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Spezzeremo le reni alla Cina

Stefano Cingolani

Dopo la crisi, il gran momento dell’export italiano. Che in alcuni settori può dare fastidio anche ai giganti

Ricordate l’inarrestabile declino, la de-industrializzazione, la fine del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto, per non parlare della proletarizzazione della classe media di leninista memoria? L’Italia della grande crisi ci è stata raccontata così dai pifferai dello sfascio, ma se le penne vagabonde si fossero fermate a guardare i fatti avrebbero visto una realtà molto diversa. Tra gennaio e agosto le esportazioni italiane sono cresciute del 7,6 per cento, quelle tedesche del 6,5 e le francesi del 3,8 appena. La fiammata non è un fuoco fatuo, infatti la rincorsa dell’export è cominciata sei anni fa e adesso sta dando i suoi frutti. Davanti alla Germania, in vantaggio sulla Francia, meglio in valore e qualità rispetto alla Spagna, in barba alla Cina. La Banca d’Italia ha studiato l’andamento dell’export dal 1999 al 2016 in una ricerca che incrocia i dati e le indagini sul campo, pubblicata solo in inglese, intitolata “Back on Track?” e presentata a un seminario della Confindustria il 12 ottobre scorso. A leggere i risultati, il punto interrogativo appare pleonastico: la manifattura italiana si è davvero rimessa in carreggiata (back on track, appunto), anzi è passata dal binario morto all’alta velocità.

 

La rincorsa è stata durissima. Tra le due recessioni molto acute, nel 2009 e nel 2011, è avvenuta una selezione che forse non ha eguali dopo il miracolo economico degli anni 50-60. Partendo dal 1999, la percentuale dell’Italia sul mercato mondiale è scesa dal 4,4 al 3; poi è tornata a crescere. La Francia ha fatto peggio e anche la Spagna, oggi super-lodata, è passata dal 2,2 all’1,9 per cento. Solo la Germania è rimasta stabilmente sopra quota 9. “Dal 2010 – scrive lo studio – l’export italiano è aumentato ogni anno mezzo punto più del tasso di crescita della domanda estera e la differenza con la Germania si è ristretta in modo significativo”. La distanza è ancora molta, ma la svolta è evidente sia in quantità sia in qualità. Gli industriali hanno ripreso le loro valigette piene di campionari e sono andati in giro per il mondo, fuori dall’area euro, in Cina, in tutta l’Asia e in particolare negli Stati Uniti.

 

Le esportazioni cresciute del 7,6 per cento: davanti alla Germania, in vantaggio sulla Francia, meglio in valore e qualità rispetto alla Spagna

Tra i campioni che si sono fatti sempre più internazionali ci sono i grandi nomi (Ferrero, Illy, Barilla, Luxottica, Ducati, Piaggio, Technogym, i re della moda, tanto per fare alcuni esempi), ma molti altri sono semisconosciuti al pubblico. Come la Angelantoni nei pannelli solari, la Geico ex Neri e Mandelli, che produce impianti per la verniciatura (l’italo-iraniano Ali Reza Arabnia, genero del fondatore, l’ha rilevata dalla Fiat nel 2005 e l’ha rilanciata), la Dual Sanitaly (nota è la cintura Gibaud), la Brevini meccanica, la conceria Dani, la Icont di Pontinia che fa vaschette in alluminio per la cucina, la Wineemotion (cantinette per il vino) o la Afinna One nata nel 2010, che smista telefonate tra i maggiori operatori mondiali. Alcuni esempi molto diversi, il loro comune denominatore è che vendono all’estero la stragrande maggioranza dei loro beni e servizi. Esistevano già imprese tricolore collocate su quella che una ricerca dell’Ocse chiama la “frontiera globale”, ma erano piccole, erano nane di frontiera. Adesso stanno crescendo; seppur lontane dalle grandi multinazionali, hanno raggiunto una taglia media, flessibile e spesso più efficace, un po’ come gli agili mini-attaccanti nel calcio, i Messi, i Mertens, gli Insigne, che sfuggono ai giganti delle difese. Tutti i paesi occidentali hanno subito lo choc cinese e l’Italia più degli altri, ma la partita è stata riaperta, e oggi è una partita a scacchi non più un incontro di lotta libera.

 

Icone della crisi negli Stati Uniti sono gli scatoloni della Lehman Brothers, in Italia i capannoni sbarrati. E i padroncini senza paracadute, tanto disperati da togliersi la vita. Eppure, mentre le onde radio trasportavano lamenti e le pagine dei giornali colavano lacrime anziché piombo, le cose stavano cambiando senza che il circo mediatico-politico se ne accorgesse, a cominciare dal 2010. Matteo Bugamelli e Silvia Fabiani dell’ufficio studi della Banca d’Italia, i principali curatori della ricerca, spiegano che si tratta di una data che fa da riferimento statistico. Così come l’anno di partenza della loro analisi che coincide con l’arrivo dell’euro: proprio nel 1999 quando la moneta unica debutta sui mercati finanziari, anche se circolerà liberamente solo dal primo gennaio 2002. Il decennio 90 appare troppo turbolento per offrire una base analitica coerente, tra crisi della lira nel 1992 e due successive svalutazioni, una inflazione interna ancora molto elevata rispetto alla media europea e internazionale, una politica economica ballerina. Con la moneta unica, invece, esiste una base omogenea.

 

Migliora la qualità, le aziende crescono in dimensione e si rafforzano. Il problema dei manager, il familismo nella gestione

I diciassette anni studiati dalla Banca d’Italia si dividono in tre periodi: il primo arriva al 2006 il secondo coincide con la grande crisi che ha ridotto il commercio internazionale, il terzo va dalla ripresina del 2010 allo scorso anno. Ebbene, la fase peggiore è stata la prima con un crollo del 30 per cento nelle quote di mercato. La recessione ha gettato benzina su un fuoco distruttore cominciato molto prima. Per colpa di che cosa? Dell’euro? Allora sono fondati i lamenti del nord est, hanno ragione i leghisti che considerano la moneta unica come l’angelo sterminatore? Non c’è dubbio che per molto tempo le aziende italiane si sono trovate a vendere i loro prodotti con una moneta più forte della lira. Non solo, per alcuni anni l’euro era sopravvalutato rispetto a tutte le altre monete, si pensi che era arrivato a un cambio di 1,50 con il dollaro, del tutto irrealistico. La moneta ha agito come un bastone che ha randellato gli imprenditori più fragili costringendoli a cambiare o chiudere. In Germania è successo esattamente l’opposto, perché l’euro era più debole del marco e questo ha favorito i prodotti tedeschi. E l’efficienza interna è stata tenuta su sia aumentando gli investimenti in macchinari sia riducendo il costo del lavoro che in Italia, invece, è cresciuto per colpa non delle buste paga, ma di tasse e contributi.

 

Cambio e costi non sono gli unici responsabili. Perché a penalizzare le aziende italiane è ancor oggi la loro taglia. Buona parte delle esportazioni provengono da piccole o persino micro imprese che producono beni a basso valore aggiunto, fortemente sensibili al prezzo. A lungo hanno vissuto in un bozzolo protetto non tanto da dazi e tariffe, ma dalla debolezza della lira. E’ vero, c’era l’inflazione interna, ma potevano vendere all’estero sotto costo. Ciò spingeva a restare piccoli, era una sorta di nanismo programmato, un mondo di gnomi simile al villaggio degli hobbit. L’euro è stato il primo terremoto. Il secondo e ben più grande è arrivato dalla Cina. Con l’ingresso nel Wto (l’organizzazione mondiale del commercio) nel fatidico 2001, quando comincia anche la guerra asimmetrica del fondamentalismo islamico contro l’occidente, cambiano i termini di scambio, anzi le regole del gioco. Allora ha ragione Giulio Tremonti che vede in questa illusione mercatista il seme di tutti i guai che ancora ci affliggono? Per la piccola imprenditoria italiana che vive esportando scarpe, magliette, camice, panni di lana (si pensi a Prato) è stata la fine del mondo, del suo mondo. L’onda d’urto ha scosso anche i grandi gruppi, i pochi rimasti nel capitalismo italiano. Ha messo alla frusta l’industria pesante, la siderurgia, la chimica, la plastica, i cantieri navali. I nomi si trovano nelle cronache di tutti i giorni, basti pensare all’Ilva. Sono stati scompaginati distretti industriali che sembravano inattaccabili come l’oreficeria dove l’Italia ha una eccellenza assoluta grazie alla tradizione e ai suoi macchinari esclusivi. Arezzo e Vicenza hanno vacillato e i crac della Banca dell’Etruria e della Popolare vicentina, al di là della mala gestio, hanno qui la loro causa strutturale. Dunque, guai a sottovalutare lo choc cinese, anche chi lo ritiene inevitabile e alla lunga positivo, deve ammettere che, concentrato in un tempo tutto sommato molto breve, l’urto è stato distruttivo. Eppure, lo abbiamo superato. E’ questa la vera novità sottolineata da Bankitalia. Che cosa è cambiato?

 

Tra i campioni che si sono fatti sempre più internazionali ci sono i grandi nomi, ma molti altri sono semisconosciuti al pubblico

Seguendo lo schema dei tre fattori principali suggerito dal lavoro di Bugamelli e Fabiani, cominciamo dalla moneta. L’euro si è deprezzato grazie alla politica di Mario Draghi. Ma oggi il cambio conta molto meno. E lo dimostra persino l’Inghilterra: la svalutazione della sterlina spinta anche dalla Brexit non ha affatto favorito l’export britannico che continua a scendere in picchiata, basta guardare i dati dell’Ocse, per ragioni che hanno a che fare con la natura dell’industria e della intera economia. Veniamo così alla seconda causa: la struttura delle imprese. La maggiore integrazione internazionale fa sì che aumenti l’export e nello stesso tempo anche l’import, vendiamo prodotti per fabbricare i quali importiamo non solo materie prime, ma semilavorati. Apple ha fissato il paradigma, tutti gli altri seguono, chi più chi meno. Polo di Ralph Lauren fino a poco fa metteva in bella vista nelle sue giacche l’etichetta made in Italy. Oggi vengono prodotte in Romania, in Bulgaria, in Portogallo. Ma utilizzano molto spesso stoffe tessute in Italia considerate una eccellenza mondiale. I laboratori delle Marche o del Veneto anziché cucire abiti per conto terzi, ora sviluppano le proprie etichette. Nello stesso tempo, gli stilisti di grido ovunque nel mondo usano le lane di Vitale Barberis Canonino o di Zegna acquistate in Tasmania, i cachemire di Loro Piana che vengono dall’Himalaya o le sete pregiate prodotte nel comasco. E’ la catena del valore su scala globale, nella quale l’Italia rappresenta un anello fondamentale.

 

L’analisi della specializzazione produttiva e dei mercati di sbocco, condotta dalla Banca d’Italia, mostra il miglioramento della qualità, mentre le aziende crescono in dimensione e si rafforzano. E’ un processo favorito anche dal Jobs Act che non solo ha creato mezzo milione di posti di lavoro, come ha confermato Draghi, ma ha fatto saltare il tappo dei 15 dipendenti. Senza più la tagliola dell’articolo 18, molte industrie si stanno ampliando, lo si vede già nelle rilevazioni dell’Inps e delle Camere di commercio. Le imprese italiane sono meno, ma producono ed esportano di più sia nell’area euro sia al di fuori (questa è un’altra novità). E vendono prodotti migliori, si spostano in alto, occupano le nicchie di eccellenza dove l’Impero di Mezzo non arriva. Non ancora. Ci vorrà tempo, e non è detto che davvero la Cina possa raggiungere gli stessi livelli. La teoria dell’inseguimento, del cosiddetto catch-up, non va interpretata in modo meccanicistico. Ci sono cose che una impresa americana non saprà mai fare per incontrare il gusto europeo e viceversa. Né Yohji Yamamoto né il tedesco Hugo Boss sono riusciti a scalzare Armani. Un punto debole del modello tricolore è che gli italiani, rimasti ancora dei grandi artigiani, hanno difficoltà a costruire e gestire grandi strutture. Come mai? C’è un problema di management. Pochi, pochissimi rispetto ad altri paesi sono i manager nell’industria italiana. Rare sono anche le scuole, solo la Bocconi ha un livello internazionale. Niente rispetto alla Francia, per non parlare degli Stati Uniti. Questo dipende anche dall’ampia presenza del capitalismo familiare? Sì, ma non solo. Bugamelli ha elaborato una tabella illuminante. Le imprese possedute da famiglie sono l’85,6 per cento in Italia, poco meno che in Germania (89,8 per cento) e poco più che in Spagna (83 per cento) mentre Francia e lo stesso Regno Unito sono ancora all’80 per cento. Invece, le imprese gestite dalla famiglia sono appena una su dieci in Gran Bretagna, una su quattro in Francia e Germania, una su tre in Spagna, ben due su tre, cioè il 66 per cento in Italia. Il familismo dunque, è un vizio non solo della proprietà, ma della gestione. Ciò rende più difficile, anzi precario, il passaggio generazionale. Lo si vede oggi che i pionieri del miracolo economico stanno allentando le redini. Basti pensare a Leonardo Del Vecchio: la fusione di Luxottica in Essilor lascia il comando nelle mani dell’imprenditore italiano, la gestione nelle mani dei manager francesi. La barriera manageriale ha un effetto dal lato del capitale parallelo a quello all’articolo 18 dal lato del lavoro.

 

La Banca d'Italia ha studiato il periodo dal 1999 al 2016. La fase peggiore per l'export è stata quella che ha preceduto la grande crisi

Negli ultimi anni sono state messe in campo politiche industriali volte a rimuovere molti di questi ostacoli, offrendo incentivi a investire in macchinari e in uomini, in capitale fisso e capitale umano. Oggi si confrontano due strategie di crescita in parte diverse: la prima vorrebbe potenziare il modello di specializzazione italiano basato sulle nicchie ad alto valore aggiunto, concentrando qui gli sforzi e le risorse. E’ la tattica di puntare su quel che c’è. La seconda, invece, intende spingere sempre più in alto l’asticella, favorendo un aumento della taglia con ogni mezzo, dalle fusioni e acquisizioni all’impiego del lavoro, indirizzando a questo fine anche gli incentivi pubblici. E’ un dibattito in corso tra gli addetti ai lavori che rimanda alla prossima legislatura. I grillini non si occupano molto di industria, non solo perché mesmerizzati dalla decrescita felice, ma perché la loro base sociale viene dai servizi a basso valore aggiunto. La Lega che si è fatta paladina delle micro-imprese del nord-est, finora ha voluto difendere il vecchio modello. Pd e Forza Italia hanno elaborato una concezione meno sommaria di come rafforzare ed espandere l’Italia manifatturiera, anche se sono rimasti prigionieri delle lobby (la Cgil per i piddini prima della frattura introdotta da Matteo Renzi, l’Assolombarda per i berlusconiani). Non sappiamo se la grande metamorfosi del modello industriale italiano diventerà un tema chiave della campagna elettorale, lasciando cadere il falso dilemma euro o lira, stabilità monetaria o svalutazione competitiva. Ma sappiamo che anche in questo caso il futuro si giocherà “nel segreto dell’urna”.