A questo punto non resta che andare fino in fondo. Savianizzare tutta la televisione. Aspettiamo Saviano giudice di “X Factor”, Saviano a “Tale e quale Show” che canta “Losing my religion” truccato da Michael Stipe, il “Roberto Saviano Show” con lui al centro come Maurizio Costanzo circondato da pentiti, Saviano a “Masterchef” che racconta cosa mangiano i narcotrafficanti nei bunker, Saviano che si fa una domanda e si dà una risposta da Marzullo, Saviano al “Grande Fratello Vip” che passa la notte a spiegare a Malgioglio quanto e perché i migranti siano una risorsa.
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