Gigi Buffon, l'ultimo capitano
Dopo le lacrime di Italia-Svezia Buffon ha lasciato la Nazionale e forse lascerà il calcio a fine stagione Storia di un campione italiano unico che nessun successore, per quanto forte, potrà mai sostituire
E adesso si fermano tutti sulle lacrime di San Siro. Come se Gianluigi Buffon non potesse farlo. O come se, invece, sia strano che l’abbia fatto. A quasi 40 anni è un fratello (maggiore o minore) per molti, un padre per altri: a Milano è stato semplicemente se stesso. Proprio perché dopo ventuno anni di carriera e tutte le vittorie e le sconfitte la telecamera non fa la differenza. C’è molto di più della delusione di non essere il primo e l’unico calciatore a giocare sei Mondali. C’è molto di più della vergogna per non aver centrato la qualificazione alla Coppa del mondo dopo 59 anni. C’è un calciatore che ha attraversato molte stagioni, non solo anagrafiche. C’è un professionista cambiato, evoluto, maturato. Un anno e mezzo fa, prima dell’Europeo in Francia, sempre a Milano, salì sul palco di un Ted talk per parlare dei campioni: “Non sopporto i miti sui campioni. Oltre a uno sportivo, uno deve essere anche un grande uomo. Questo non è corretto. Non mi sento un grande uomo. Giudicatemi come sportivo”. E Gianluigi Buffon sportivo è campione del mondo nel 2006, otto volte campione d’Italia (più gli scudetti revocati), campione d’Europa Under 21, vicecampione d’Europa con la Nazionale nel 2012, cinque volte miglior portiere mondiale dell’anno, miglior portiere del decennio 2000-2009. Poi il record, quello del 2016. Quello dei 973 minuti di imbattibilità. Il 23 ottobre, prendendo dalle mani di Schmeichel proprio il quinto trofeo di miglior portiere dell’anno, s’è commosso di nuovo. Le lacrime sono lo sfogo dell’emozione e bisognerebbe ringraziare uno che le prova ancora, nonostante tutti i titoli, tutte le partite, tutte le parate. Nonostante sia Buffon. Vittorio Macioce ha scritto: “Alla fine non è che si piange per una sconfitta. Vale per il gioco e per la vita. Quelle si incassano e si mettono da parte. Se bene o male hai vissuto sai che ti tocca fare i conti con le cicatrici. Chi non le ha è bravo solo a mentire a se stesso. Non è la sconfitta il punto. Le lacrime arrivano perché ti accorgi che la tua vita sta cambiando passo, nel bene o nel male senti che stai attraversando un incrocio, un nodo cruciale nella tua storia o nel tuo destino. Come una sorta di segnale, una magia, su quello che ti lasci alle spalle e su dove ti stai incamminando, quello che eri e quello che stai per diventare. A volte piangi perché assapori fino in fondo il sentimento del tempo”.
Il tempo di Buffon è un piano inclinato che tende verso la fine. Si avvicina a tappe senza punti punti ristoro. Non c’è più una sola intervista o dichiarazione approfondita che non passi da quello snodo. Prima di Cardiff e della sconfitta in Champions ha detto che se avesse vinto avrebbe smesso subito, poi ha individuato il momento dell’addio nel Mondiale 2018, poi (prima della consapevolezza di non andarci) aveva comunque detto: “Questa è l’ultima stagione”. Ci siamo, quindi. L’eliminazione di San Siro rende i mesi che ci portano alla fine dell’anno sportivo un percorso verso quel traguardo: “Ciao, Gigi. E grazie”. Grazie, sì. Che non è esattamente scontato, o meglio non lo era. Perché nelle sue vite sportive e umane, non è cambiato solo lui, ma anche e forse soprattutto la percezione che si ha di lui. Esempio: all’inizio del secondo tempo di Italia-Svezia, mentre si avvicinava alla porta sotto la curva Sud, quella che solitamente è occupata dai milanisti, è partito il coro più ovvio, ma anche il meno ovvio a San Siro: “Un capitano, c’è solo un capitano”. Ecco, l’essere un’icona collettiva e condivisa è stata una conquista. Buffon è patrimonio di tutti pur essendo di “proprietà” degli juventini. Il tempo e il modo sono diventati il luogo in cui Gigi s’è conquistato ciò che altri non sono riusciti a prendere. A domanda diretta, una volta ha risposto così: “L’appartenenza è una sensazione positiva e avvolgente. Saper incarnare e rappresentare all’esterno un Dna, che sia di un club o di una Nazionale, credo sia un obiettivo fondamentale a cui qualunque sportivo deve tendere e, col tempo, raggiungere”.
La condivisione del monumento è stata un processo lungo, ma naturale. L’ha consentito la Nazionale, unico territorio in cui la partigianeria si può superare con stile. Non è facile, né immediato perché siamo figli di un calcio scorbutico e totalmente schiacciato sull’appartenenza a un club e alla fede che quel club genera. Quando però si discute dell’utilità dell’Italia, bisognerebbe fermarsi un secondo e allora il pensiero di che cosa è stato Buffon in questi anni è l’esempio da tenere negli appunti. Ricordate che cosa fosse prima? Un campione totale, amato per le parate e discusso per molte altre cose. Che la Nazionale esasperava. Era stato quello sceso in campo contro il Valencia con la maglia numero 88. La comunità ebraica protestò contro quel numero usato dai neonazisti come “versione aritmetica di Heil Hitler”. Buffon se ne uscì così: “Siccome in Italia il simbolo del carattere, piaccia o no, sono le palle, io con quel numero volevo mostrare d’averne quattro”. Oppure la storia del mancato diploma: iscritto a ragioneria, era già un calciatore professionista. Una troupe tv andò a documentare un suo esame in terza. Bocciato. Fece la quarta da privatista, non si presentò agli esami di maturità, però puntuale alla segreteria dell’università di Parma alla facoltà di Giurisprudenza. Presentò un diploma rilasciato da una scuola romana che, interpellata per il controllo, negò: “Mai avuto il signor Buffon come studente”. La faccenda finì alla procura della Repubblica di Parma, che all’epoca non aveva il caso Parmalat, non aveva bimbi rapiti e uccisi, insomma non aveva molto da fare. Gigi ci rimase male: “Le polemiche sul numero di maglia e sul diploma sono stati due avvenimenti terribili. Il fatto poi che si siano succeduti uno dietro l’altro mi ha fatto pensare a una sorta di accanimento. Da parte mia, però, c’è sempre stata buona fede. Se poi c’è stato un errore si è trattato di un classico sbaglio di gioventù che si perdona a tutti. Perché non a me?”.
Il Mondiale 2006 e l’autunno successivo hanno modificato tutto. Mentre il percorso personale era cominciato prima, alla vigilia dell’Europeo 2004, il primo da titolare: “Avevo affrontato un periodo difficile a livello personale. Ero molto spaventato dalla prima uscita. Avevo paura di fallire. Grazie al talento e alla fortuna ho disputato una buona partita, contro la Danimarca. E ho svoltato. Ricordo lo choc e le emozioni procurate da alcune parate importanti. Al fischio finale, per la prima volta in 5-6 mesi, non ho più sentito tremori alle gambe: stavo ritrovando la forza che mi aveva sempre accompagnato. Era come se fossi nato di nuovo. La partita finì 0-0, erano tutti arrabbiati tranne me, che avvertivo di aver probabilmente superato un momento difficile”. Senza saperlo, ma avendo fatto qualcosa per se stesso Buffon era già sulla strada della credibilità universale, ma l’ha certificata il giorno dopo il trionfo di Berlino con la bandiera sulla fronte nel viaggio verso Roma e poi sull’autobus scoperto che portò i campioni del mondo al Circo Massimo. Applausi a lui, all’orgoglio, all’attaccamento. “Ho giocato soprattutto per l’Italia, perché l’orgoglio di essere italiano lo sento sul serio. Non li sopporto quelli che dicono di non tifare per la Nazionale perché c’è questo o c’è quello. Mi stanno sulle scatole e mi fanno anche un po’ paura. Se fossimo in guerra, darei l’anima per salvare un italiano ferito, anche se fosse la persona che più mi sta antipatica al mondo”. Era passato poco più di un mese dai veleni e dai sospetti sulle scommesse. La coppa alzata non è stata una lavatrice delle coscienze collettive, ma un meraviglioso, unico momento di presa d’atto della necessità di essere diversi. E aver accettato la serie B subito dopo è stato il momento di definitiva umanità. Buffon è diventato Gigi. Non era mai stato simpatico fino a quando non è retrocesso, Buffon. Juventino in questo e in molte altre cose. La fine dell’èra Moggi, la coincidenza con la vittoria del Mondiale, l’obbligo di finire in B, l’hanno ridisegnato agli occhi degli altri, di chi lo aveva raccontato fino ad allora e ne aveva sempre tracciato un ritratto a due facciate: fenomenale in campo e un po’ oltraggioso fuori. Il dopo Berlino ha modificato la percezione, ha purificato le anime: sui giornali è venuto fuori il Gigi che si spende per beneficenza, che va in Africa per N’Kono a regalare un pozzo a un villaggio, che faceva il servizio civile in una comunità di recupero per drogati: “C’erano persone più sfortunate che avevano bisogno di aiuto ma anch’io ho cercato il loro aiuto perché mi hanno fatto tornare con i piedi per terra”. Anche quella storia dei cori ultrà che fino ad allora era stata usata per disprezzarlo ora cambia pelle, diventa la faccia pulita del tifo. La raccontava sempre sua sorella Guendalina: “C’è una piccola casa di fianco alla nostra villetta. Lui si chiude lì dentro, nessuno lo può disturbare, e sapete che cosa fa? Si mette a cantare i cori degli ultrà. Una volta l’ho spiato dalla finestra, mi sembrava impazzito. Saltava come un bambino, rideva. Gli ho detto: ‘Guarda che tu sei un giocatore, mica un tifoso’. Mi ha risposto che l’anima non gliela cambierà nessuno, e ha ripreso a cantare come fanno i Boys. Ogni volta che torna a casa, la scena si ripete”. Quel Buffon che passava per l’antipatico in quel momento è diventato un fenomeno da cabaret: lo imitava Fiorello a “Viva Radio 2”, lo imitavano su RadioDeejay a “Sciambola”. Quel tono di voce un po’ indolente, quell’atteggiamento di chi non si preoccupa mai. “Non pensarci; forse anche non pensare. Il dono dello stupore. L’arte della leggerezza”, scriveva all’epoca il Corriere della Sera. Il che era anche e soprattutto una comodità per noi tutti. Buffon era uno di quelli con cui comportarsi a seconda dell’esigenza. Il suo essere leggero faceva comodo sempre, quando bisognava raccontare la diversità del portiere. Perché era quello con l’altra maglia: istrione, giocoso, bizzarro, talentuoso. Un po’ fuori. L’età l’ha fatto entrare in una nuova dimensione: prima capitano. Poi statua. Gli anni hanno portato molte cose. Dice lui: “L’età aiuta molto. Mi rendo conto di vivere e osservare il mondo in maniera sensibilmente diversa da quanto non facessi da ragazzo. E questo credo sia più che normale. Credo appartenga alla naturale evoluzione delle persone. Ed è ancora più affascinante pensare di essere il capitano di uno spogliatoio decisamente più giovane (…). Guardando alla carriera sportiva, penso di aver raggiunto risultati e traguardi straordinari, grazie alla professionalità e all’abnegazione che certamente possono rappresentare – e ne sarei orgoglioso – un modello da seguire. Mi chiedono se mi sono pentito di qualcosa in questi anni. E’ una domanda sibillina. Conoscete qualcuno che sinceramente non sia mai pentito di qualcosa? Io no. E, ovviamente, anch’io appartengo alla categoria di coloro che hanno vissuto, sperimentato, sbagliato. E quindi – in alcuni momenti della mia esistenza – mi sono pentito degli errori fatti. Ma ho sempre avuto la convinzione che l’errore sia una componente fondamentale della maturazione individuale e in quanto tale, per quanto non ricercato, vada vissuto nel suo tempo presente”.
Oggi non li vedi più, non li senti più. Spariti nel volgare ricordo del tifoso che critica anche le lacrime di San Siro, come se uno come lui non dovesse versarle, perché non gli spetta, non gli è permesso. Invece no. E non sono state le lacrime, sinceramente. Ma l’assunzione di responsabilità: quando nessuno voleva né farsi vedere, né parlare lui è andato di fronte alla telecamera e s’è preso il carico di essere il frontman della delusione. In un paese senza coraggio è stato un gesto da eroe contemporaneo. Le lacrime sono la forza di un uomo. Lo sono state per Franco Baresi a Pasadena nel 1994, quando nessuno s’è sognato di criticarlo. Si piange per molti motivi, quello dell’altra notte sta tra i migliori. Ammesso che ci sia una classifica possibile. Semmai dovrebbe far riflettere noi. Che cosa saremo nel dopo Buffon? Se Totti ha lasciato il vuoto enorme in una città, Gigi lascerà il vuoto in un ruolo fondamentale in campo e in un atteggiamento diventato unico fuori. A concederglielo sono stati proprio gli errori ammessi e poi sanati, le difficoltà, i veleni, le accuse, i sospetti. Tutto sepolto dal talento infinito di un calciatore che non è mai stato soltanto un portiere. Perché a un certo punto ha smesso del tutto di essere quello con la maglia diversa, ma il più uguale di quelli con la maglia uguale. “Purtroppo, o forse per fortuna, vince sempre solo uno. E non sempre è quello più forte. Ma questo credo sia la bellezza, e non la crudeltà, dello sport”. La bellezza s’è manifestata nella sua crudeltà, mettiamola così. E ora? Non vederlo più in Nazionale sarà un problema, non per la qualità dei suoi successori, quanto per la difficoltà di trovare uno che si rappresenti e ci rappresenti. Capitano. Ce l’abbiamo oggi? La fascia e le parole, le mani e la testa, le parate e le parole. Nel bene e nel male, un italiano.
Il Foglio sportivo - in corpore sano