Più Sgarbi di così
Ha fatto proiettare un docufilm sul generale Mori all’Assemblea regionale siciliana. E l’antimafia della gogna grida allo scandalo
In fin dei conti il provocatorio Vittorio Sgarbi potrebbe semplicemente avere cercato di riequilibrare le cose. Tre giorni fa ha deciso di proiettare all’Assemblea regionale siciliana un docufilm sul generale Mario Mori. “Generale Mori – Un’Italia a testa alta”, si intitola il lavoro di Ambrogio Crespi. Apriti cielo: gliene hanno dette di tutti colori al neo assessore regionale ai Beni culturali. Non era proprio il caso di “celebrare” quel manigoldo di un generale d’intesa con il presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, che gli ha messo a disposizione una sala del Palazzo dei Normanni che ospita il parlamento. E che sala, quella intitolata a Piersanti Mattarella e Pio La Torre, compianti governatore siciliano il primo e segretario dei comunisti il secondo. Entrambi assassinati dalla mafia.
Peccato mortale, visto che Mori è considerato il personaggio chiave della Trattativa tra lo Stato e la mafia a cavallo delle stragi del ’92 e per questo motivo è ancora imputato al processo di Palermo giunto alle battute finali. I pubblici ministeri hanno iniziato la requisitoria in Corte d’assise. Gli antimafiosi da gogna, quelli che hanno da sempre la verità in tasca e neppure lo scrupolo di aspettare le sentenze, non si sono lasciati sfuggire l’occasione per gridare allo scandalo.
Mori è considerato la figura chiave della presunta trattativa Stato-mafia ed è ancora imputato al processo di Palermo
Hanno battuto un colpo, solo per citarne alcuni, Giancarlo Cancelleri, leader siciliano del Movimento 5 stelle (“Scredita il parlamento”), Fabio Granata, uno dei fondatori di Diventerà bellissima, il movimento del governatore Nello Musumeci (“Questa è una autentica vergogna”), Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo e anima delle Agende rosse (“Un’iniziativa deplorevole”) che si sono radunati con un drappello sparuto sotto il Palazzo dei Normanni per protestare. Disturba parecchio il fatto che si proietti un docufilm che racconta i successi investigativi di Mori, dalla lotta al terrorismo all’arresto di Totò Riina. Il generale non deve sfuggire al destino di colpevole a prescindere. Negli ultimi mesi la procura di Palermo ha ripreso una chiave di lettura già scandagliata in passato: il dialogo segreto con i boss non fu portato avanti solo da Mori per conto di politici e governanti, ma anche dagli uomini dei servizi segreti.
C’era una strategia della tensione molto più complessa che affondava le radici nella destra eversiva e nella massoneria, di cui Mori sarebbe stato il cardine. Qualcosa che andrebbe oltre la discussione intavolata con don Vito Ciancimino, il papello con le richieste di Riina per fermare le stragi, il doppio gioco di Provenzano e il ruolo dell’immancabile Silvio Berlusconi terminale della seconda parte della Trattativa, tramite Marcello Dell’Utri. C’è chi ritiene di conoscere tutto e il peggio sul conto dell’ufficiale che ha guidato il Ros e i servizi segreti. Ne sanno molto più dei giudici che indossano la toga nelle aule e non fanno i processi nella pubblica piazza. Che poi sono gli stessi che nell’ultimo ventennio hanno assolto Mori con sentenze ormai definitive. Resta la Trattativa, però, la madre di tutte le presunte nefandezze a pesare sul capo del generale e di Giuseppe De Donno, il suo fidato braccio destro e coimputato.
La pellicola racconta i successi investigativi dell'ufficiale che ha guidato il Ros, dalla lotta al terrorismo all'arresto di Totò Riina
Non importa che, appena qualche mese fa, in giugno, Mori sia stato scagionato definitivamente in Cassazione dall’accusa di avere fatto scappare Bernardo Provenzano nel 1995, quando era tutto pronto per arrestarlo nelle campagne di Mezzojuso, un paesino dell’entroterra palermitano. Non importa che Mori sia stato assolto in passato per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, in via Bernini, a Palermo. Sono tessere saltate di quel puzzle che, secondo l’accusa, dimostrerebbe l’accordo scellerato fra la mafia e pezzi delle istituzioni. Vent’anni di indagini e processi fanno di Mori, sempre comunque e al di là delle assoluzioni, un ospite indesiderato che “disonora la politica e il Parlamento siciliano”.
Nessuno che abbia voluto cogliere nella proiezione del docufilm all’Assemblea regionale siciliana un’occasione di confronto, anche aspro, magari di scontro fra accusa e difesa. No, quel provocatore di Sgarbi doveva starsene buono. Ha sbagliato due volte, nell’organizzare l’iniziativa e nel chiedere a Miccichè, che gliel’ha concessa, la Sala Gialla del Palazzo dei Normanni. Il luogo istituzionale andava preservato dallo “sputtanamento” della presenza di Mori e De Donno. Il clamore delle urla antimafiose stride oggi con il silenzio che ha accompagnato analoghe manifestazioni, di indirizzo opposto, organizzate negli ultimi decenni. Le università, molto attiva è stata la facoltà palermitana di Giurisprudenza, hanno ospitato convegni su convegni nel corso dei quali la Trattativa è stata presentata come il Verbo che si è propagato in giro per l’Italia. Tutti, magistrati inclusi, hanno avuto modo di spiegare e puntellare la loro posizione colpevolista, ben prima che le sentenze ne smentissero pezzi di ricostruzione. Gli stessi magistrati, in compagnia di autorevoli opinionisti, hanno occupato per una lunghissima stagione i talk-show televisivi in assenza, o quasi, di contraddittorio. Come Antonio Ingroia, che celebrava il suo processo, poi lasciato in eredità ai colleghi, e la “quasi icona antimafia” Massimo Ciancimino. Si era guadagnato una ribalta mediatica inimmaginabile e si convinse di essere pronto alla discesa nell’agone politico. Gli andò male e fu riprotetto con un posto nel sottogoverno di Rosario Crocetta.
In alcune scuole italiane si è ritenuto opportuno proiettare il film “La Trattativa” di Sabina Guzzanti che certo non era tenera nel giudizio su Mori seppure con la corretta dose di ironia necessaria per chi fa il suo mestiere. Solo che la presero parecchio sul serio. Ad esempio, il comune di Palermo guidato dal sindaco Leoluca Orlando, fece dello slogan “La trattativa continua” una proposta “educativa” rivolta agli studenti, da ospitare nei capannoni dei cantieri culturali della Zisa. La cultura da costruire postulando la Trattativa, come si fa con i principi matematici di Euclide. Nessuno si è scandalizzato in questi anni per il fatto che in luoghi istituzionali e dove si formano le coscienze dei giovani si offrisse una unica chiave di lettura su una stagione giudiziaria, puntando il dito contro Mori, il colpevole a prescindere. D’altra parte è un vizio tutto italiano quello di dimenticare un caposaldo della Costituzione, il principio di non colpevolezza. Difficile scardinare il meccanismo psicologico che appiattisce il giudizio sulla posizione del pubblico ministero. Basta la parola di un pm per essere giudicati colpevoli nei processi di piazza. Il garantismo, in terra di Sicilia, ha finito per essere scambiato per connivenza. E le parole di Cancelleri ne sono la conferma: “E’ una vergogna. Con tutto il garantismo che vogliamo, resta il fatto che Mori è imputato in un processo importante per l’Italia e la Sicilia. Qui siamo all’assoluzione preventiva”. L’assoluzione preventiva non piace, la condanna di piazza sì.
Nessuno si è scandalizzato in questi anni per il fatto che si offrisse un'unica chiave di lettura, con Mori colpevole a prescindere
E allora disturba che qualcuno, peggio ancora se si tratta di quel provocatore di Sgarbi, dica la sua in controtendenza con chi da decenni professa la fede nella Trattativa e crede nell’infallibilità di una parte della magistratura. Il neo assessore ai Beni culturali considera “un attacco allo Stato” dai “contorni eversivi” il fatto che i pubblici ministeri abbiano portato sul banco degli imputati, anche solo da un punto di vista etico, i due ex presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano e Oscar Luigi Scalfaro. E ricorda come la volontà di pubblicare le telefonate fra Nicola Mancino e Napolitano portò allo scontro istituzionale con la Consulta che decise di distruggere le conversazioni che la stessa accusa riteneva ininfluenti. Parole ruvide quelle di Sgarbi, ma probabilmente meno provocatorie di quando disse che “Nino Di Matteo ha tratto beneficio delle minacce di morte ricevute dal carcere da Totò Riina. Ha cavalcato l’onda per fare l’eroe”. Meno di quelle con le quali, prima di appoggiare Nello Musumeci, disse che voleva correre da solo per l’incarico di governatore e annunciò che Mario Mori e Bruno Contrada sarebbero stati suoi assessori. Quella sì, era sembrata da subito una provocazione.
L’unico a fare una dichiarazione lontano dai toni del tifo da stadio è stato Claudio Fava. “Il punto non è invitare o meno Mori all’Ars – ha detto – il problema è che questo documentario è particolarmente omissivo e di chiaro impianto agiografico. Invitare Mori all’Ars almeno avrebbe dovuto essere un’occasione per chiedere spiegazioni su molte cose mai chiarite”. Per il resto si va dalla grillina Valentina Zafarana (“Sgarbi ha perso un’occasione per stare zitto”) al presidente regionale del Pd, Giuseppe Bruno (“Ma Sgarbi anziché organizzare il cineforum insieme a Miccichè, perché non si occupa della cultura in Sicilia? Dai, Vittorio, prova a fare qualcosa prima di scappare per un altro incarico)”.
Il neo assessore sta lavorando a un disegno di legge per le creazione di un'agenzia che si prenda cura dei malandati beni culturali siciliani
A proposito, che farà Vittorio Sgarbi? Per sua stessa ammissione la parentesi siciliana potrebbe essere breve. Aspetta di capire cosa accadrà a livello nazionale. Una candidatura alle politiche o un posto da ministro in un governo di centrodestra lo allettano parecchio e non ne ha fatto mistero. Se davvero andrà via presto c’è il rischio che faccia comunque in tempo a lasciare un segno molto più tangibile dei suoi impalpabili predecessori. Per merito suo o demerito degli altri si vedrà. Sgarbi sta lavorando a un disegno di legge per le creazione in Sicilia di un’agenzia per la bellezza che si prenda cura, e seriamente, dei malandati beni culturali siciliani e li faccia diventare davvero motivo di orgoglio e fonte di reddito per i siciliani. Ha pure pensato alla persona che dovrebbe guidarla, e cioè Massimo Bray, che è stato ministro dei Beni culturali nel governo Letta, già redattore responsabile della sezione di Storia moderna dell’Enciclopedia La Piccola Treccani.
Sgarbi sta girando molto in questi primi giorni da assessore per una ricognizione dei luoghi della bellezza siciliana, come se la precarietà dell’incarico non gli appartenesse. Dalle grandi alle piccole cose: a Morgantina e Mozia, per esempio, ha cambiato il percorso delle visite e il punto di ingresso. E mentre gira lavora a un calendario di mostre per valorizzare ciò che in Sicilia c’è già, come le ville Liberty di Palermo, la Venere di Morgantina – destinata all’oblio e per la quale Sgarbi pensa a un’azione promozionale realizzando due copie da esporre a Palermo e Roma – i dipinti di Antonello da Messina della galleria di Palazzo Abatellis, la tradizione orafa siciliana. E poi ci sono gli allestimenti con i contributi esterni. Il calendario degli appuntamenti prevederà esposizioni di Caravaggio, Benedetto Civiletti, Gino De Dominicis, le fotografie di Robert Capa e Italo Zannier. Insomma, sarà Sgarbi a gestirla o qualcun altro al posto suo, in ogni caso si prospetterebbe una stagione frizzante peri beni culturali siciliani. E non è una provocazione.
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