Gli sputtanatori
Come infangare l’avversario e renderlo impresentabile. L’avviso di garanzia non basta più, il gioco sporco si è concentrato sulle intercettazioni. Perché il fanatismo va a braccetto con i mascariamenti
Domanda che ci domandiamo: chi è il candidato impresentabile, quello che Rosy Bindi puntualmente cerca e non trova all’estrema vigilia di ogni campagna elettorale in Sicilia o in Calabria, a Napoli come a Milano? Chi è l’uomo politico che, pur non avendo né una condanna né due manette ai polsi, dovrà essere comunque bollato col marchio dell’infamia e prevedibilmente estromesso dalla nobile gara? I due interrogativi hanno tormentato per qualche giorno gli austeri membri della commissione parlamentare Antimafia, riuniti nel tempio legalitario di San Macuto, e con ogni probabilità hanno sfiorato pure la Bindi che di quella commissione è la presidente. Ma i dubbi non sono serviti a nulla. Perché alla fin fine rinunciare al giochino della presentabilità sarebbe stato come pretendere di svuotare il mare con un secchiello: ormai non c’è lotta politica senza il mascariamento dell’avversario; non c’è competizione senza che un candidato metta mano all’armamentario più limaccioso pur di imbrattare l’immagine di tutti coloro che, nella volata finale, potrebbero soffiargli il prezioso seggio al consiglio comunale o all’assemblea regionale.
Un metodo che vede molto impegnati i grillini non solo a Roma e nei talk-show di Giovanni Floris ma anche e soprattutto in Sicilia
E’ la facile arte dello sputtanamento, signori. Un metodo nel quale si esercitano un po’ tutti i partiti ma che in quest’ultima fase vede particolarmente impegnati i grillini non solo a Roma e nei talk-show di Giovanni Floris ma anche e soprattutto in Sicilia dove il prossimo 5 novembre si voterà per eleggere il governatore che andrà a sostituire il catastrofico Rosario Crocetta e i settanta parlamentari che, con lui, troveranno alloggio e prestigio sotto le volte dorate di Palazzo dei Normanni.
Per avere l’idea di quale furia spinga i grillini alla criminalizzazione dei rivali basti pensare che Giancarlo Cancelleri, candidato dei Cinque stelle alla presidenza della Regione, passa gran parte delle giornate a stilare elenchi di candidati impresentabili ma presenti, ohibò, nelle liste di centrosinistra e di centrodestra. E’ stato talmente preso da questa ossessione per la legalità che, a forza di sparare accuse a destra e a manca, ha messo alla gogna come mafiosi due ex deputati che certamente non saranno santi da elevare agli altari ma che con il mondo malsano e violento delle cosche non hanno avuto mai nulla a che fare. Cancelleri aveva semplicemente sbagliato bersaglio. Ma si è guardato bene dal recitare un piccolo atto di dolore: con il crisma del fanatico, ma anche impaurito dall’inesorabile querela, si è limitato a dire che era involontariamente incappato in un “refuso”, in un piccolo e insignificante errore di battitura.
Del resto come avrebbe potuto mai rinunciare alla linea della fanghiglia? Il suo leader, Gigino Di Maio, vicepresidente della Camera e ora pure candidato premier, dopo avere sciorinato in tv una scempiaggine da premio Nobel – l’abolizione per legge di un istituto costituzionale di salvaguardia come la prescrizione – era sceso in Sicilia e aveva sostenuto senza neppure una puntina di imbarazzo che i misteriosi e loschi poteri romani stavano per liberare non si sa quanti boss della mafia per dare loro la possibilità di entrare in campagna elettorale e portare al trionfo i malvissuti della vecchia politica. Parole gratuite, va da sé. Ma ai grillini la distanza che corre tra una verità e una scemenza non importa poi più di tanto. L’interessante è alimentare il circo delle allusioni e delle illazioni, ma soprattutto quell’odore di fritto che il finissimo fiuto del giustizialismo nostrano è in grado di cogliere anche quando non c’è il fumo e nemmeno l’arrosto.
Le soffiate offerte dai magistrati perché le gogne si celebrassero sui giornali. Il linguaggio del dire e del non dire di certi pentiti di mafia
Sarebbe sbagliato tuttavia assegnare ai seguaci di Grillo tutti i meriti di questa maleodorante cultura del sospetto. I padri nobili, chiamiamoli così, non mancano. C’è stata la stagione di Mani pulite, con le forche che volavano in Parlamento e le monetine che il cosiddetto popolo degli indignati lanciava su Bettino Craxi, braccato come un cane immondo dal purissimo Antonio Di Pietro, il contadino eroe della giustizia sostanziale; ci sono stati i magistrati che hanno offerto tutte le indiscrezioni e le soffiate necessarie perché le gogne si celebrassero puntualmente sui giornali; ci sono stati i pentiti di mafia, i più avventati, che hanno affinato il particolarissimo linguaggio del dire e del non dire, in base al quale procure e collegi giudicanti davano loro la facoltà di imbrattare l’onorabilità di chiunque senza mai pagare pegno: un poliziotto verso il quale si covava un rancore era “avvicinabile”, parola che voleva dire tutto e niente, mentre il giudice per il quale si coltivava magari da anni un proposito di vendetta era quasi sempre ’nte manu di qualcuno, altra metafora che per avere validità probatoria avrebbe quantomeno richiesto la narrazione di un fatto o di una circostanza. Oggi il monopolio dello sputtanamento non appartiene obiettivamente a nessuno, i diritti d’autore sono scaduti e l’esercizio della criminalizzazione è diventato addirittura una componente essenziale della lotta politica.
Certo, molto si deve anche al fatto che, da tangentopoli in poi, è maturata una diversa sensibilità verso la questione morale. Questo tuttavia non può cancellare il diritto di ogni cittadino alla presunzione di innocenza. E se è vero che c’è ancora tanta corruzione da fronteggiare e tanta mafia da debellare è altrettanto vero che nessuno, nemmeno il giudice Piercamillo Davigo, che fu pure lui attore e protagonista di Mani pulite, potrà mai arrogarsi il diritto di impalare il proprio avversario in piazza, senza prove e senza un processo. Si dirà a questo punto: ma c’è il diritto di cronaca, se il magistrato ha inviato un avviso di garanzia al sindaco, al deputato o al ministro come si fa a non dare la notizia dell’indagine che è stata appena aperta?
Giusta e sacrosanta osservazione, per carità. Solo che la cronaca giudiziaria in questi ultimi anni si è parecchio deteriorata e in molti casi si è fatta essa stessa strumento di mascariamento, di violazione costante del diritto alla riservatezza che la Carta costituzionale garantisce, fino a prova contraria, a chi non sia ufficialmente colpito né da un avviso di garanzia né da alcun altro provvedimento giudiziario.
I fanatici della Trattativa sempre nei sottoscala delle questure e delle procure alla ricerca di una cartuzza che possa aiutarli a colpire
Invece, con la facilissima arte, anche un po’ mafiosetta, del dire e del non dire si è imposto all’opinione pubblica un codice maledetto in base al quale sembra essere diventato lecito e ordinario ciò che lecito non è: lo sputtanamento appunto. E per rendersene conto basta elencare i trucchi elaborati in quest’ultimo quarto di secolo da quei giornali e da quegli esponenti politici che hanno intravisto nella criminalizzazione dell’avversario l’unica strada per assicurare un successo ai propri disegni e alle proprie ambizioni. Un danno non da poco: e non solo per le persone finite senza motivo nel tritacarne, vittime spesso di un effetto collaterale della malagiustizia; ma anche per le relazioni politiche, irreparabilmente inquinate dal dileggio che gli irriducibili del mascariamento hanno riversato a piene mani nel dibattito e nella convivenza civile. Veleni che negli anni a venire sarà difficile assorbire o più semplicemente diradare; tossine così verminose da non giustificare più nessuna tolleranza.
Obiezione: ma a chi può far male la grossolanità politica di un Cancelleri che arriva a impapocchiarsi anche quando si veste da moralizzatore e che quando viene sorpreso con le mani nella marmellata si rifugia dietro l’imprevedibilità di un refuso? A chi può far male la boutade di Gigino Di Maio che, con la solennità del doppiopetto, se ne va in giro a far credere che i brutti e cattivi dei partiti al potere hanno liberato i boss del carcere duro per impiegarli nella campagna elettorale? Voltaire sosteneva che per uno scrittore o per un cittadino per bene la più grande sventura è quella di essere giudicato dagli imbecilli; ma gli imbecilli – annotava – a volte arrivano lontano, “surtout quand le fanatisme se joint à l’ineptie”.
Basterà mettere un’incipriatura sullo schizzo di fango, scrivere che il nome del malcapitato “risulta dalle carte”. E il gioco è fatto
Uomo avvisato mezzo salvato, verrebbe da dire: col fanatismo che dilaga nel mondo, quale paese può consentirsi il lusso di un supplemento di violenza intellettuale come quella ammannita dai tribuni della repubblica giudiziaria? I fanatici utilizzano il mascariamento come un’arma impropria per abbattere moralmente i propri avversari, per annientare chiunque si azzardi a contrastare le loro certezze e le loro inquisizioni. Per avere una conferma basta vedere come si muovono, per esempio, gli affiliati alla Confraternita della Trattativa per i quali non c’è processo se non quello che vede alla sbarra i boss della mafia e gli uomini dello Stato che negli anni delle stragi combatterono contro la mafia; e non c’è altro magistrato che possa darci giustizia e verità se non Antonino Di Matteo, il pubblico ministero che Beppe Grillo ha già designato come ministro dell’Interno in un futuro governo a conduzione pentastellata.
Il fanatismo della Confraternita, come tutti i fanatismi, non conosce ragione. E basta dare uno sguardo al sito che l’allegra compagnia ha messo su in questi anni di furore giustizialista per rendersi conto di quali livelli di ubriacatura abbia ormai raggiunto l’industria dello sputtanamento. I fanatici della Confraternita, come i guardiani della rivoluzione, stanno sempre lì a grufolare nei sottoscala delle questure e dei palazzi di giustizia alla ricerca di una cartuzza o di una intercettazione telefonica che possa aiutarli a colpire, con una placida infamia o con un predicato molesto, chiunque – dall’ex presidente Giorgio Napolitano all’ultimo giornalista della contrada – si azzardi a mettere in discussione quella boiata pazzesca della Trattativa o l’ardore processuale con cui Di Matteo tenta di scoprire ogni trama oscura e ogni mandante occulto. Il fanatismo purtroppo non può fare a meno dei mascariamenti e il riscontro sta nel fatto che i santoni della Confraternita, quelli con le stimmate della verginità antimafiosa, non si accontentano più dei pizzini trovati nei letamai delle storie giudiziarie. Sono andati oltre. E come primo atto hanno reclutato direttamente come collaboratori alcuni pentiti in disarmo, da Francesco Di Carlo a Gaspare Mutolo, che non avendo più nulla da raccontare nelle aule di giustizia si guadagnano la pagnotta sputtanando sul giornaletto della Confraternita quei servitori dello Stato, come il giudice Giuseppe Ayala o il generale dei carabinieri Antonio Subranni, la cui unica colpa è quella di non avere mai piegato la testa davanti al mistero glorioso della Trattativa. Nessuno avrebbe potuto immaginare, nemmeno ai tempi del più cupo fanatismo moralisteggiante, che saremmo arrivati al punto di sostituire i princìpi sacramentali dello Stato di diritto con i codici dello sputtanamento. Ma è successo e oggi siamo certamente oltre la beffa. Basta pensare che i professionisti del linciaggio sostengono di essere mossi esclusivamente da una irrefrenabile voglia di verità e trasparenza. Invece i trucchi adoperati per inchiodare i propri avversari alla croce del sospetto sono quasi sempre basati su un equivoco o, peggio, su una impostura.
Fino a tangentopoli l’arma letale per ammazzare moralmente un uomo politico o un amministratore o un super burocrate era l’avviso di garanzia, atto con il quale il magistrato ti comunica che sei sotto inchiesta e che dovrai presentarti all’interrogatorio accompagnato dal tuo avvocato. Ma oggi l’avviso di garanzia nella gradazione di colori che può assumere lo sputtanamento è forse diventato il più pallido, il più mite, il più debole. Perché lo sputtanato immediatamente risponde: era un atto dovuto, ho fiducia nella magistratura. E la festa dura un giorno o poco più. Invece è nelle intercettazioni telefoniche che comincia il vero divertimento. Intanto perché in cinquemila pagine di trascrizioni, o giù di lì, il bersaglio non è solo l’inquisito, chiamiamolo così. Ma c’è la moglie e forse anche l’amante, ci sono i figli e forse anche il padre, c’è l’imprenditore e forse pure il grand commis, c’è l’alto ufficiale e forse anche un monsignore, ci sono i milioni e forse pure i miliardi, ci sono i gioielli e anche l’alcova, c’è l’amico gay e anche i massaggi al Sahara club, c’è la escort appena arrivata dalla Puglia e ci sono le olgettine delle cene eleganti. Il cronista sputtanatore o il grillino alla Cancelleri avranno di che scialacquare. Possono tirare fuori qualsiasi nome, qualsiasi dettaglio, qualsiasi prurigine, qualsiasi mutanda. Anche quella delle persone che con l’inchiesta non c’entrano nulla. Basterà mettere davanti allo schizzo di fango l’incipriatura di rito; basta scrivere che il nome del malcapitato “risulta dalle carte”. E il gioco è fatto. Vai col machete.
Il Foglio sportivo - in corpore sano