Il Colosseo quadrato, per anni abbandonato e transennato e oggi risplendente di un marchio romano-globale di borsette e immaginario come Fendi

Bello e littorio

Michele Masneri

La scemenza antifascista vuole abbattere monumenti e architetture del fascismo. Che invece hanno storia e grande dignità culturale

Amare l’architettura fascista è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita. Da bambini nei nostri sabati antifascisti i parenti mettevano sul giradischi insieme ai Beatles e agli Stones e a Battisti (quest’ultimo sospetto in quanto forse fascista) soprattutto il sound della strage di piazza Loggia, naturalmente “fascista”. Dal giradischi Technics proveniva prima l’arringa di un sindacalista: “Compagni! la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del Partito fascista…” e poi il botto tremendo e le urla. E chissà perché, piccini, ce la facevano sentire e risentire, in Lp, quella tragica registrazione.

 

Forse perché la mamma come altre professoresse era in quella piazza, incinta di noi, a manifestare con la Cgil, e dunque si venne al mondo nativi antifascisti, anzi antifascisti pre-natali in quanto scampati all’esplosione. Però poi col tempo, nati col mito e il karma della cinquecentesca palladiana piazza Loggia, in un magnifico centro storico, si passava di nascosto, e come sviluppando le prime idee non reçues, per la piazza fascista.

 

Nasceva l’amore per quell’altra piazza, ci si perdeva sempre più di frequente tra i marmi splendenti e deserti. Quella piazza, della Vittoria, era assurda fin dal nome, e figlia del genio di Marcello Piacentini e degli sventramenti (lo sventramento è un grande topos dell’antifascismo architettonico). Gli incongrui marmi bianchi e neri, le Poste e i Telegrafi fuoriscala, le arcate ciclopiche, la serliana palladiana, la torretta della Rivoluzione e l’alta torre Ina, che coi suoi quindici piani e ventisette metri costituiva il primo e più alto grattacielo d’Italia: dalla Cgil si passava a De Chirico; eravamo destinati ad amare il razionalismo.

 

A Brescia, dalla Cgil in piazza Loggia si passava a De Chirico (pazza Vittoria); eravamo destinati ad amare il razionalismo

C’era anche il gusto del dettaglio, il gusto del design totale, in quella piazza Vittoria: la nonna Alda andava a far la spesa all’Italfrutta sotterraneo nella piazza Vittoria (il bello del fascismo architettonico era il design totale di queste piazze), c’era il mercato dei libri antichi, i cinema Astra e Adria, tutto disegnato nel dettaglio con fascistissimo cipiglio.

  

Dopo l’infanzia a due piazze, equidistante tra la piazza fascista e l’antifascista, crescendo e spostandosi, passando per Poste stazioni e palazzi pubblici e privati di quel ventennio, ci si andava a spiaggiare verso la Roma fatale. E ci voleva naturalmente pochissimo per cadere nella fascinazione surreale dell’Eur, fondale urbanistico tutto in asse per incomunicabilità cinematografiche; non solo nel sublime Colosseo quadrato con la frase patetica sui poeti e navigatori, per anni abbandonato e transennato e oggi risplendente di un marchio romano-globale di borsette e immaginario come Fendi. Anche, e soprattutto, il palazzo dei Congressi d’Adalberto Libera con quelle incredibili scale laterali e il teatro marmoreo sul tetto.

 

Poi, studiando: difficile immaginare Roma negli anni Trenta, con vaste costruzioni e un entusiasmo come Milano per gli Expo, ma senza albero della vita, e con Le Corbusier al posto di Zaha Hadid. Siamo nel 1934, Le Corbu sta facendo anticamera da quindici giorni e Mussolini, committente dunque ideale per qualunque urbanista, non lo riceve e non lo riceverà mai perché si fida solo di Piacentini e di pochi altri autoctoni, e poi comunque ci tiene ad aggiungere il suo tocco personale. Le Corbu scrive missive disperate al governatore di Roma, Giuseppe Bottai. Che gli respinge tutte le sue proposte. Gli invia la sua Oeuvre Complète, con dedica deferente, e spera nell’appalto per costruire la “terza Roma”, Pontinia, che invece verrà eretta dall’ingegnere Alfredo Pappalardo e dall’architetto Oriolo Frezzotti.

 

Le Corbu, che è sospettato di essere anche un bolscevico, non demorde e propone a Bottai un piano rivoluzionario per new towns: 50 giorni invece dei 265 di Sabaudia, risparmi del 30 per cento grazie a blocchi prefabbricati poi montati in loco. Ma niente: sempre in attesa dell’incontro fatale, disegnerà anche un piano per la periferia nord della città con “quattro grattacieli destinati ad abitazioni, situati a grande distanza l’uno dall’altro” (respinto); per un palazzo Littorio da erigere tra la basilica di Massenzio e il Colosseo (respinto). Manda schizzi e progetti, e il povero Bottai è costretto a rispondere allo stalker: “Illustre Le Corbusier; vi ringrazio per lo schizzo allegato al progetto precedente; veramente riconoscente per l’interesse con cui seguite i nostri problemi urbanistici, colgo l’occasione per inviarvi i miei più cordiali saluti”. Le Corbu si salva così a sua insaputa dalla lettera scarlatta d’architetto fascista, e non si dovranno abbattere le opere corbusiane nel mondo; la chiesa di Notre Dame du Haut e le Unités d’habitation sono dunque salve, meno male.

 

Abbattimenti politicamente corretti: anche casa Malaparte a Capri? E poi, quanto andare indietro con le committenze sanguinose?

Ma oggi – ritorno alla realtà – dall’Eur metafisico si scende giù naturalmente verso il mare e verso le bonifiche, in avanscoperta verso la via Cristoforo Colombo, già Imperiale (ma oggi, col vituperio per il navigatore, sarà più da vituperare l’onomastica fascista o quella colombiana?). Si procede verso la fatal Pontina e Sabaudia. Prima pagina del Messaggero di sabato 5 agosto 1933: “Oggi sarà posta la prima pietra”, occhiello “Nell’Agro pontino redento dal fascismo”, e meglio di ogni project financing, la città sottratta a “un grandioso deserto paludoso e malarico” (Guido Piovene, “Viaggio in Italia”) sarà pronta molto prima, in soli 265 giorni. Con tanti capolavori, anche tra i meno noti: uno dei più begli ospedali d’Italia: tondo, coloniale, opera dell’architetto Angelo Vicario (1934), che costruì anche alcuni pregevoli villini per medici, intorno.

  

Più in là verso il Circeo, naturalmente villa Volpi, fascismo in purezza. In vendita da anni, abuso d’epoca per la famiglia überfascista e inventrice del Festival del cinema di Venezia. La contessa Nathalie, socialite romana, nata el Kanoui a Orano, Algeria, telegrafava leggiadra all’archistar italiana Tomaso Buzzi, “Faites-moi une petite folie”, una piccola follia sul litorale, e comandava la costruzione di “projet templo greco palladien avec colonnes”, e pronao da Via col vento, dove “dalle finestre estive aperte si potevano sentire quelle sue nenie sudafricane in compagnia di qualche Rothschild, dopo che il maître aveva battuto il gong e suonato una tuba in spiaggia per annunciare la colazione” (Alberto Arbasino, “Ritratti italiani”, Adelphi). Una Malcontenta balneare, per celebrare le origini venete, se non proprio antiche, della stirpe, e un passaggio sotterraneo che porta al lago di Paola, dietro, quasi come quello degli Agnelli a Forte dei Marmi (fascisti!).

 

Sabaudia era poi nata anche esattamente come Palm Springs in quanto collocata a “driving distance” da Cinecittà, se non da Hollywood. Un’ora esatta dai set, con contiguità ed economie di scala, al netto del traffico sulla Pontina: nei primi Festival del cinema by Volpi, aveva poi vinto “Scipione l’africano”; filmone storico attuato con mezzi esclusivamente autarchici secondo nomination di regime (aveva preso poi la coppa Mussolini) e girato sulla duna sabauda, e poi rimasto famoso perché è quello in cui hanno lasciato gli orologi ai polsi delle comparse.

 

Quello di Sabaudia è un fascismo balneare che poi troverà grandi estimatori soprattuto antifascisti. Anche Pasolini: “Quanto abbiamo riso noi intellettuali sulle città del regime, e su Sabaudia. Ma adesso guardandola ci accorgiamo che la sua architettura non ha niente di ridicolo, questa architettura diciamo littoria nel tempo ha assunto un carattere metafisico e realistico”. E ancora: “Una città ridicola fascista che all’improvviso ci sembra così incantevole”. Un fascismo light, da spiaggia, con architetti che come moderni chef o coiffeur prendono i “temi” pesanti classici e però tolgono un po’ di volumi o tagliano i tempi di cottura; ecco dunque strutturine leggiadre, di un razionalismo un po’ floridiano. Ecco le Poste di Angiolo Mazzoni, con rivestimento in mosaico azzurro-Savoia, e le finestre in marmo rosso di Siena, e come nel déco di Miami, gli angoli stondati servivano soprattutto, in tempi pre-aria condizionata, a incanalare i flussi e i venti per raffrescare adunate e passeggiate.

 

A Roma, negli anni Trenta: Le Corbusier fa anticamera, Mussolini non lo riceve. Scrive a Bottai, che gli respinge tutte le proposte

Ma andando ancora più a sud, tra gli abbattimenti politicamente corretti ci sarebbe poi certamente la stupenda casa Malaparte a Capri, noto abuso edilizio che gli eredi Rositani-Suckert conservano amorevolmente, disegnata “in persona” dallo scrittore di “La pelle” e di “Kaputt”, nel tempo libero del confino (fascista) a Lipari, con citazione infatti della scalinata della locale chiesa (ma qui forse un Tar morale della demolizione sospenderebbe la pratica in quanto committenza e designer furono prima fascisti poi antifascisti).

 

E però ci sarebbe da riflettere sulla rivalutazione tacita di queste vergognose architetture soprattutto da parte molti ambienti; non solo Pasolini investiva nel mattone sabaudo nella famosa casa in comproprietà con Moravia e Dacia Maraini celebrando poi tra quelle mura l’antifascismo più chic su carta e pellicola con Bertolucci ed Enzo Siciliano. Dopo gli intellettuali, gli stilisti; Frida Giannini già fondamentale designer di Gucci che ha comprato una delle ville più importanti di Sabaudia, e la sua passione per l’equitazione si esprime cavalcando sulla duna, molto dannunzianamente. Il razionalismo poi invecchia benissimo, non a caso piace ai cinematografari – a casa Malaparte fu girato naturalmente “il Disprezzo” di Godard – e meglio certamente di altri stili e altre epoche (“meglio gli architetti fascisti dei geometri democristiani” teorizzava un caro amico d’un tempo che fu). Con cortocircuiti, anche: la sede del New Yorker americano, all’imperiale One Trade Center di Manhattan da cui proviene la nota polemica antifascista, ha un atrio ciclopico e ampie trabeazioni di marmi candidi che ricordano molto le Poste bresciane di Piacentini.

  

Mentre su altre dune, californiane, nel romanzo di Chiara Barzini “Terremoto” (Mondadori) la protagonista quindicenne romana spiega ai compagni di classe losangelini che in Italia il preside del liceo vieta l’okkupazione, quel fascistone (e i compagni poco avvezzi alla storia e alla politica europee deducono che in Italia non sia mai stata sconfitta la dittatura, e provano solidarietà e incoraggiano rivolte).

 

Abbattimenti politicamente corretti: anche casa Malaparte a Capri? E poi, quanto andare indietro con le committenze sanguinose?

Ma poi: quanto andare indietro con le committenze sanguinose? Andrà bene San Pietro, commissionata dai cattolici romani pedofili e crociati? Buttare giù subito anche il Pantheon e Castel Sant’Angelo, visto come si comportò l’imperatore Adriano coi Caledoni? (e l’efferato Vallo di Adriano, precursore di quello trumpiano?). Le piramidi egizie? Erano a norma i lavoratori? E quelle Maya? Saranno stati committenti virtuosi? Interrogativi che fanno riflettere.

 

Però, tornando alle vergognose urbanistiche italiche, dal global al local, e volendo chiudere il cerchio; a Brescia, nella piazza della Vittoria, soffre soprattutto “il Bigio”, un adolescentone di ricci e marmo opera di Arturo Dazzi del 1932, statua molto elogiata dal Duce, chiamato “Bigio” forse per il “bigio” del marmo, cioè grigio, forse più prosaicamente per il “picio” o organo maschile pur ben dissimulato sotto una figlia di fico o d’uva, che sovrastava le adunate; ma altri soprannomi derivarono forse sub specie di Camillo o Lello, quest’ultimo anche in relazione alla forma dialettale lélo, cioè scemo o scimunito, anche se il nome ufficiale della statua era poi il più serioso “Era fascista” (era come sostantivo, non verbo all’imperfetto, anche se la statua fascista certamente lo era).

 

La statua di incerta onomastica venne rimossa nel 1945, anticipando di molto il New Yorker, e nel 2013 una giunta di centrodestra ne propose il ripristino; ma poi la cittadinanza insorse, e dopo quattro anni non si è ancora trovata una decisione, e nella provvisorietà antifascista italiana, al posto del bigio è stata intanto realizzata una piscinetta. Un dito d’acqua che riflette quei marmi. Nella provvisorietà acquatica, al posto del Bigio anche una girandola di artisti contemporanei e antifascisti, tra cui Mimmo Paladino. Ma adesso, mentre la Lombardia si interroga sulla secessione, forse si arriverà al referendum anche sul Bigio: serpeggia infatti in città la voglia e la tentazione di una grande consultazione popolare per decidere che fare del marmoreo toy boy che giace nella sua cassa da 70 anni. Intanto, nel dubbio, a Brescia rimane la piscinetta. Come poi in molte piazze italiane, come di fronte al pre-fascista palazzo ducale di Modena, anche lì è sorta una piscinetta a sfioramento, un dito d’acqua con luminarie notturne in cui è bello d’estate intingere i piedi. Quando sarà completato l’abbattimento dei vergognosi monumenti, gli archeologi del futuro si chiederanno quand’è stato che l’Italia è stata disseminata da piscinette a sfioro. Ma intanto, in attesa delle demolizioni, si potrebbe magari togliere il Bigio dalla sua cassa e, visto che è cresciuto, portarlo a Roma tra i suoi colleghi più adulti del Foro Italico, che lo aspettano per fare ginnastica (dove c’è Balilla c’è casa).

Di più su questi argomenti: