Bambini in un campo in Yemen. Foto LaPresse/XINHUA

I bambini degli altri

Fabiana Giacomotti

Via al pietismo prenatalizio, con molta retorica e qualche ipocrisia. Perché la povertà che commuove è sempre quella più lontana

Da noi, come in tutta l’Europa che ha dato i natali a Janusz Korczak e che dunque ritiene di sapere “come amare il bambino”, il pietismo luogocomunista e gonfio di retorica inizia presto. In onore alla tradizione nazionale, inizia anzi a tavola. “Pensa ai bambini poveri del mondo che non hanno tutte le tue fortune e finisci quella bistecca”. Per chi mette in tavola tutti i giorni bistecche e magari anche salmoni, il primo contatto con la povertà mondiale è dunque un confronto, sottilmente innervato della nozione di privilegio e di un generico ma persistente senso di colpa: la bistecca mi fa schifo, ma sono ancora più schifoso io a non volerla mangiare nel momento in cui un mio coetaneo sconosciuto e privo di tutte le mie fortune, di cui questo pezzo di carne sminuzzata e ormai fredda nel piatto è un segno tangibile, sta morendo di fame. Essendo inoltre la povertà una disgrazia diffusa in ogni momento storico, ma acuita localmente dalle congiunture più sfavorevoli come guerre, epidemie e grandi migrazioni, la locuzione universale del “bambino povero” viene attualizzata a seconda delle epoche, dei luoghi, degli accidenti e, come naturale, delle ricorrenze. 

   

Oggi che le associazioni benefiche non si contano più, il Natale è diventato il principale momento di raccolta diffusa

Per le dame vittoriane commosse dalla lettura della “Capanna dello zio Tom” il bambinopovero rappresentava l’intera categoria degli “schiavi delle piantagioni del sud”, a favore dei quali si riunivano in comitati pro-liberazione vendendo lavori d’ago e i propri abiti smessi nelle town hall di Londra; presso gli antiquari se ne trovano ancora i volantini con l’effigie dello schiavo in catene stampato nel cartiglio. Oggi che le associazioni benefiche non si contano più ma che sono diventate un settore del terziario a tutti gli effetti (solo ai costi del personale Save the Children destina 1,8 milioni di euro e Actionaid 3 milioni su circa 48 milioni di ricavi), il Natale è diventato il principale momento di raccolta diffusa, e il visino smunto di una serie infinita di bambinopovero viene accostato a quello dei cosiddetti nostribambini invece boccoluti e paffuti, che festeggiano il panettone e la mamma con la stessa voce querula e gorgogliante dei testimoni anonimi nelle inchieste delle “Iene”, cioè doppiata da un adulto e stridente come il gesso sulla lavagna.

   

Alle piaghe di un tempo se ne è aggiunta una nuova, la globalizzazione: L’Economist le ha dedicato una copertina e l’editoriale meno di un mese fa: “Left behind. How to help places hurt by globalisation” (“Rimasti indietro. Come aiutare i paesi colpiti dalla globalizzazione”): in estrema sintesi, propone una versione tecnologica e altamente scolarizzata dell’“aiutiamoli a casa loro” renziano, suggerendo che “se per i progressisti, alleviare la povertà significa aumentare il welfare, e per i libertari equivale ad aprire ulteriormente i mercati, la nuova interazione demografica richiede invece un intervento sui territori”. Città da dotare di scuole, deserti da far rivivere. Bellissimo, non fosse che le uniche entità in grado di portare a termine quest’opera, tenendo a bada l’avidità dei politici locali, sono proprio le multinazionali che guidano la globalizzazione e che forse, sulla spinta dei grandi fondi di investimento, sempre più interessati all’etica e alla sostenibilità, potrebbero mettersi una mano sulla coscienza. Quando trovo la casella della posta ingombra di buste e di calendarietti di associazioni benefiche che mi invitano a “pensare al Natale di chi non ce l’ha”, come accade puntualmente anche quest’anno, da un paio di settimane, provo un moto di rabbia al pensiero di quante fra le razioni di cibo e i vaccini che mi si potrebbe chiedere di comprare anche via mail, evitando dunque di sprecare carta e spedizione, equivalgano quei cumuli di carta infilata a casaccio in ogni casella o abbandonata a pacchi nelle portinerie come mendicanti muti e ciechi; questo, senza contare naturalmente l’involontaria ironia della questua pro vax a favore dei generici bambini degli altri (“dove nessun altro arriva, la sua cura sei tu. Natale 2017”), mentre sulla preziosa pelle dei nostri ci interroghiamo invece senza soste e purtroppo, come in questo caso, senza senso. Nel generico continente africano, vaccini senza se e senza ma: se tutti i bambini del mondo sono uguali, che almeno quelli altrui non ci arrivino eventualmente qui con qualche brutta malattia addosso, che i nostri, invece, non producono e non trasmettono. Il bambinopovero ha tutti gli stigmi, povero lui: i nostri, nessuno.

   

Dopo aver raccolto per anni denaro a favore delle donne e dei bambini africani, Food&Life sta iniziando a orientarsi sull'Italia

A mia madre, nata nei primi anni Trenta, venne instillata la nozione che doveva ingoiare fino all’ultimo boccone le cervella fritte servite in tavola ogni mercoledì con i carciofi per non “far piangere i piccoli africani”, idea sempre generica ma vagamente geolocalizzata di quegli anni di imperialismo incerto e violento e di disastri a venire, sebbene temo non abbia capito ancora oggi, dopo una vita dedicata al volontariato attivo e anzi proprio per questo, quale rapporto potesse intercorrere fra quell’ammasso elastico di proteine e di grassi e la tristezza di un bambino in un remoto villaggio che, immagino, si figurasse accanto a un tucul, come nelle figurine Liebig, in quegli anni molto ricercate. A noi delle ultime frange baby boomer veniva invece agitato lo spettro, dolorosamente molto concreto, dei “bambini del Biafra”. Siamo gli unici a citarlo ancora ogni tanto, involontariamente e subito assaliti da una lontana ma ancora persistente inquietudine. Nel periodo in cui la regione affacciata sull’oceano Atlantico tentò la secessione dalla Nigeria avevo quattro anni e nemmeno riuscivo a figurarmi dove si trovasse quel posto dal suono sguincio e obliquo, ma un salvadanaio di cartone per la raccolta degli aiuti e l’immagine di tanti bambini dallo sguardo vuoto e la pancia innaturalmente gonfia era esposto perfino accanto alla cassa della latteria dove ci servivamo ogni giorno. I corpicini deformati dall’ idropisia che dovevano farmi vergognare delle mie scarpette lucidate e quei faccini smunti per i quali non è mai esistita una Carta di Treviso mi sono rimasti impressi fino a oggi che la regione è tornata, da quarantasette anni, a far parte della Nigeria, e che il “bambinopovero” ha sfondato il confine fra simulacro e realtà, trasformandosi in presenza. Dallo stesso paese dove una classe esigua ma ignominiosamente ricca manda i suoi buyer con il cappotto spinato e il collo di pelliccia due volte all’anno a rifornirsi di completi di sartoria a Pitti Uomo, arrivano infatti anche le orde dei disperati via mare, in un contrasto incomprensibile per chi, come Matteo Salvini, si ostina a disconoscere l’intollerabile sperequazione economica e sociale che vige in un paese grande sette volte l’Italia e con un reddito pro capite di poche centinaia di dollari all’anno e da dove infatti fuggono migliaia di uomini, donne e bambini, anzi bambine come nel caso recente della nave approdata a Salerno con i cadaveri di ventisei adolescenti morte per annegamento, non si sa ancora in quali condizioni, e che troveranno sepoltura presso alcuni comuni della zona. Si sono offerti di accoglierle sotto lapidi di fantasia perché nessuno ne conosce il nome e nessuno andrà più a cercare per loro le parole adatte, anche perché parole adatte non ci sono mai e subito si rischia di scivolare nella retorica ritmica e quasi dimenticata di Edgar Lee Masters, del bambino Johnnie “strappato al male a venire”.

   

A noi delle ultime frange baby boomer veniva agitato lo spettro, dolorosamente molto concreto, dei "bambini del Biafra"

Il bambinopovero equivale a una lunga, ininterrotta fila di corpi emaciati con gli occhi sgranati dei cuccioli indifesi fotografati dall’alto, nella prospettiva che li rende ancora più piccoli, indifesi e fragili. Migliaia di immagini identiche. Intollerabili perché vere, e perché indistinte al punto da suonare false. Un tema scivoloso, un’immagine difficile da trasferire nella sua verità. Perché conoscere bisogna e sapere è necessario, ma saper muovere a compassione è ancora più utile, in un mondo che vuole “emozioni” anche quando compra uno yogurt. Ma a quali condizioni, con quali immagini, con quali linguaggi si può evitare di annullare la conoscenza in una carrellata di occhi sgranati tutti identici, simboli di sofferenza svuotati di significato? E, soprattutto, dove? Chi è il bambinopovero di oggi? Pochi mesi fa, Save the Children ha presentato il primo Indice globale sull’infanzia negata nel mondo: a un bambino su sei è negato il diritto all’educazione; 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile; più di sedicimila piccoli sotto i cinque anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili; centocinquantasei milioni sono malnutriti; ventotto milioni sono in fuga da guerre e persecuzioni. Se possibile, per le bambine, il destino è ancora più cupo: chi supera la prima infanzia pare destinata a generarne subito una nuova. Ogni sette secondi una ragazza di meno di quindici anni si sposa, ogni due secondi un’altra partorisce, con impatti devastanti sulla sua salute e sulle sue possibilità future. Questo di solito avviene nell’acquiescente silenzio dei tanti generici osservatori del bambinopovero che ritengono, tuttora, come “in certi paesi le donne si sviluppino prima” perché sapete il caldo, è come con gli ananas, ne butti a terra la buccia ed ecco che rinasce la pianta, e poi partono rasserenati per i tour sessuali. Sono gli stessi che ti insultano quando fai osservare loro che la moda low cost dovrebbe rendere chiari i passaggi di lavorazione dei propri capi, e noi clienti del cappotto a trenta euro esigere l’osservanza di un codice etico contro il lavoro minorile “perché allora i dentisti che non pagano l’Iva, lasciateci almeno comprare vestiti a buon mercato, visto che in quei i paesi il lavoro costa comunque meno” (non sto inventando, cito un commento lasciato sulla mia pagina facebook). Dei “left behind”, a quelli che devono rifarsi la dentiera importa un fico secco, perché vogliono poter sbattere almeno una giacca o un maglione nuovo sul muso del dentista evasore, e che i livelli salariali bassi di alcuni paesi inglobino anche il lavoro minorile non li sfiora. Vogliono interloquire con il dentista evasore da pari a pari e indossando la loro bella giacca nuova. Scoprire a quali condizioni, presumibilmente, quella giacca sia stata confezionata, li metterebbe a disagio, dunque non vogliono saperlo.

    

Una lunga fila di corpi emaciati. Migliaia di immagini identiche. Intollerabili perché vere, e perché indistinte al punto da suonare false

Lo sguardo vuoto del bambinopovero è già monito sufficiente; quando lo street artist polacco Igor Dobrowolski ha iniziato a riprodurre l’immagine di un ragazzino mezzo nudo che prepara i filati in una fabbrica di confezioni accanto agli angioletti biondi e ridenti delle campagne pubblicitarie di Zara o H&M come gesto di denuncia, pur retorica ma di certo efficace, contro quella che ritiene “la nuova schiavitù”, il cliente frustrato del dentista ha preso le difese di Zara e H&M. Eppure, la locuzione del bambinopovero, entità lontana di etnie diverse e carica di storie travagliate, sguardo accusatorio e colpevolizzante quando ci chiede aiuto mentre ci accingiamo ad attaccare i bucatini, volto indistinto e meglio ancora sconosciuto quando ci cuce quella simpatica t shirt a cinque euro, è tornata ad essere una realtà purtroppo significativa anche in Italia. Nel 2016, secondo l’Istat, i bambini che vivono in condizione di povertà assoluta sono saliti a un milione e duecentonovantaduemila: uno su otto, più quattordici per cento rispetto all’anno precedente. Se la Nigeria è il paese dove i minori sono maggiormente minacciati ed esposti a possibili rischi per la loro vita e il loro sviluppo, anche in Italia potrebbero trovarsi in condizioni ben diverse da quelle dei modelli del panettone Balocco “fate i buoni”. Dopo aver raccolto per anni denaro a favore dei progetti di WeWorld in difesa delle donne e dei bambini africani, la onlus di Francesca Senette, Food&Life, sta iniziando a orientarsi sull’Italia: un paio di visite a fianco degli assistenti sociali in alcuni quartieri di Napoli le hanno fatto scoprire una realtà ancora vicina a quella di cui scrivevano i viaggiatori del Grand Tour dopo aver abbandonato per poche centinaia di metri “il bellissimo lungomare di via Caracciolo, ove Napoli assume una grandiosità e un decoro degni di una vera capitale”, è inevitabile citare Goethe di cui ricorrono proprio in queste settimane i duecentotrent’anni dal famoso viaggio. In generale, secondo Save The Children, in Italia l’infanzia incontra condizioni di crescita più favorevoli perfino che in Germania e in Belgio. In particolare, la locuzione del bambinopovero può essere applicata già dietro l’uscio di casa. Nessuno ha il coraggio di farcelo vedere, quel bambino nostro così uguale a quello degli altri. Il nostro sottile senso di superiorità è salvaguardato. Possiamo tornare ai bucatini.

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