Furia Dzeko
L’attaccante che ha zittito Stamford Bridge è riuscito in un’impresa rara: superare le aspettative già alte dei tifosi romanisti
Succede spesso che ci sia una partita in cui qualcosa di chiaro già da tempo, a volte anche da molto, diventi rivelatrice di una verità giudicata nuova pur non essendolo per niente. Con Edin Dzeko è successo mercoledì scorso, al Stamford Bridge di Londra, nella partita di Champions League Chelsea-Roma. Due gol, ma soprattutto uno, di sinistro al volo, hanno portato il centravanti della Roma allo status di campione. Ciò che era, ovviamente. Ciò che è. Perché stiamo parlando di uno dei calciatori più rilevanti del panorama europeo degli ultimi dieci anni. Non è un giudizio e basta. E’ un fatto, o una serie di fatti: 85 gol in 142 partite nel Wolsburg, 72 gol in 189 partite nel Manchester City, 59 gol in 100 partite nella Roma. Che poi è la media più alta: più di un gol ogni due partite. Il che basterebbe a spiegare la definizione precedente. Eppure è stata quella partita e quel gol che hanno fatto da lasciapassare. Questo si spiega non solo con la perversa comunicazione dello sport e soprattutto del calcio. E’ anche il segno di un atteggiamento oscillante, spesso poco lucido, che abbiamo noi, specie noi italiani con i giocatori. Perché con Dzeko è successo tanto, quasi troppo. L’arrivo a Roma era stato accolto da un’ondata di trionfalismo, con quella consueta dose di paragone che faceva dire frasi così: “Finalmente un centravanti vero, che non si vedeva dai tempi di Batistuta”. Cioè dallo scudetto del 2001. Quindi? Ecco, quindi. Cioè tutto quello che è successo nella sua storia recente, ovvero quella romanista, di essere un’aspettativa per qualcosa che da solo, e neanche in compagnia, avrebbe potuto garantire. Perché sì, in giallorosso era arrivato un attaccante compiuto, conscio delle proprie qualità e assolutamente felice e appagato dai trofei vinti e dai 209 gol messi a segno in carriera tra club e Nazionale, fino a quel momento. Ma non un salvatore, né un Messia, né uno al quale potevi dire: portami lo scudetto, fratello.
Due gol al Chelsea, ma soprattutto uno, di sinistro al volo, hanno portato il centravanti della Roma allo status di campione
E’ stato tutto là, in quelle aspettative esagerate e poi tradite, che s’è creato il vuoto riempito poi mano mano e diventato pieno adesso, con un ritardo clamoroso anche rispetto alla realtà. Perché oggi Mario Sconcerti scrive cose così: “Credo che Icardi e Dzeko aprano e chiudano lo spettro del gol, la sua gamma di colori. Sono molto diversi ma hanno caratteristiche finali che li avvicinano. Dzeko è un puro colpitore, calcia di collo pieno, è monumentale e classico, quando corre, quando tira, quando salta, sembra sempre in posa. E’ il suo modo per concentrare la forza. Non ha dribbling, anche se è un giocatore tecnico, semplicemente gli interessa poco. Ha potenza e geometria. Abbiamo parlato spesso di geometria per gli attaccanti. Non intendo il teorema di Pitagora, intendo l’uso dello spazio, sapere trovare a occhi chiusi la traiettoria meno banale, la più angolata. Dzeko ha questa dote. E ha un formidabile senso dell’equilibrio in corsa, nel momento del tiro. Difficilmente calcia alto: o a terra o a mezza altezza, le cose più complicate per un portiere. E’ della nuova stirpe di attaccanti, quella cominciata da Ibrahimovic e dagli africani, attaccanti cioè di grande forza e tecnica, arrivati tra la fine del secolo scorso e gli anni Duemila. Dzeko è un seriale del gol, è come sapesse molto lingue. Icardi è più personale, è improvviso, è un pupazzo che salta fuori dalla scatola e spaventa i bambini. Dzeko è più universale, Icardi è un ragazzo prodigio, anche questo va messo nel conto. Uno ha 31 anni, l’altro 24, è ancora in formazione. Ed è sempre andato migliorando. I gol di Icardi assomigliano a quelli di Dzeko quasi soltanto sui calci d’angolo, sui cross radenti, quando si anticipa di testa l’avversario. In tutto il resto Icardi è un inventore di gol. L’esempio migliore è la seconda rete segnata al Milan colpendo solo un angolo del pallone mentre era a mezza altezza dentro un movimento incongruo. Opinione personale: a me piace più Dzeko ma non significa niente. Poche volte non partecipa al gioco, Icardi è l’opposto. Per questo segna spesso tre gol e poi per qualche giornata si acquieta. Ma Dzeko ha una squadra che gioca per lui, Icardi gioca in un’Inter complessa proprio nella sua zona del campo. Anche questo lo aiuta a cercare l’idea impropria”.
Con l'arrivo di Spalletti, la soluzione del caso Dzeko è stata la contestuale creazione del caso Totti. Un dualismo mai esistito realmente
Eusebio Di Francesco l’ha portato al centro di un’idea, ma in realtà vorrebbe che lavorasse di più. Corre, ma il mister sogna che lo faccia con più costanza. Manovra, ma il mister desidera che lo faccia con ogni palla. Segna, ma il mister pensa che se facesse sia la prima sia la seconda cosa, la terza non sarebbe così importante. Ovviamente è solo ricerca della perfezione, perché Di Francesco è felice, orgoglioso, carico. Sa di avere tra le mani e in squadra quello che Paolo Condò ha felicemente definito un “centravanti che gioca anche da regista avanzato”.
Non è stato sempre così, però. E forse qui sta il motivo per cui oggi e solo oggi, il riconoscimento dello status di campione arriva in maniera chiara. Se si torna indietro nel tempo, all’inizio della sua esperienza a Roma, tornano in mente molte cose: nella prima uscita all’Olimpico, in un’amichevole di presentazione con il Siviglia, Edin segnò dopo tre minuti, poi ne fece un altro e successivamente fece anche un assist. La Roma stravinse e Dzeko fu subito esaltato. Seconda uscita all’Olimpico: Roma-Juventus di campionato. Segna di testa, a Buffon. Un gol diverso da tutti quelli che Roma era abituata a vedere da molto tempo. Una palla morta o quasi, lenta che arriva dall’alto, lui stacca con un avversario, la frusta di testa e la mette nell’angolo basso alla destra di Buffon. E’ il delirio, o quasi. Perché Edin diventa allora l’aspettativa. Tutti con lui, tutti per lui. Invece quel gol risulterà essere l’ultimo acuto su azione in Serie A del bosniaco. Per i tifosi giallorossi, rivedere quelle immagini oggi, probabilmente fa scendere amare lacrime. Nei successivi cinque mesi, come ha scritto Marco Juric, la Roma di Garcia non riesce più a giocare per lui, i gol non arrivano con la solita regolarità e più passa il tempo più le prestazioni in campo del bosniaco risultano modeste, a volte anche irritanti. Le altre ventiquattro presenze fanno registrare un gol contro il Bayer Leverkusen, due rigori contro Lazio e Bologna e il gol della bandiera al Camp Nou.
Con Di Francesco in panchina Edin ha cominciato a lavorare per cercare la perfezione. Adesso è a dieci gol in dieci partite
Le uniche due azioni per i gol sono tanto semplici quanto utili per un bomber come lui. A Barcellona è un cross morbido dalla trequarti di Digne, stacco di testa e gol. Contro il Leverkusen invece bastano tre passaggi in verticale: De Rossi, Nainggolan, Dzeko, gol. Punto. Senza fronzoli, senza passare obbligatoriamente per le ali, senza cercare insistentemente l’uno contro uno appiattendo il fronte offensivo e lasciando organizzare la difesa avversaria. Sicuramente nei gol “europei” c’è stato un grande aiuto dall’avversario, ma se l’idea di Garcia era quella di evitare a prescindere un certo tipo di calcio semplice e scolastico, perché di facile lettura o scontato, privilegiando esclusivamente il genio e lo shock generato dalle ali offensive, si è fatto il male di un giocatore come Dzeko. Esagerando, ma non troppo, i due gol in Champions risulteranno essere l’ultimo passaggio in verticale e l’ultimo cross forniti a Edin dalla Roma di Garcia e non a caso quello del Camp Nou è anche l’ultimo suo gol del 2015, datato 24 novembre. Quasi tre mesi senza segnare, dopo l’altro digiuno di due mesi tra Juventus e Leverkusen, sono un’enormità per un attaccante come lui. Ma la cancrena tattica nella quale era entrata la Roma del francese ha portato il numero 9 in una spirale psicologica così negativa da mettere in dubbio tutte le sue certezze. Una specie di continua e ossessiva ricerca di sé, un’autoanalisi fatta a botte di fischi, a volte anche pesanti, di richieste insistenti di sostituzioni con Francesco Totti. L’involuzione a un certo punto è sembrata totale: Dzeko ha iniziato a sbagliare gol facili, a volte facilissimi. Verbalizzando il suo stato d’animo, in quel periodo, rilascia questa dichiarazione: “Se non segno è solo colpa mia. Ma se un giocatore è forte, lo è sempre”.
Prima un’accusa rivolta a se stesso, quasi a spronare quel subconscio di sicurezze ormai perdute. Poi, seguendo il ragionamento di Juric, un appello alle stesse, quasi dovessero lanciargli un salvagente al quale aggrapparsi, per non affogare in questo turbinio di infelicità e insicurezza. Tempo dopo, a situazione metabolizzata, è tornato sull’argomento in un’intervista al Messaggero: “In Inghilterra c’era meno pressione, se non giochi bene è normale che ti critichino. Ma le critiche fanno parte del gioco, le accetto. Roma è simile alla Bosnia: non ti criticano, ti insultano. Quindi sono abituato. Se lo fanno a casa mia… Fai bene tre volte, ma se alla quarta sbagli, ecco che ricominciano con gli insulti. E’ come se si aspettasse l’occasione giusta per colpirti”.
Per un periodo sbaglia gol facilissimi, però dice: "Se non segno è solo colpa mia. Ma se un giocatore è forte, lo è sempre”
Come spesso accade anche nell’analisi vera, poi è un fattore esterno a dare il contributo determinante. Nel suo caso, il contributo esterno, è stato l’arrivo di Spalletti. Senza volerlo e senza che ciò possa essere minimamente imputabile a lui, la soluzione del caso Dzeko è stata la contestuale creazione del caso Totti. Un dualismo mai esistito realmente, ma che all’apparenza sembrava a volte totale: il mister impegnato nel recupero del bosniaco, il pubblico che voleva Francesco in campo. Spalletti dice al mondo una frase che poi risulterà fondamentale nel processo evolutivo di Dzeko: “il problema Dzeko non esiste. C’è una cosa sola, lo serviamo male. Lo dobbiamo sostenere di più e servire meglio. Dobbiamo trovare la strada per farlo sentire dentro il nostro gioco”. Il risultato è una stagione, quella scorsa, da 39 gol, il 300 per cento in più di quella precedente. Molti l’hanno definita rinascita, forse più semplicemente è stata la conservazione tecnico-tattica. Perché Dzeko è tornato quello che era in Germania e in Inghilterra. Wolfsburg, in tre stagioni e mezzo segna 69 gol in poco più di 100 partite, vince la Bundesliga nel 2009, viene eletto miglior giocatore del campionato ed entra nell’elenco dei 30 possibili vincitori del Pallone d’Oro. Un’ascesa fatta di una consapevolezza che aumentava di settimana in settimana e di una innovativa visione del ruolo di centravanti: è stato nella Bundesliga che il bosniaco si è trasformato non solo in una punta fisicamente prestante e dominante, ma anche in un attaccante bravo a sfruttare gli spazi in verticale e capace di dialogare con i propri compagni di reparto. La tecnica, poi. Quella che spesso non gli viene riconosciuta e che invece c’è. C’è sempre stata. Edin tocca il pallone, lo accarezza, lo sposta con la pianta, lo ferma col petto. C’è una foto pubblicata subito dopo la storica qualificazione della Bosnia agli Europei, di un ragazzino che gioca a calcio tra le case distrutte di Sarajevo durante i bombardamenti serbi. Sembra un talentuoso, uno col il tocco, uno con il movimento, con il dribbling. E’ Edin Dzeko. Se hai la tecnica da ragazzino ce l’hai sempre. Lui ce l’ha. E dopo Wolsfsburg s’è visto a Manchester, sponda City: spesso non era neanche titolare poi però entrava e segnava. Come disse nell’ultimo anno di Mancini: “E’ frustrante guardare dalla panchina, soprattutto quando si segna. Se hai solo pochi minuti a disposizione non puoi essere triste o arrabbiato con l’allenatore. Devi solo giocare e fare del tuo meglio. Questo pensiero è fisso nella mia mente”. Cioè: tiro-gol. Dice che spesso era merito di David Silva: “Il giocatore con più tecnica di quelli con cui abbia mai giocato”.
Dzeko è quel tipo di giocatore che avrebbe probabilmente voluto essere diverso da come è diventato. Un po’ perché quando era ragazzino aveva spesso giocato da centrocampista, un po’ perché l’istinto era appunto quello della foto durante la guerra: giocare con il pallone, fare il talento puro, fare l’istintivo. Il fisico ha prodotto ciò che è e ciò che gli ha consentito di essere così forte. Però dice ancora e sempre dirà cose così: “E’ vero. Non sono un attaccante che resta in area di rigore ad aspettare. Mi piace partire da dietro, giocare con e per la squadra. Fare gli assist. Quando ero piccolo facevo l’ala destra, il mio idolo era Shevchenko. Sono impazzito per lui quando segnò la tripletta contro il Barça al Camp Nou”. E’ la cosa più romantica che possa sentire Eusebio Di Francesco che questo vuole e questo chiede. Con una punta di amarezza ogni tanto. Dopo il partitone contro il Chelsea, ha detto: “Se Edin giocasse un po’ più vicino alla porta con continuità ne farebbe ancora di più”. E’ la ricerca della perfezione, perché più di così è difficile: siamo a 7 gol in 7 partite di campionato, tre su tre in Champions. Una media che è addirittura più bella di quelle di chi segna ancora più gol. Spalletti l’ha rimesso al mondo, Di Francesco lo sta trasformando in un giocatore più completo di quanto lui stesso credesse di essere. E’ vero, adesso si può dire, senza creare aspettative esagerate: la Roma non aveva un centravanti così dai tempi di Batistuta. Viene da dire che non c’entra con Batigol, per certi versi è addirittura più funzionale. La conseguenza non è ciò che tutti possono immaginare, ma è ciò che nessuno può negare di sognare. E’ una cosa diversa, molto diversa. Non necessariamente peggiore.
Il Foglio sportivo - in corpore sano